L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

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Stelle, simboli, indugi

di Fabiana Crepaldi

Un cast stellare, un allestimenti ricco di simboli con esiti altalenanti e una direzione che punta su tempi lenti ora suggestivi ora problematici: Tannhäuser  apre il mandato di Nikolaus Bachler a Salisburgo.

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SALISBURGO, 9 aprile 2023 - È stata la notizia di Tannhäuser al Festival di Pentecoste di Salisburgo, che avrebbe riunito Jonas Kaufmann, Marlis Petersen, Elīna Garanča e Christian Gerhaher (i primi tre al debutto nei rispettivi ruoli) a farmi decidere di trascorrere la prima quindicina di aprile in Europa.

Con alcune modifiche, la produzione, firmata da Romeo Castellucci, era la stessa che nel 2017 ha debuttato alla Bayerische Staatsoper sotto l'impeccabile direzione di Kirill Petrenko. Oggi con la bacchetta di Andris Nelsons, la versione scelta è stata, come già accaduto a Monaco, quella viennese del 1875, l'ultima lasciata da Wagner. È interessante notare che la partitura di questa versione è stata rivista e stampata solo nel 2003, quando Hartmut Haenchen l'ha proposta ad Amsterdam. 

In generale, ci sono alcune caratteristiche che aiutano a riconoscere la versione viennese: il preludio non riprende il tema iniziale dei pellegrini, come nella prima versione, quella di Dresda e quella di Parigi, ma, al contrario, passa direttamente al baccanale senza interruzioni; vengono mantenute le parti di Venere incorporate nella versione parigina, con una scrittura vicina a quella di Tristan und Isolde; viene ripristinata l'aria di Walther nel secondo atto, eliminata nella versione parigina per problemi con l'interprete.

Tannhäuser ha tra i suoi temi principali la forza creativa e la non accettazione che devono affrontare gli individui con la capacità di innovare in una società tradizionale, chiusa e legata alle regole, per cui questa nuova scrittura nel primo atto della revisione parigina contribuisce a sottolineare la differenza tra questa fonte di libera ispirazione proveniente dal Venusberg e l'atmosfera operistica più tradizionale e romantica italiana del secondo atto proveniente dalla Wartburg.

Siamo stati accolti, in teatro, da una luce bianca e da una discreta freccia. La freccia, il classico simbolo fallico con cui Cupido ci ammalia, è anche un simbolo di movimento, un vettore con lunghezza, direzione e senso. E il movimento, con la coreografia (di Cindy Van Acker), non mancava nell'allestimento. Nel preludio, il tema dei pellegrini stava ancora suonando quando sono entrate in scena delle figure femminili seminude, un gruppo di amazzoni, con archi e frecce. Ma non si trattava di amazzoni comuni: sembravano praticanti del kyūdō ("La via dell'arco"), l'arte marziale giapponese del tiro con l'arco. È una miscela di mitologia greca e orientalismo, due culture, due tradizioni mistiche.

Quando è iniziato il tema di Venusberg, sul fondo del palcoscenico è apparsa un'immagine sferica con parte di un volto di cui era visibile praticamente solo l'occhio. Dopo aver puntato minacciosamente ma con riverenza delle frecce nella nostra direzione, le Amazzoni si sono girate verso questa immagine e hanno iniziato a lanciare i proiettili sonori per evidenziare le parti più scure dell'immagine, soprattutto l'occhio. Quando il canto delle sirene stava per risuonare, l'immagine proiettata è cambiata, è diventata un orecchio (coperto di frecce). Vista e udito: i due sensi principali che provocano la reazione degli istinti; i sensi attraverso i quali siamo stati attratti dal bello; i sensi attraverso i quali abbiamo interagito con l'opera nel suo complesso: musica, poesia, teatro.

Tannhäuser ha risposto al richiamo delle sirene e una controfigura di Jonas Kaufmann è stata portata in alto, scalando l'immagine come se stesse scalando una parete, e non utilizzando più le frecce, come nella produzione originale, il che ha lasciato un po' vuoto il significato e il ruolo delle frecce. Nell'immagine proiettata, l'orecchio ha lasciato il posto a una mano che tiene una mela. La tentazione, la seduzione nella cultura giudaico-cristiana, ma anche l'inizio della guerra di Troia in Grecia.

Niente di più wagneriano. Per Richard Wagner, il mito è il materiale ideale per il poeta: "Il mito è il poema primitivo e anonimo del popolo, e lo troviamo, in tutti i tempi, ripreso, incessantemente riformulato, dai grandi poeti. Nel mito, infatti, i rapporti umani (...) mostrano ciò che di veramente umano c'è nella vita, ciò che è la comprensione eterna (...)". Ma, come osservava Charles Baudelaire, "i fenomeni e le idee che si ripetono periodicamente nel corso dei secoli conferiscono sempre a ciascuna risurrezione il carattere complementare di variante e di circostanza. La radiosa Venere di un tempo, l'Afrodite nata dalla schiuma bianca, non ha attraversato impunemente le orribili tenebre del Medioevo. Non abita più l'Olimpo o le coste di un arcipelago profumato. Si ritira nelle profondità di una grotta, magnifica, è vero, ma illuminata da un fuoco che non è quello del benevolo Febo. Scendendo nel sottosuolo, Venere si avvicina all'inferno (...)".

La Venere di Castellucci, nella produzione originale di Monaco, è proprio l'abitante del fondo della caverna, del centro della Terra. Essa deriva direttamente dalle cosiddette Veneri Paleolitiche, statuette che rappresentano figure femminili. Una delle più famose è la minuscola Venere di Willendorf, che ho incontrato qualche giorno dopo l'opera al Museo di Storia Naturale di Vienna. L'origine del nome di queste statuette risale alla metà del XIX secolo, quando il marchese di Vibraye scoprì la prima di queste statuette e la chiamò "La Vénus Impudique". La maggior parte di esse ha le parti legate alla riproduzione rappresentate in modo esagerato, quindi, anche se il loro significato non è noto con certezza, sono spesso legate alla fertilità, alla Dea Madre, alla Madre Terra.

In origine, la Venere di Castellucci era attaccata alla terra, al suolo. Figure per metà umane, per metà viscose, per metà deformate, in cui fluidi, corpi inquieti, argilla e magma sembravano fondersi, formavano, con lei, un tutto. Per l'interprete, la sfida consisteva nel recitare senza usare tutto il corpo, ma solo la voce, la mimica facciale e le braccia. Nel rifacimento, il primo atto, più precisamente Venere, è stato quello che ha subito i maggiori cambiamenti. Questo probabilmente per accogliere Elīna Garanča che, tuttavia, ha finito per annullare la sua partecipazione per problemi di salute (non è la prima volta che si ammala alla vigilia del debutto di un ruolo). La Venere di Salisburgo ha iniziato come la Venere di Monaco, ma ben presto si è liberata dalla sua forma di Venere-figura, si è alzata e ha iniziato ad agire liberamente. Le sostanze viscose e repulsive sono scomparse: sono state sostituite da tessuti. Gradualmente, i tessuti vicini alla Venere divennero rosa, quasi rossi. Tutto divenne più chiaro. Ai miei occhi, il cambiamento è stato molto gradito, la produzione ha guadagnato molto in estetica, in movimento e ha iniziato a presentare diverse forme di Venere. In termini di messa in scena, è stato l'atto meglio risolto.

Con la cancellazione di Garanča, Venere ha trovato la sua interprete nel soprano inglese Emma Bell. La sua voce non ha certo il peso di quella di Garanča, ma una Venere soprano mi piace sempre, a maggior ragione quando in Elisabetta c'è una voce lirica e delicata come quella di Marlis Petersen e in Tannhäuser un tenore dal timbro scuro ma sottile come quello di Jonas Kaufmann. Se l'interpretazione di Bell non è stata memorabile e i suoi acuti sono suonati un po' aspri, se c'è stata una generale delusione per l'assenza di Garanča, il suo timbro si è ben amalgamato con il resto del cast e la sua partecipazione è stata buona.

Come nella produzione originale, Tannhäuser appare da una fessura a forma di figura umana iscritta in una circonferenza, ora senza le proiezioni. Molto probabilmente questa fessura è Elisabeth (il secondo atto confermerà questo sospetto); è attraverso Elisabeth che Tannhäuser raggiunge il mondo di Venere? O attraverso la sua assenza? Oppure, poiché Tannhäuser si sveglia e racconta, tenendo la "mano" della fenditura, che gli è sembrato di sentire, in sogno, una canzone da tempo dimenticata, la fenditura rappresenta questa assenza di Elisabeth, anche senza che ne sia consapevole. Conduce al ritorno? Non ho la risposta, e non so nemmeno se ci sia, perché si tratta di una produzione aperta, che propone una riflessione sull'opera, sui simboli e sulla musica, piuttosto che risposte rapide e definitive.

Come diceva giustamente Wagner, il mito viene rinnovato, rivisitato in ogni cultura. Guardando Tannhäuser uscire dalla grotta di Venere, dove è stato a lungo trattenuto e separato dal suo popolo, lasciando Elisabeth ad attenderlo, è impossibile non ricordare Ulisse, che per sette anni fu imprigionato nella grotta della ninfa Calipso, la ninfa divina che lo voleva come marito. La differenza è che Ulisse fu presto perdonato dagli dei dell'Olimpo, mentre Tannhäuser non ebbe la stessa sorte nel mondo cristiano: per salvarlo fu necessario, come nel Faust di Goethe, che una donna si sacrificasse. Una volta fuori dalla grotta, Tannhäuser vede i pellegrini che si recano a Roma per ottenere il perdono. Vestiti di nero, portano insieme un grande metallo lucente: il peso dei vostri peccati, per i quali andate insieme a chiedere perdono? Quando torneranno, nel terzo atto, dopo essere stati perdonati, ognuno porterà un pezzo leggero di quel metallo, che nella produzione originale era lucido, ma che ora ha perso la sua lucentezza e diventerebbe un po' difficile da vedere da lontano. I loro peccati, una volta perdonati, cesseranno di essere un peso e diventeranno una ricchezza?

L'ultima scena del primo atto, quando i cacciatori, vestiti con abiti che ricordano le arti marziali orientali, tornano dalla caccia e trovano Tannhäuser, la scena è segnata dal sangue. Da quel momento in poi, lo spettacolo diventa sempre più enigmatico e carico di simboli, ma fortunatamente senza perdere una musicalità accattivante. A questo punto, alla fine del primo atto, si notava già l'altissimo livello di tutto l'ensemble, soprattutto del fantastico baritono Christian Gerhaher, che interpreta Wolfram fin dalla prima della produzione a Monaco, con la sua voce enorme, il suo bel timbro, il suo fraseggio naturale, la sua dizione impeccabile. È stato un peccato che la sua linea di canto sia stata danneggiata dal tempo lento di Nelson. Abbiamo, come consolazione, la scorrevole "O du mein holder Abendstern" del video di Monaco, che non è intervallata da pause come la versione al rallentatore presentata a Salisburgo.

Georg Zeppenfeld ha interpretato anche Hermann, il langravio di Turingia, nella stessa produzione. È un eccellente basso e la sua partecipazione ha dato particolare lustro al secondo atto. È stato lui a gestire al meglio il ritmo di Nelson.

Castellucci ha allestito la grande sala del secondo atto in uno spazio con tende semitrasparenti. Si è creata un'atmosfera intima e un po' misteriosa. È in questa sala che Elisabetta saluta dopo una lunga assenza. Vestita con una veste bianca su cui è stampata una donna nuda come se l'abito fosse trasparente come le tende, l'Elisabetta di Castellucci simboleggia sia la donna pura e sacra sia il desiderio carnale di Tannhäuser. In parte del duetto tra Tannhäuser ed Elisabeth, il sipario li separa. Il palcoscenico del concorso canoro era pieno di rituali e danzatori orientali. I piedi sono visibili sotto la tenda. Nel 2017, i diversi angoli sono stati illustrati con parole scritte su un cubo centrale. Quando è stato riassemblato, il cubo ha cambiato aspetto, diventando rosa al canto di Tannhäuser. A quel punto hanno iniziato a comparire delle macchie, come se fosse sporco. Quando tutti sono inorriditi da Tannhäuser e dal suo elogio di Venere, appare una novità scioccante, ma a dir poco sconvolgente: una comparsa vestita di nero dalla testa ai piedi, come se fosse avvolta dal catrame, una figura caricaturale di diavolo, inizia a strusciarsi contro Tannhäuser, lasciando macchie nere sulla sua veste bianca fino ad allora immacolata.

Un momento bellissimo della produzione è l'inizio del terzo atto, quando Elisabeth prega ai piedi di Maria. Castellucci è letterale in questo punto: vediamo solo il cubo, un piedistallo, con il nome "Maria" e i piedi, bianchi, presumibilmente di Maria. Questo dà più forza a Elisabeth, alla sua preghiera, e l'effetto è particolarmente gioioso quando si ha un'attrice della statura di Marlis Petersen.

Questo terzo atto parla di sacrificio, di finitudine, di opposizione tra l'effimero e l'eterno, tra il carnale e lo spirituale. Così, mentre la musica senza tempo di Wagner suona, vediamo tombe con resti mortali che decadono con il passare del tempo e i nomi degli interpreti: Jonas e Marlis. Tuttavia, questo toglie un po' di significato a un bellissimo gesto che potrebbe significare la realizzazione dell'amore dopo la morte, tanto caro a Wagner e al romanticismo: i due interpreti versano le rispettive ceneri, che si mescolano, si combinano, si confondono e diventano un unico mucchio di cenere. Essendo le ceneri di Tannhäuser ed Elisabeth, la scena è estremamente bella e simbolica degli ideali romantici; essendo quelle di Jonas e Marlis, non c'è bisogno di dire nulla.

Originariamente prevista per Anja Harteros, la produzione richiede una Elisabeth che, oltre a essere una grande cantante, è anche una grande attrice, che ha sottigliezza, profondità. E Marlis Petersen, che ha debuttato non solo nel ruolo, ma anche in un'opera di Wagner, è un nome che soddisfa questi requisiti. La prima cosa da notare è che quando un interprete assume un ruolo che è stato precedentemente incarnato da un grande nome come Harteros, è consuetudine, soprattutto quando c'è un video, che il nuovo interprete cerchi di riprodurre, almeno scenicamente, la performance del predecessore. Questo non è stato il caso di Marlis Petersen: la sua Elisabeth era totalmente diversa da quella di Harteros, ha creato un personaggio completamente nuovo. Mentre Harteros, a giudicare dal video, interpretava un'Elisabeth introspettiva, trascendentale e già un po' assente, per la quale la morte sembrava davvero l'unico esito possibile, l'Elisabeth di Petersen era estremamente umana: aveva i suoi momenti di fragilità, che il suo timbro leggero contribuiva a creare, e altri di grande forza e determinazione. La resa è avvenuta nell'ultima, eterea preghiera in pianissimo del terzo atto. Nella grande scena finale del secondo atto, drammaticamente più impegnativa, è stata straordinaria: ha costruito un'Elisabeth ferita dall'uomo che aveva aspettato così a lungo, che amava incondizionatamente, ma che sembra aver cercato la forza proprio in quel colpo di grazia, al punto che, con un suono acuto, avrebbe potuto tenere testa a tutti quegli uomini. Il suo "Zurück von ihm!", con recitazione e canto incisivo, ha lasciato il posto a un lirico "Ich fleh für ihn", con un buon legato, che si conclude con lei che conficca una freccia nella schiena di Tannhäuser (insieme al testo, che ricorda che anche il Salvatore fu immolato per lui, questa freccia ci rimanda direttamente alla lancia di Parsifal).

Nel concertato, nella breve parte in cui Wagner si è certamente ispirato alla fine della Norma di Bellini, quando Elisabeth offre la sua vita per quella di Tannhäuser, quando spicca la linea del soprano, il suo crescendo ha dato forza alla scena. È vero: la voce di Petersen non ha le caratteristiche che siamo abituati a sentire in questo e in altri ruoli wagneriani, territorio dominato, soprattutto nel XX secolo, da soprani drammatici. Ma la voce, per quanto sempre auspicabile, non è tutto nell'arte lirica. Grande interprete, la sua solida tecnica l'ha aiutata a superare le sfide offerte dalla sua stessa voce e da un'orchestra talvolta rumorosa e lenta, che l'ha ostacolata in particolare nella sua prima aria, "Dich, teure Halle", all'inizio del secondo atto. Ho sentito dire dai cantanti che se si sa pronunciare bene un testo, lo si può anche cantare. E questo è ciò che Petersen trasmette: il testo è molto presente nel suo canto. In Tannhäuser, Marlis Petersen ha confermato la forte impressione che mi aveva già fatto l'anno scorso nell'indimenticabile Der Rosenkavalier a Monaco.

Al suo debutto come Tannhäuser, Jonas Kaufmann ha dimostrato, soprattutto nel terzo atto, in "Hör an, Wolfram", con il suo magnifico racconto del pellegrinaggio a Roma, perché è considerato da molti il miglior tenore del nostro tempo. Mi ha colpito il modo in cui ha cantato "Hast du so böse Lust geteilt?", la maledizione che ha sentito proprio dove è andato a cercare la grazia. Alla fine della storia, si poteva immaginare il peccatore, emarginato, maledetto, indignato per i canti di grazia che sentiva in lontananza. È stato un grande finale per l'opera.

Nel primo atto mi ha infastidito una certa mancanza di vigore, di passione, nel canto estremamente lento di Venere. Ad ogni ripetizione, la melodia appariva un po' più veloce nel tempo, un effetto che ha raggiunto il suo apice nel secondo atto quando, durante la gara di canto, Tannhäuser ha una specie di crisi e inizia a lodare Venere. È stato molto interessante. Il problema era che, affinché questo effetto fosse chiaramente evidente, la prima apparizione del canto era troppo lenta, quasi con una pausa, dopo ogni sillaba in "Dir töne Lob! Die Wunder sei'n geprisen". Senza dubbio una scelta di Andris Nelsons, che ha diretto praticamente l'intera opera in tempo lento, spingendo i cantanti ai loro limiti.

Nonostante il colore scuro del suo timbro, Kaufmann non è un heldentenor, che sembra essere l'unica categoria possibile e accettata per i ruoli wagneriani, ma è un vero artista, un cantante in piena padronanza della sua tecnica, un musicista meticoloso e dotato di un timbro seducente.

Tutte le scene d'insieme sono state caratterizzate da una grande recitazione e sono state generalmente meno influenzate dai tempi del direttore. Oltre a un cast di così alto livello, anche il coro, composto dal Tschechischer Philharmonischer Chor Brünn e dal Bachchor Salzburg, ha contribuito all'eccellente risultato. Nelsons è un maestro del dettaglio, capace di offrire una performance trascendente - cosa che certamente si addice alla produzione di Castellucci - e di estrarre un bel suono dalla grande Gewandhausorchester. Tuttavia, sembra non curarsi del fatto che si tratta di musicisti i cui strumenti hanno limiti fisiologici: i cantanti. Se il risultato orchestrale ottenuto è stato interessante, spingendo i cantanti ai loro limiti, tanto da farli respirare in momenti in cui, con un tempo un po' più favorevole, non ne avrebbero avuto bisogno, o facendo perdere parte del fraseggio in pause e lentezze, è un prezzo troppo alto da pagare, tanto più quando si ha per le mani un cast così qualificato.

In ogni caso, è stata una serata memorabile. Il mandato di Nikolaus Bachler, nuovo direttore artistico dell'Osterfestspiele Salzburg, è iniziato bene in questa edizione 2023. L'anno prossimo i nomi sono attraenti: ancora una volta Jonas Kaufmann, Anna Netrebko e Antonio Pappano, che dirigerà il festival. Ciò che scoraggia è il titolo dell'opera scelta: La Gioconda di Ponchielli. A partire dal 2026, il festival vedrà la partecipazione di Kirill Petrenko e dei Berliner Philharmoniker, riproducendo così a Salisburgo la fortunata collaborazione tra direttore e direttore d'orchestra che ha reso la Bayerische Staatsoper il miglior teatro d'opera del mondo.


Étoiles, symboles, lenteurs

par Fabiana Crepaldi

C’est la programmation d’un Tannhäuser au festival de Pâques de Salzbourg, réunissant Jonas Kaufmann, Marlis Petersen, Elina Garanča et Christian Gerhaher (les trois premiers débutant dans leurs rôles respectifs), qui m’a décidé à aller passer la première quinzaine d’avril en Europe. À quelques modifications près, la mise en scène, signée Romeo Castellucci, était la même qui, en 2017, avait été créée au Bayerische Staatsoper sous la direction impeccable de Kirill Petrenko.

Sous la direction musicale d’Andris Nelsons, la version choisie est, comme à Munich, la version viennoise de 1875, la dernière que Wagner ait laissée. Curieusement, la partition de cette version n’a été révisée et imprimée qu’en 2003, lorsque Hartmut Haenchen l’a portée à la scène à Amsterdam. D’une manière générale, certaines caractéristiques nous aident à reconnaître la version viennoise : le prélude ne reprend pas le thème initial des pèlerins, comme c’est le cas dans le premier de Dresde et dans celui de Paris, mais passe directement, sans interruption, aux bacchanales ; les parties de Vénus incorporées dans la version parisienne sont conservées, avec une écriture proche de celle de Tristan et Isolde ; l’air de Walther, au deuxième acte, supprimé dans la version parisienne en raison de problèmes avec l’interprète, est réincorporé. L’un des thèmes principaux de Tannhäuser est la force créatrice et la non-acceptation des individus capables d’innover dans une société traditionnelle, fermée et soumise à des règles. Cette nouvelle écriture intégrée au premier acte à partir de la révision de Paris permet de souligner la différence entre cette source d’inspiration libre, le Venusberg, et le décor plus traditionnel, plus proche de celui des opéras italiens du romantisme, qui caractérise le deuxième acte, la Wartburg.

Nous avons été reçus au théâtre par une lumière blanche et une flèche discrète : la flèche, ce symbole phallique classique avec lequel l’aveugle Cupidon nous ensorcelle, mais aussi un symbole de mouvement, un vecteur qui a une longueur, une direction et un sens. Et le mouvement, la chorégraphie (de Cindy Van Acker), n’ont pas manqué dans cette production. Dans le prélude, le thème des pèlerins résonnait encore lorsque des figures féminines à demi-nues, un groupe d’amazones, portant des arcs et des flèches, sont entrées en scène, mais il ne s’agissait pas des amazones ordinaires : elles semblaient pratiquer le kuydo (la voie de l’arc), un art martial japonais. C’est le mélange de la mythologie grecque et de l’orientalisme, deux cultures, deux traditions mystiques. Lorsque le thème du Venusberg a commencé, une image sphérique est apparue au fond de la scène avec la partie d’un visage dont on ne voit pratiquement que l’œil. Après avoir pointé leurs flèches dans notre direction de manière menaçante mais révérencieuse, les Amazones se sont tournées vers cette image et ont commencé à lancer leurs projectiles sonores de manière à mettre en valeur les parties sombres de l’image, notamment l’œil. Au moment où le chant des sirènes allait retentir, l’image projetée changea, elle devint une oreille (constellée de flèches). La vue et l’ouïe : les deux principaux sens qui provoquent la réaction des instincts ; les sens par lesquels nous sommes attirés par la beauté ; les sens par lesquels nous interagissons avec l’opéra dans son ensemble : musique, poésie, théâtre. Tannhäuser a répondu à l’appel des sirènes, et un double de Jonas Kaufmann a été mis en scène, escaladant l’image comme on escalade un mur, et n’utilisant plus les flèches encochées, comme dans la production originale – ce qui vidait quelque peu le sens et le rôle des flèches. Dans l’image projetée, l’oreille a fait place à une main tenant une pomme. La tentation, la séduction dans la culture judéo-chrétienne, mais aussi le début de la guerre de Troie dans la culture grecque.

Rien de plus wagnérien. Pour Wagner, le mythe est le sujet idéal pour le poète : « Le mythe est le poème primitif et anonyme du peuple, et nous le trouvons à toutes les époques repris, remanié sans cesse à nouveau par les grands poètes des périodes cultivées. Dans le mythe, en effet, les relations humaines dépouillent presque complètement leur forme conventionnelle et intelligible seulement à la raison abstraite ; elles montrent ce que la vie a de vraiment humain, d’éternellement compréhensible, et le montrent sous cette forme concrète, exclusive de toute imitation, laquelle donne à tous les vrais mythes leur caractère individuel, que vous reconnaissez au premier coup d’œil. »

Cependant, comme l’a remarqué Baudelaire, « les phénomènes et les idées qui se produisent périodiquement à travers les âges empruntent toujours à chaque résurrection le caractère complémentaire de la variante et de la circonstance. La radieuse Vénus antique, l’Aphrodite née de la blanche écume, n’a pas impunément traversé les horrifiques ténèbres du Moyen Âge. Elle n’habite plus l’Olympe ni les rives d’un archipel parfumé. Elle est retirée au fond d’une caverne, magnifique, il est vrai, mais illuminée par des feux qui ne sont pas ceux du bienveillant Phoebus. En descendant sous terre, Vénus s’est rapprochée de l’enfer, et elle va sans doute, à de certaines solennités abominables, rendre régulièrement hommage à l’Archidémon, prince de la chair et seigneur du péché. » 

La Vénus de Castellucci de la mise en scène originale de Munich est précisément cette habitante du fond de la caverne, du centre de la Terre. Elle provient directement de ce que l’on appelle les “figurines de Vénus”, ces statuettes de l’époque paléolithique représentant des figures féminines, dont l’une des plus populaires est la petite Vénus de Willendorf, vieille de 29 500 ans, que j’ai rencontrée, quelques jours après l’opéra, au Musée d’Histoire Naturelle de Vienne (et je vous laisse, ici, une photo que j’ai prise). L’origine du nom de ces statuettes remonte au milieu du XIXe siècle, lorsque le marquis de Vibraye découvrit la première de ces figures, et la nomma “La Vénus Impudique”. La plupart d’entre elles présentent les parties liées à la reproduction représentées de manière exagérée, de sorte que, bien que leur signification ne soit pas connue avec certitude, elles sont souvent liées à la fertilité, à la déesse mère, à la Terre Mère.

Dans la mise en scène originale, la Vénus était attachée à la terre, au sol. Des figures mi-humaines, mi-visqueuses, mi-informes, dans lesquelles les fluides, les corps agités, l’argile et le magma semblaient se confondre, formaient un tout avec elle. Pour l’interprète, le défi était de jouer sans utiliser tout le corps – seulement la voix, les expressions faciales et les bras. Dans le remake, le premier acte – et plus précisément Vénus – est celui qui a subi le plus de modifications. Cela s’est produit, très probablement, pour accueillir Elina Garanča, qui a cependant fini par annuler sa participation, sous prétexte de problèmes de santé (ce n’est pas la première fois qu’elle tombe malade à la veille de ses débuts dans un rôle). La Vénus de Salzbourg commence comme celle de Munich, mais se libère bientôt de sa forme de Vénus statufiée, se lève et commence à agir librement. Les substances visqueuses et répugnantes disparaissent : elles ont été remplacées par des tissus. Peu à peu, les tissus proches de Vénus deviennent roses, presque rouges. Tout est devenu plus clair. A mes yeux, le changement était le bienvenu, la production gagnait beaucoup en esthétique, en mouvement, et commençait à présenter plusieurs formes de Vénus. Du point de vue de la mise en scène, c’était l’acte le mieux réussi.

Avec l’annulation de Garanča, Vénus a trouvé son interprète en la soprano anglaise Emma Bell. Certes, sa voix n’a pas le poids de celle de Garanča, mais j’aime toujours une Vénus soprano – encore plus quand on a dans Elisabeth une voix lyrique et délicate comme celle de Marlis Petersen, et dans Tannhäuser un ténor au timbre sombre mais subtil comme celui de Jonas Kaufmann. Si la prestation de Bell n’est pas apparue comme mémorable, et si ses aigus ont sonné assez durs, si l’on a été généralement déçu de l’absence de Garanča, son timbre s’est bien accordé avec le reste de la distribution, et sa participation a été positive.

Comme dans la mise en scène originale, Tannhäuser émerge d’une fente sous la forme d’une figure humaine faite dans la circonférence, maintenant sans les projections. Cette fente est très probablement Elisabeth (le deuxième acte confirmera ce soupçon). Est-ce par Elisabeth que Tannhäuser arrive dans le monde de Vénus ? Ou par son absence ? Ou, comme le raconte Tannhäuser à son réveil, tenant la “main” de la fente, qu’il a cru entendre en rêve une chanson oubliée depuis longtemps, la fente représente-t-elle cette absence d’Elisabeth, qui (même sans qu’il en soit conscient) le guide vers le retour ? Je n’ai pas la réponse et je ne sais même pas s’il y a une réponse, puisqu’il s’agit d’une production ouverte, qui nous propose plus une réflexion sur l’œuvre, les symboles et la musique, que des réponses toutes faites.

Comme l’a très bien dit Wagner, le mythe est renouvelé, revisité dans toutes les cultures. En voyant Tannhäuser quitter la grotte de Vénus, où il était retenu depuis si longtemps et loin de son peuple, laissant Elisabeth l’attendre, il est impossible de ne pas penser à Ulysse qui, pendant sept ans, fut emprisonné dans la grotte de Calypso, la nymphe divine qui voulait faire de lui son époux. La différence est qu’Ulysse a rapidement obtenu le pardon des dieux de l’Olympe, alors que Tannhäuser n’a pas eu la même chance dans le monde chrétien – pour le sauver, il a fallu, comme dans le Faust de Goethe, qu’une femme se sacrifie.

Déjà à l’extérieur de la grotte, Tannhäuser voit passer des pèlerins qui se rendent à Rome pour obtenir le pardon. Vêtus de noir, ils portent ensemble un grand métal brillant. Le poids de leurs péchés, pour lesquels ils vont, ensemble, chercher le pardon ? Lorsqu’ils reviendront, au troisième acte, après avoir été pardonnés, chacun apportera un morceau léger de ce métal qui, dans la mise en scène originale, était brillant, mais qui a maintenant perdu son éclat et est devenu quelque peu difficile à voir de loin. De tels péchés, une fois pardonnés, auraient-ils cessé d’être un fardeau et seraient-ils devenus une richesse ?

La dernière scène du premier acte, lorsque les chasseurs, vêtus d’habits qui ressemblent à des arts martiaux orientaux, reviennent de la chasse et rencontrent Tannhäuser, est marquée par le sang. À partir de ce moment, la mise en scène devient de plus en plus énigmatique et chargée de symboles – heureusement, sans perdre sa musicalité engageante.

A ce point, après le premier acte, le très haut niveau de l’ensemble était évident, en particulier le merveilleux baryton Christian Gerhaher, interprète de Wolfram depuis la première de la mise en scène à Munich, avec sa voix énorme, son beau timbre, son phrasé naturel, sa diction impeccable. Dommage que sa ligne de chant soit entravée par le tempo lent de Nelsons. En guise de consolation, nous avons la fluidité du O du mein Holder de la vidéo de Munich, qui n’est pas entrecoupée de pauses comme la version au ralenti présentée à Salzbourg.

Georg Zeppenfeld avait déjà joué Hermann, le Landgraf, dans la même mise en scène. Excellente basse, sa participation a donné un éclat particulier au deuxième acte. Il était celui qui pouvait le mieux gérer le tempo de Nelsons.

Castellucci a placé la grande salle du deuxième acte dans une grande pièce aux rideaux semi-transparents. Cela crée une atmosphère intime et quelque peu mystérieuse. C’est cette salle qu’Elisabeth accueille après une longue absence. Vêtue d’une tunique blanche imprimée d’une femme nue, comme si la tunique était aussi transparente que les rideaux, l’Elisabeth de Castellucci symbolise à la fois la femme pure et sacrée et le désir charnel de Tannhäuser. Dans une partie du duo entre Tannhäuser et Elisabeth, le rideau les sépare.

La scène du concours de chant est remplie de rituels orientaux et de danseuses. Des pieds sans corps sont visibles sous le rideau. En 2017, les différents chants étaient illustrés par des mots écrits sur un cube central. Dans le remake, le cube a changé d’apparence, il est devenu rose jusqu’au chant de Tannhäuser. À ce moment-là, des taches ont commencé à apparaître, comme s’il s’agissait de saletés. Alors que tout le monde était horrifié par Tannhäuser et son éloge de Vénus, une innovation frappante et pour le moins dérangeante est apparue : un figurant vêtu de noir de la tête aux pieds, comme enveloppé de goudron, figure caricaturale et diabolique, a commencé à se frotter contre Tannhäuser, laissant des taches noires sur sa tunique blanche jusqu’alors immaculée. 

Un beau moment de la mise en scène est le début du troisième acte, lorsque Elisabeth prie aux pieds de Marie. Castellucci est littéral à ce moment-là : nous ne voyons que le cube, un piédestal, avec le nom “Marie” et les pieds, blancs, supposés être ceux de la Sainte. Cela donne plus de force à Elisabeth, à sa foi et à sa prière, et l’effet est particulièrement heureux lorsqu’une actrice de la stature de Marlis Petersen joue Elisabeth.

Ce troisième acte traite du sacrifice, de la finitude, du contraste entre l’éphémère et l’éternel, entre le charnel et le spirituel. Ainsi, tandis que retentit la musique éternelle de Wagner, nous voyons des tombes avec des restes en décomposition, le temps qui passe et les noms des interprètes : Jonas et Marlis. Cela enlève cependant une partie du sens d’un beau geste qui pourrait bien signifier la réalisation de l’amour après la mort, si cher à Wagner et au romantisme : les deux interprètes versent leurs cendres respectives, qui se mélangent, se combinent, se confondent, pour ne former qu’un seul tas de cendres. S’il s’agit des cendres de Tannhäuser et d’Elisabeth, la scène est extrêmement belle et symbolique des idéaux romantiques ; s’il s’agit de celles de Jonas et de Marlis, cela ne signifie rien.

Conçue pour Anja Harteros, la production exige une Elisabeth qui, en plus d’être une grande chanteuse, est aussi une grande actrice, qui a de la subtilité, de la profondeur. Et Marlis Petersen, qui a fait ses débuts non seulement dans le rôle, mais aussi dans un opéra de Wagner, est un nom qui réunit ces qualités. La première chose à noter est que, quand un interprète reprend le rôle qui avait été joué par un grand nom comme Harteros, il est courant, surtout quand il y a une vidéo, que le nouvel interprète essaie de reproduire, au moins scéniquement, la performance de son prédécesseur. Ce n’est pas le cas de Marlis Petersen : son Elisabeth était totalement différente de celle de Harteros, elle a créé un personnage entièrement nouveau. Alors que Harteros, à en juger par la vidéo, a fait une Elisabeth introspective, transcendantale, déjà à moitié absente, pour laquelle la mort semblait vraiment être la seule issue possible, l’Elisabeth de Petersen était extrêmement humaine : elle avait ses moments de fragilité, que son timbre léger l’aidait à créer, et d’autres de grande force et de détermination. La délivrance n’est venue que dans sa prière finale du troisième acte, éthérée, en pianissimo.

Dans la grande scène finale du deuxième acte, dramatiquement plus exigeante, elle a été extraordinaire : elle a construit une Elisabeth blessée par cet homme qu’elle avait attendu si longtemps, qu’elle aimait inconditionnellement, mais qui semble avoir cherché la force précisément dans ce coup mortel, au point que, avec une sonorité aiguë, elle a été capable d’affronter tous ces hommes. Son Zurück von ihm !, au chant récité et incisif, fait place à un lyrique Ich fleh für ihn , au beau legato, qui se termine par une flèche qu’elle plante dans le dos de Tannhäuser (avec le texte, rappelant que le Sauveur a aussi été immolé pour lui, cette flèche nous renvoie directement à la lance de Parsifal). Dans le concertato, dans la brève partie où Wagner s’est certainement inspiré du final de Norma de Bellini, quand Elisabeth offre sa vie pour celle de Tannhäuser, au moment où la ligne de la soprano se détache, son crescendo a donné de la force à la scène.

Certes, la voix de Petersen n’a pas les caractéristiques que nous avons l’habitude d’entendre dans ce rôle et dans d’autres rôles wagnériens – territoire dominé, surtout au XXe siècle, par des sopranos dramatiques – mais la voix, si elle est toujours désirable, n’est pas tout dans l’art de l’opéra. Excellente interprète, sa solide technique l’a aidée à surmonter les défis posés par sa propre vocalité et par un orchestre parfois bruyant et lent – qui l’a gênée en particulier dans son premier air, Dich, teure Halle, au début du deuxième acte. J’ai entendu des chanteurs dire que celui qui peut bien parler un texte peut aussi le chanter. Et c’est ce que Petersen transmet, le texte est très présent dans son chant. Dans Tannhäuser, Marlis Petersen a confirmé la forte impression qu’elle m’avait déjà donnée l’année dernière à Munich dans le mémorable Der Rosenkavalier.

Pour ses débuts dans le rôle de Tannhäuser, Jonas Kaufmann a montré, en particulier au troisième acte, dans Hör an, Wolfram, avec son magnifique récit du pèlerinage à Rome, pourquoi il est le meilleur ténor d’aujourd’hui. La façon dont il a chanté Hast du so böse Lust geteilt, la malédiction qu’il a entendue précisément à l’endroit où il est allé chercher la grâce, était remarquable. À la fin de l’histoire, il était possible de voir le pécheur, marginalisé, maudit, indigné par les chants de grâce qu’il entendait au loin. C’était un grand final pour l’opéra.

Au premier acte, j’ai été gêné par un certain manque de vigueur, de passion, dans le chant à Vénus, extrêmement lent. À chaque répétition, la mélodie apparaissait avec un tempo plus rapide, un effet qui a atteint son apogée au deuxième acte, lorsque, pendant le concours de chant, Tannhäuser a ce genre de crise et commence à faire l’éloge de Vénus. Bien qu’il s’agisse d’un expédient très intéressant, le problème était que, pour rendre cet effet très évident, la première apparition du chant était trop lente, presque avec une pause après chaque syllabe dans Dir töne Lob ! Die Wunder sei’n geprisen. Il s’agit certainement d’un choix d’Andris Nelsons, qui a interprété la quasi-totalité de l’opéra dans un tempo lent, mettant les chanteurs à l’épreuve.

Malgré la couleur sombre de son timbre, Kaufmann n’est pas un heldentenor, catégorie qui semble être la seule possible et acceptée pour les rôles wagnériens, mais c’est un véritable artiste, un chanteur qui maîtrise parfaitement sa technique, un musicien complet et qui possède un timbre séduisant.

Toutes les scènes d’ensemble ont été marquées par de grandes performances et ont été généralement moins gênées par le tempo. Outre une distribution de haut niveau, le chœur, composé du Tschechischer Philharmonischer Chor Brünn et du Bachchor Salzburg, a également contribué à l’excellent résultat.

Andris Nelsons est un chef attentif aux détails, capable de livrer une interprétation transcendante – qui correspond d’ailleurs à la mise en scène de Castellucci – et d’extraire une belle sonorité de l’excellent Gewandhausorchester. Néanmoins, il ne semble pas se soucier beaucoup du fait qu’il a traité avec des musiciens dont les instruments ont des limites physiologiques : les chanteurs. Même si le résultat orchestral obtenu est intéressant, obliger les chanteurs à atteindre leurs limites, à respirer à des moments où cela ne serait pas nécessaire avec un tempo plus favorable, ou à faire en sorte qu’une partie du phrasé se perde dans des pauses et des lenteurs, est un prix trop élevé à payer, d’autant plus lorsqu’on dispose d’une distribution aussi qualifiée.

Dans l’ensemble, ce fut une soirée mémorable. Le nouveau directeur artistique de l’Osterfestspiele Salzburg, Nikolaus Bachler, a pris un excellent départ avec l’édition 2023. L’année prochaine, les noms sont séduisants : à nouveau Jonas Kaufmann, Anna Netrebko et Antonio Pappano, qui sera le chef d’orchestre du festival. Ce qui est décourageant, c’est le titre choisi : La Gioconda, de Ponchielli. A partir de 2026, le festival accueillera Kirill Petrenko et le Philharmonique de Berlin, reproduisant ainsi à Salzbourg le partenariat réussi entre directeur et chef d’orchestre qui a fait de la Bayerische Staatsoper la meilleure maison d’opéra du monde.

Photos : © Monika Rittershaus.


Estrellas, símbolos, dilaciones

por Fabiana Crepaldi

Abril 9, 2023. Fue la noticia de Tannhäuser en el festival de Pentecostés de Salzburgo, que uniría a Jonas KaufmannMarlis PetersenElīna Garanča y Christian Gerhaher (los tres primeros debutando en sus respectivos roles) lo que me hizo decidir pasar la primera quincena de abril en Europa.

Con algunas modificaciones, la producción, a cargo de Romeo Castellucci, fue la misma que en 2017 se estrenó en la Bayerische Staatsoper bajo la impecable dirección de Kirill Petrenko. Bajo la dirección musical de Andris Nelsons, la versión elegida fue, como ya había sucedido en Múnich, la de Viena de 1875, la última que dejó Wagner. Curiosamente, la partitura de esta versión solo se revisó e imprimió en 2003, cuando Hartmut Haenchen la montó en el escenario en Ámsterdam.

En términos generales, hay algunas características que ayudan a reconocer la versión vienesa: el preludio no retoma el tema inicial de los peregrinos, como ocurre tanto en la primera versión, de Dresde, como en la de París, sino que, al contrario, va derecho, sin interrupción, por la bacanal; se conservan las partes de Venus incorporadas en la versión de París, con una escritura cercana a la de Tristan und Isolde; se reincorpora el aria de Walther, en el segundo acto, eliminada en la versión de París por problemas con el intérprete.

Tannhäuser tiene como uno de sus temas principales la fuerza creativa y la no aceptación que enfrentan los individuos con capacidad de innovar en una sociedad tradicional, cerrada y sujeta a reglas, por lo que esta nueva escritura incorporada al primer acto de la revisión de París ayuda a destacar la diferencia entre esta fuente de libre inspiración, procedente del Venusberg, y el ambiente más tradicional, más cercano al de las óperas románticas italianas, que caracteriza el segundo acto, procedente del Wartburg.

Fuimos recibidos, en el teatro, por una luz blanca y una flecha discreta. La flecha, ese clásico símbolo fálico con el que nos hechiza el ciego Cupido, es también símbolo de movimiento, vector con longitud, dirección y sentido. Y movimiento, coreografía (a cargo de Cindy Van Acker), no faltó en la producción. En el preludio, aún sonaba el tema de los peregrinos cuando entraron en escena figuras femeninas semidesnudas, un grupo de amazonas, portando arcos y flechas. Pero no eran unas amazonas cualesquiera: parecían practicantes de kyūdō (“El camino del arco”), el arte marcial japonés de la arquería. Es una mezcla de mitología griega y orientalismo, dos culturas, dos tradiciones místicas.

Cuando comenzó el tema de Venusberg, al fondo del escenario, apareció una imagen esférica con parte de un rostro del que prácticamente solo se veia el ojo. Después de señalar, de manera amenazante pero reverente, las flechas en nuestra dirección, las amazonas se volvieron hacia esta imagen y comenzaron a lanzar los proyectiles sonoros para resaltar las partes más oscuras de la imagen, especialmente el ojo. Cuando el canto de las sirenas estaba a punto de sonar, la imagen proyectada cambió, se convirtió en una oreja (cubierta de flechas). Vista y oído: los dos sentidos principales que provocan la reacción de los instintos; los sentidos a través de los cuales fuimos atraídos por lo bello; los sentidos a través de los cuales interactuamos con la ópera en su totalidad: música, poesía, teatro.

Tannhäuser respondió al llamado de las sirenas y un doble de acción de Jonas Kaufmann fue llevado a lo más alto, escalando la imagen como si estuviera escalando una pared, y ya no usando las flechas, como en la producción original, lo que dejo vació un poco el significado y el papel de las flechas. En la imagen proyectada, el oído ha dejado paso a una mano que sostiene una manzana. Tentación, seducción en la cultura judeocristiana, pero también el comienzo de la Guerra de Troya en Grecia.

Nada más wagneriano. Para Richard Wagner, el mito es la materia ideal del poeta: “El mito es el poema primitivo y anónimo del pueblo, y lo encontramos, en todos los tiempos, retomado, incesantemente reformulado, por los grandes poetas. En efecto, en el mito las relaciones humanas (…) muestran lo que la vida tiene de verdaderamente humana, de eterna comprensión (…).” Pero, como observó Charles Baudelaire, “los fenómenos e ideas que suceden periódicamente a lo largo de los tiempos prestan siempre a cada resurrección el carácter complementario de variante y de circunstancia. La radiante Venus antigua, la Afrodita nacida de la blanca espuma, no pasó impunemente por las horribles tinieblas de la Edad Media. Ya no habita el Olimpo ni las costas de un fragante archipiélago. Se retiró al fondo de una cueva, magnífica, es cierto, pero iluminada por un fuego que no es el del benevolente Febus. Descendiendo a lo subterráneo, Venus se acerca al infierno (…)”

La Venus de Castellucci, en la producción original de Múnich, es precisamente esa habitante del fondo de la caverna, del centro de la Tierra. Viene directamente de la llamada «figura de Venus», las figurillas de la era paleolítica que representan figuras femeninas. Una de las más populares es la diminuta Venus de Willendorf del paleolítico (de 29,500 años de antigüedad), a quien conocí unos días después de la ópera en el Museo de Historia Natural de Viena (y aquí hay una foto que tomé). El origen del nombre de estas figurillas se remonta a mediados del siglo XIX, cuando el Marqués de Vibraye descubrió la primera de estas figuras y la denominó “La Vénus Impudique”. La mayoría de ellos presentan las partes relacionadas con la reproducción representadas de forma exagerada, por lo que, aunque no se sabe a ciencia cierta su significado, muchas veces se relacionan con la fertilidad, la Diosa Madre, la Madre Tierra.

Originalmente, la Venus de Castellucci estaba unida a la tierra, al suelo. Figuras mitad humanas, mitad viscosas, mitad deformes, en las que, fluidos, cuerpos inquietos, arcilla y magma parecían fundirse, formaban, con ella, un todo. Para la intérprete, el desafío era actuar sin usar todo el cuerpo, solo la voz, las expresiones faciales y los brazos. En el reensamblaje, el primer acto, más precisamente Venus, fue el que sufrió mayores cambios. Este era, muy probablemente, para recibir a Elīna Garanča quien, sin embargo, terminó cancelando su participación alegando problemas de salud (no es la primera vez que se enferma en vísperas de debutar en un papel). La Venus de Salzburgo comenzó como la de Múnich, pero pronto se liberó de su forma de figura de Venus, se puso de pie y comenzó a actuar libremente. Las sustancias viscosas y repugnantes desaparecieron: habían sido reemplazadas por telas. Gradualmente, los tejidos cercanos a Venus se volvieron rosados, casi rojos. Todo se volvió más ligero. A mis ojos, el cambio fue muy bienvenido, la producción ganó mucho en estética, en movimiento y empezó a presentar diferentes formas de Venus. En cuanto a la puesta en escena, fue el acto mejor resuelto.

Con la cancelación de Garanča, Venus encontró a su intérprete en la soprano inglesa Emma Bell. Su voz ciertamente no tiene el peso de la de Garanča, pero siempre me gusta una Venus soprano, más aún cuando se tiene una voz lírica y delicada en Elisabeth, como la de Marlis Petersen, y en Tannhäuser un tenor con un timbre oscuro pero sutil, como el de Jonas Kaufmann. Si la actuación de Bell no fue memorable y sus agudos sonaron un poco duros, si hubo una decepción general por la ausencia de Garanča, su timbre combinó bien con el resto del elenco y su participación fue buena.

Como en la producción original, Tannhäuser aparece a partir de una hendidura en forma de figura humana realizada en circunferencia, ahora sin las proyecciones. Lo más probable es que esta grieta sea Elisabeth (el segundo acto confirmará esta sospecha). ¿Es a través de Elisabeth que Tannhäuser llega al mundo de Venus? ¿O a través de su ausencia? O, como al despertar Tannhäuser cuenta, sosteniendo la “mano” de la grieta, que creyó escuchar, en un sueño, una canción olvidada hace mucho tiempo, la grieta representa esa ausencia de Elisabeth, aún sin que ella esté consciente de ello. ¿Está conduciendo de regreso? No tengo la respuesta y ni siquiera sé si la hay, ya que es una producción abierta, que propone una reflexión sobre la obra, los símbolos y la música, más que respuestas rápidas y finales.

Como bien decía Wagner, encontramos el mito renovado, revisitado en cada cultura. Al ver salir a Tannhäuser de la cueva de Venus, donde estuvo tanto tiempo retenido y separado de su pueblo, dejando a Elisabeth esperándolo, es imposible no recordar a Ulises, quien, durante siete años, estuvo preso en la cueva de la ninfa Calypso, la ninfa divina que quería que fuera su marido. La diferencia es que Ulises obtuvo pronto el perdón de los dioses del Olimpo, mientras que Tannhäuser no corrió con la misma suerte en el mundo cristiano: para salvarlo fue necesario, como en el Faust de Goethe, que una mujer se sacrificara. Una vez fuera de la cueva, Tannhäuser ve pasar a los peregrinos que se dirigen a Roma para obtener el perdón. Vestidos de negro, llevan juntos un gran metal brillante. ¿El peso de vuestros pecados, por los que vais juntos a buscar el perdón? Cuando regresan, en el tercer acto, después de ser perdonados, cada uno traerá una pieza ligera de ese metal, que en la producción original era brillante, pero ahora ha perdido su brillo y se volvería algo difícil de ver desde la distancia. ¿Sus pecados, una vez perdonados, dejarían de ser una carga y se convertirían en riqueza?

La última escena del primer acto, cuando los cazadores, vestidos con ropas que parecen de artes marciales orientales, regresan de cazar y encuentran a Tannhäuser, la escena está marcada por la sangre. A partir de ese momento, la producción se vuelve cada vez más enigmática y cargada de símbolos, pero afortunadamente sin perder una musicalidad cautivadora. En este punto, terminado el primer acto, ya se notaba el altísimo nivel de todo el conjunto, en especial del fantástico barítono Christian Gerhaher, intérprete de Wolfram desde el estreno de la producción en Múnich, con su enorme voz, su hermoso timbre, su fraseo natural, su dicción impecable. Fue desafortunado que su línea de canto se viera dañada por el ritmo lento de Nelson. Tenemos, como consuelo, el fluido ‘O du mein holder Abendstern’ del vídeo de Múnich, que no está intercalado con pausas como la versión en cámara lenta presentada en Salzburgo.

Georg Zeppenfeld también interpretó a Hermann, el Landgrave de Turingia, en la misma producción. Es un excelente bajo, y su participación le dio un brillo especial al segundo acto. Él fue quien logró manejar mejor el ritmo de Nelson.

Castellucci ambientó la gran sala del segundo acto en un ambiente espacioso con cortinas semitransparentes. Se creó un ambiente íntimo y algo misterioso. Fue esta habitación la que Elisabeth saludó después de una larga ausencia. Ataviada con una túnica blanca en la que se imprime una mujer desnuda como si la túnica fuera transparente como las cortinas, la Elisabeth de Castellucci simboliza, al mismo tiempo, la mujer pura, sagrada y el deseo carnal de Tannhäuser. En parte del dúo entre Tannhäuser y Elisabeth, la cortina los separaba.

El escenario del concurso de canto estuvo lleno de rituales orientales y bailarines. Los pies sin cuerpo se ven por debajo de la cortina. En 2017, las diferentes esquinas se ilustraron con palabras escritas en un cubo central. Al volver a armarlo, el cubo cambió su apariencia, se volvió rosa hasta el canto de Tannhäuser. En ese momento, comenzaron a aparecer manchas, como de suciedad. Cuando todo el mundo está horrorizado por Tannhäuser y su elogio a Venus, aparece una novedad impactante, pero, por decir lo menos, chocante: un extra vestido de negro de pies a cabeza, como envuelto en brea, una figura diabólica caricaturizada, comienza a frotarse contra Tannhäuser, dejando manchas negras en su hasta entonces inmaculada túnica blanca.

Un momento hermoso de la producción es el comienzo del tercer acto, cuando Elisabeth reza a los pies de María. Castellucci es literal en este punto: solo vemos el cubo, un pedestal, con el nombre “María” y los pies, blancos, supuestamente de María. Eso le da más fuerza a Elisabeth y a su fe, a su oración, y el efecto es especialmente alegre cuando se tiene a una actriz de la talla de Marlis Petersen como Elisabeth.

Este tercer acto trata del sacrificio, de la finitud, de la oposición entre lo efímero y lo eterno, entre lo carnal y lo espiritual. Así, mientras suena la eterna música de Wagner, vemos tumbas con restos mortales descomponiéndose con el paso del tiempo y los nombres de los intérpretes: Jonas y Marlis. Sin embargo, esto le quita algo de sentido a un hermoso gesto que bien podría significar la realización del amor después de la muerte, tan querido por Wagner y por el romanticismo: los dos intérpretes vierten sus respectivas cenizas, que se mezclan, combinan, confunden convirtiéndose en un solo montón de cenizas. Siendo las cenizas de Tannhäuser y Elisabeth, la escena es extremadamente bella y simbólica de los ideales románticos; siendo de Jonas y Marlis, no hay que decir nada.

Originalmente pensada para Anja Harteros, la producción requiere de una Elisabeth que, además de ser una gran cantante, sea también una gran actriz, que tenga sutileza, profundidad. Y Marlis Petersen, que debutó no solo en el papel, sino en una ópera de Wagner, es un nombre que cumple con esos requisitos. Lo primero a destacar es que cuando un intérprete asume el papel que, anteriormente, había sido interpretado por un nombre importante como Harteros, es habitual, sobre todo cuando hay un video, que el nuevo intérprete intente reproducir, al menos escénicamente el rendimiento del antecesor. Esto no sucedió con Marlis Petersen: su Elisabeth fue totalmente diferente a la de Harteros, creó un personaje completamente nuevo. Mientras que Harteros, a juzgar por el video, hacía una Elisabeth introspectiva, trascendental, ya un poco ausente, para quien realmente la muerte parecía ser el único desenlace posible, la Elisabeth de Petersen era extremadamente humana: tenía sus momentos de fragilidad, que su timbre ligero le ayudó a crear, y otros de gran fuerza y determinación. La rendición llegó en su oración final y etérea en pianissimo en el tercer acto.

En la gran escena final del segundo acto, dramáticamente más exigente, ella estuvo extraordinaria: construyó una Elisabeth herida por ese hombre por el que tanto había esperado, al que amaba incondicionalmente, pero que parece haber buscado la fuerza precisamente en ese golpe mortal, hasta el punto en que, con un sonido agudo, haber podido plantar cara a todos esos hombres. Su ‘Zurück von ihm!’ (‘Hacia atrás de él’), con canto recitado e incisivo, dio paso a un lírico ‘Ich fleh für ihn’ (‘Ruego por él’), con un buen legato, que terminó con ella clavándole una flecha en la espalda a Tannhäuser (junto con el texto, recordando que el Salvador también fue inmolado por él, esta flecha nos remite directamente a la lanza de Parsifal).

En el concertato, en la breve parte en la que Wagner se inspiró ciertamente en el final de la Norma de Bellini, cuando Elisabeth ofreció su vida por la de Tannhäuser, cuando sobresale la línea de la soprano, su crescendo dio fuerza a la escena. Es cierto: la voz de Petersen no tiene las características a las que estamos acostumbrados a escuchar en este y otros papeles wagnerianos, territorio dominado, sobre todo en el siglo XX, por sopranos dramáticas. Pero la voz, aunque siempre deseable, no lo es todo en el arte lírico. Gran intérprete, su sólida técnica la ayudó a superar los desafíos que le ofrecía su propia voz y una orquesta a veces ruidosa y lenta, lo que la perjudicó especialmente en su primera aria, ‘Dich, teure Halle’, al comienzo del segundo acto. He oído a cantantes decir que quien sabe pronunciar bien un texto, también sabe cantarlo. Y eso es lo que transmite Petersen: el texto está muy presente en su canto. En Tannhäuser, Marlis Petersen confirmó la fuerte impresión que ya me había causado el año pasado en el inolvidable Der Rosenkavalier de Múnich.

Debutando como Tannhäuser, Jonas Kaufmann demostró, especialmente en el tercer acto, en ‘Hör an, Wolfram’ (‘Escucha Wolfram’), con su magnífico relato de la peregrinación a Roma, por qué es el mejor tenor de nuestro tiempo. Me llamó la atención la forma en que cantó “Hast du so böse Lust geteilt?” (‘¿Has compartido tal lujuria malvada?’), la maldición que escuchó precisamente en el lugar donde fue a buscar la gracia. Al final de la historia, se podía visualizar al pecador, marginado, maldecido, indignado con los cantos de gracia que escuchaba a lo lejos. Fue un gran final para la ópera.

En el primer acto me molestó cierta falta de vigor, de pasión, en el canto a Venus, extremadamente lento. Con cada repetición, la melodía aparecía con un tempo un poco más rápido, un efecto que alcanzó su cúspide en el segundo acto cuando, durante el concurso de canto, Tannhäuser tiene ese tipo de crisis y comienza a alabar a Venus. Eso fue muy interesante. El problema fue que para que este efecto fuera claramente evidente, la primera aparición del canto fue demasiado lenta, casi con una pausa, después de cada sílaba en ‘Dir töne Lob! Die Wunder sei’n geprisen’ (‘¡Te alabo! Los milagros son alabados’). Sin duda, una elección de Andris Nelsons, que realizó prácticamente toda la ópera en tempo lento, llevando a los cantantes al límite.

A pesar del color oscuro de su timbre, Kaufmann no es un heldentenor, categoría que parece ser la única posible y aceptada para los papeles wagnerianos, pero es un verdadero artista, un cantante en pleno dominio de su técnica, un músico meticuloso y dueño de un timbre seductor.

Todas las escenas del conjunto estuvieron marcadas por una gran actuación y, en general, se vieron menos afectadas por el tempo. Además de un elenco de tan alto nivel, el coro, formado por el Tschechischer Philharmonischer Chor Brünn y Bachchor Salzburg, también contribuyó al excelente resultado. Nelsons es un maestro que cuida los detalles, capaz de entregar una interpretación trascendente —algo que, por cierto, casa bien con la producción de Castellucci— y de extraer un sonido hermoso de la gran Gewandhausorchester. Sin embargo, parece no importarle mucho el hecho de que se trata de músicos cuyos instrumentos tienen limitaciones fisiológicas: los cantantes. Si bien el resultado orquestal obtenido fue interesante, haciendo que los cantantes llegaran al límite, de modo que tuvieran que respirar en momentos que, con un tempo un poco más favorable, no necesitarían respirar, o haciendo que parte del fraseo se perdiera con pausas y lentitud, es un precio demasiado alto, más aún cuando se tiene entre manos un elenco tan calificado.

De todos modos, fue una noche memorable. El mandato de Nikolaus Bachler, el nuevo director artístico de Osterfestspiele Salzburg, comenzó con buen pie en esta edición del 2023. El próximo año, los nombres son atractivos: una vez más Jonas Kaufmann, Anna Netrebko y Antonio Pappano, quien dirigirá en el festival. Lo que desalienta es el título de la ópera elegida: La Gioconda, de Ponchielli. A partir de 2026, el festival contará con Kirill Petrenko y la Filarmónica de Berlín, reproduciendo así en Salzburgo la exitosa asociación entre director y director de orquesta que ha hecho de la Bayerische Staatsoper el mejor teatro de ópera del mundo.


Estrelas, símbolos, atrasos

por Fabiana Crepaldi

Foi a notícia de um Tannhäuser no festival de Páscoa de Salzburg, reunindo Jonas Kaufmann, Marlis Petersen, Elina Garanča e Chistian Gerhaher (os três primeiros estreando em seus respectivos papeis), que me fez tomar a decisão de passar a primeira quinzena de abril na Europa. Com algumas modificações, a produção, de Romeo Castellucci, foi a mesma que, em 2017, estreou na Bayerische Staatsoper sob a impecável regência de Kirill Petrenko.

Agora com direção musical de Andris Nelsons, a versão escolhida foi, como já havia ocorrido em Munique, a de Viena, de 1875, a última deixada por Wagner. Curiosamente, a partitura dessa versão só foi revisada e impressa em 2003, quando Hartmut Haenchen a levou ao palco, em Amsterdam. Em linhas gerais, há algumas características que nos ajudam a reconhecer a versão de Viena: o prelúdio não retoma o tema inicial dos peregrinos, como ocorre tanto na primeira, de Dresden, quanto na de Paris, mas, ao contrário, vai direto, sem interrupção, para a bacanal; são mantidas as partes de Vênus incorporadas na versão de Paris, com uma escritura próxima àquela de Tristão e Isolda; é reincorporada a ária de Walther, no segundo ato, eliminada na versão de Paris por problemas com o intérprete. Tannhäuser tem como alguns dos seus principais temas a força criativa e a não aceitação que os indivíduos com capacidade de inovar enfrentam em uma sociedade tradicional, fechada, presa a regras. Essa nova escritura incorporada ao primeiro ato a partir da revisão de Paris ajuda a ressaltar a diferença entre essa fonte de inspiração livre, do Venusberg, e o ambiente mais tradicional, mais próximo ao das óperas italianas do Romantismo, que caracteriza o segundo ato, do Wartburg.

Fomos recebidos, no teatro, por uma luz branca e uma discreta flecha: a seta, esse clássico símbolo fálico com o qual o cego Cupido nos enfeitiça, mas também símbolo de movimento, um vetor com comprimento, direção e sentido. E movimento, coreografia (de Cindy Van Acker), foi o que não faltou na produção. No prelúdio, ainda soava o tema dos peregrinos quando entraram no palco figuras femininas seminuas, um grupo de amazonas, portando arcos e flechas, mas não eram quaisquer amazonas: elas pareciam ser praticantes de kuydo (O Caminho do Arco), uma arte marcial japonesa. É a mescla de mitologia grega com orientalismo, duas culturas, duas tradições místicas. Quando teve início o tema do Venusberg, surgiu, no fundo do palco, uma imagem esférica com a parte de uma face da qual se vê praticamente apenas o olho. Após apontarem, de forma ameaçadora, mas reverente, as flechas em nossa direção, as amazonas se viraram para essa imagem e começaram a lançar os sonoros projéteis de forma a ressaltar as partes mais escuras da imagem, sobretudo o olho. Quando o canto das sereias estava prestes a soar, a imagem projetada mudou, passou a ser um ouvido (cravejado de flechas). Visão e audição: os dois principais sentidos que provocam a reação dos instintos; os sentidos através dos quais somos atraídos pelo belo; os sentidos por meio dos quais interagimos com a ópera em sua totalidade: música, poesia, teatro. Tannhäuser respondeu ao chamado das sereias, e um dublê de Jonas Kaufmann foi levado para cima, escalando a imagem como se estivesse escalando um muro, e não mais utilizando as flechas cravadas, como na produção original – o que esvaziou um pouco o sentido e o papel das flechas. Na imagem projetada, o ouvido deu lugar a uma mão segurando uma maçã. A tentação, a sedução na cultura judaico-cristã, mas também o início da guerra de Tróia na cultura grega.

Nada mais wagneriano. Para Wagner, o mito é a matéria ideal para o poeta: “O mito é o poema primitivo e anônimo do povo, e o encontramos, em todas as épocas, retomado, reformulado incessantemente, pelos grandes poetas. Com efeito, no mito as relações humanas (…) mostram o que a vida tem de verdadeiramente humano, de eternamente compreensível (…)”.

Como observou Baudelaire, no entanto, “os fenômenos e as ideias que se produzem periodicamente através das épocas sempre emprestam a cada ressureição o caráter complementar da variante e da circunstância. A radiante Vênus antiga, a Afrodite nascida da espuma branca, não atravessou impunemente as horríveis trevas da Idade Média. Ela não habita mais o Olimpo nem as praias de um arquipélago perfumado. Ela se retirou para o fundo de uma caverna, magnífica, é verdade, mas iluminada por um fogo que não é o do benevolente Febus. Descendo ao subterrâneo, Vênus se aproxima do inferno (…)”.

A Vênus de Castellucci, na produção original de Munique, é justamente essa habitante do fundo da caverna, do centro da Terra. Ela vem diretamente das chamadas “figuras de Vênus”, as estatuetas da época do paleolítico representando figuras femininas, das quais uma das mais populares é a pequenina Vênus de Willendorf, de 29.500 anos, com quem me encontrei, poucos dias depois da ópera, no Museu de História Natural de Viena (e deixo, aqui, uma foto que tirei). A origem do nome dessas estatuetas vem de meados do século XIX, quando o Marquês de Vibraye descobriu a primeira dessas figuras, e a nomeou “La Vénus Impudique”. A maioria delas apresenta as partes relacionadas à reprodução representada de forma exagerada, de modo que, embora não se saiba ao certo o significado delas, são muitas vezes relacionadas à fertilidade, à Deusa Mãe, à Mãe Terra.

Originalmente, a Vênus de Castellucci ficava presa à Terra, ao chão. Figuras meio humanas, meio viscosas, meio disformes, nas quais pareciam se fundir fluidos, corpos inquietos, barro e magma, formavam, com ela, um todo. À intérprete, o desafio posto era o de atuar sem utilizar o corpo todo – apenas a voz, as expressões faciais e os braços. Na remontagem, o primeiro ato – e mais precisamente a Vênus – foi o que sofreu as maiores alterações. Isso aconteceu, muito provavelmente, para receber Elina Garanča, que, contudo, acabou cancelando a sua participação, alegando problemas de saúde (não é a primeira vez que ela fica doente às vésperas de estrear em um papel). A Vênus de Salzburg começa como a de Munique, mas logo se liberta da sua forma de estatueta de Vênus, levanta-se e começa a atuar livremente. As substâncias viscosas, repugnantes, desaparecem: foram substituídas por tecidos. Aos poucos, os tecidos próximos à Vênus foram se tornando rosa, quase vermelhos. Tudo ficou mais leve. Aos meus olhos, foi muito bem-vinda a mudança, a produção ganhou muito em estética, em movimento, e passou a apresentar diversas formas da Vênus. No que diz respeito à encenação, foi o ato mais bem resolvido.

Com o cancelamento de Garanča, Vênus encontrou a sua intérprete na soprano inglesa Emma Bell. Certamente sua voz não tem o peso da de Garanča, mas sempre me agrada uma Vênus soprano — ainda mais quando se tem em Elisabeth uma voz lírica, delicada, como a de Marlis Petersen, e em Tannhäuser um tenor com timbre escuro, mas sutil, como o de Jonas Kaufmann. Se a atuação de Bell não chegou a ser memorável, e os seus agudos soaram um tanto duros, se houve uma decepção geral por Garanča não estar lá, seu timbre combinou bem com o restante do elenco, e a sua participação foi positiva.

Como na produção original, Tannhäuser surge vindo de uma fenda na forma de figura humana feita na circunferência, agora sem as projeções. Essa fenda é, muito provavelmente, Elisabeth (o segundo ato confirmará essa suspeita). É através de Elisabeth que Tannhäuser chega ao mundo de Vênus? Ou através da ausência dela? Ou, como Tannhäuser conta ao despertar, segurando na “mão” da fenda, que pensou ter ouvido em sonho uma canção há muito esquecida, a fenda representa essa ausência de Elisabeth, que (mesmo sem que ele tenha consciência disso) o está guiando de volta? Não tenho a resposta e nem sei se existe uma resposta, uma vez que esta é uma produção aberta, que nos propõe mais uma reflexão sobre a obra, os símbolos e a música, do que respostas prontas e acabadas.

Como bem disse Wagner, encontramos o mito renovado, revisitado em cada cultura. Ao ver Tannhäuser saindo da gruta de Vênus, onde por tanto tempo ficou retido e afastado do seu povo, deixando Elisabeth à sua espera, é impossível que não nos lembremos de Ulisses, que, durante sete anos, ficou preso na gruta de Calipso, a ninfa divina que queria que ele se tornasse seu marido. A diferença é que Ulisses logo obteve o perdão dos deuses do Olimpo, enquanto Tannhäuser não teve a mesma sorte no mundo cristão – para salvá-lo, foi necessário, como no Fausto, de Goethe, que uma mulher se sacrificasse.

Já fora da gruta, Tannhäuser vê passar os peregrinos que vão a Roma para obter o perdão. Vestidos de preto, carregam em conjunto um grande metal brilhante. O peso dos seus pecados, para os quais estão indo, juntos, buscar o perdão? Ao retornarem, no terceiro ato, após terem sido perdoados, cada um trará um pedaço leve desse metal, que na produção original era brilhante, mas agora perdeu o brilho e se tornou um tanto difícil de ser visto à distância. Teriam tais pecados, uma vez perdoados, deixado de ser um peso, e se convertido em riqueza?

A última cena do primeiro ato, quando os caçadores, vestidos com roupas que parecem de artes marciais orientais, voltam da caça e encontram Tannhäuser, a cena é marcada pelo sangue. Desse ponto em diante, a produção vai se tornando cada vez mais enigmática e carregada de símbolos — felizmente, sem perder uma envolvente musicalidade.

A essa altura, terminado o primeiro ato, já estava evidente o altíssimo nível de todo o conjunto, sobretudo do fantástico barítono Christian Gerhaher, intérprete de Wolfram desde a estreia da produção em Munique, com sua voz enorme, seu belíssimo timbre, seu fraseado natural, sua dicção impecável. Foi uma pena que a sua linha de canto tenha sido atrapalhada pelo andamento lento de Nelsons. Temos, como consolo, o fluente O du mein Holder do vídeo de Munique, que não é intercortado por pausas como a versão em câmera lenta apresentada em Salzburg.

Também Georg Zeppenfeld já havia interpretado Hermann, o Landgraf, na mesma produção. Baixo excelente, sua participação deu um brilho especial ao segundo ato. Foi quem conseguiu lidar melhor com o andamento de Nelsons.

Castellucci ambientou a grande sala do segundo ato em um amplo ambiente com cortinas semitransparentes. Criou-se, assim, um ambiente intimista e um tanto misterioso. Foi essa sala que Elisabeth saudou após longa ausência. Vestindo uma túnica branca onde está estampada uma mulher nua, como se a túnica fosse transparente como as cortinas, a Elisabeth de Castellucci simboliza, ao mesmo tempo, a mulher pura, sagrada, e o desejo carnal de Tannhäuser. Em parte do dueto entre Tannhäuser e Elisabeth, a cortina os separa.

A cena do concurso de canto é repleta de rituais orientais e dançarinos. Pés sem corpos são vistos por debaixo da cortina. Em 2017, os diversos cantos eram ilustrados por palavras escritas em um cubo central. Na remontagem, o cubo mudou de aspecto, ficou rosa até o canto de Tannhäuser. Nesse momento, começaram a aparecer manchas, como se fossem sujeira. Quando todos estavam horrorizados com Tannhäuser e com o seu louvor à Vênus, surgiu uma inovação impactante e, no mínimo e ao mesmo tempo, chocante: um figurante trajado de preto da cabeça aos pés, como que envolto em piche, uma figura caricata, diabólica, começa a se esfregar em Tannhäuser, deixando manchas pretas na sua até então imaculada túnica branca.  

Um belo momento da produção é o início do terceiro ato, quando Elisabeth está rezando aos pés de Maria. Castellucci é literal neste momento: só vemos o cubo, um pedestal, com o nome “Maria” e os pés, brancos, supostamente da Santa. Isso confere maior força à Elisabeth, à sua fé e à sua prece, e o efeito é especialmente feliz quando uma atriz da estatura de Marlis Petersen interpreta Elisabeth.

Este terceiro ato lida com o sacrifício, com a finitude, com a contraposição entre o efêmero e o eterno, entre o carnal e o espiritual. Desse modo, enquanto soa a eterna música de Wagner, vemos túmulos com restos mortais em decomposição, o passar do tempo e os nomes dos intérpretes: Jonas e Marlis. Isso, porém, tira um pouco do sentido de um belíssimo gesto que poderia muito bem significar a realização do amor após a morte, tão cara a Wagner e ao Romantismo: os dois intérpretes despejam as suas respectivas cinzas, que se misturam, combinando-se, confundindo-se, tornando-se um só montinho de cinzas. Sendo estas as cinzas de Tannhäuser e Elisabeth, a cena é de extrema beleza e simbólica para os ideais românticos; sendo as de Jonas e Marlis, não quer dizer nada.

Originalmente pensada para Anja Harteros, a produção requer uma Elisabeth que, além de grande cantora, seja também uma grande atriz, que tenha sutileza, profundidade. E Marlis Petersen, que fez a sua estreia não só no papel, mas em uma ópera de Wagner, é um nome que reúne essas qualidades. A primeira coisa a se notar é que, quando um intérprete assume o papel que, anteriormente, havia sido interpretado por um nome forte como o de Harteros, é comum, sobretudo quando existe um vídeo, que o novo intérprete tente reproduzir, ao menos cenicamente, a atuação do antecessor. Isso não aconteceu com Marlis Petersen: sua Elisabeth foi totalmente diferente da de Harteros, ela criou uma personagem inteiramente nova. Enquanto Harteros, a julgar pelo vídeo, fez uma Elisabeth introspectiva, transcendental, já meio ausente, para quem a morte parecia ser realmente o único desfecho possível, a Elisabeth de Petersen foi extremamente humana: teve os seus momentos de fragilidade, que o seu timbre leve a ajudou a criar, e outros de grande força e determinação. A entrega só veio na sua prece final do terceiro ato, etérea, em pianíssimo.

Na grande cena final do segundo ato, dramaticamente mais exigente, ela foi extraordinária: construiu uma Elisabeth ferida por aquele homem por quem tanto esperou, a quem amava incondicionalmente, mas que parece ter buscado força justamente nesse golpe mortal, a ponto de, com um sonoro agudo, ter sido capaz de enfrentar aqueles homens todos. Seu “Zurück von ihm!”, com canto recitado, incisivo, deu lugar a um lírico “Ich fleh für ihn”, com um bom legato, que se encerra com ela cravando uma flecha nas costas de Tannhäuser (juntamente com o texto, lembrando que também por ele o Salvador foi imolado, essa flecha nos remete diretamente à lança de Parsifal). No concertato, na breve parte em que Wagner certamente se inspirou no final da Norma, de Bellini, quando Elisabeth oferece a sua vida pela de Tannhäuser, quando a linha da soprano se sobressai, seu crescendo conferiu força à cena.

É verdade: a voz de Petersen não tem as características que estamos habituados a ouvir nesse e em outros papeis wagnerianos – território dominado, sobretudo no século XX, por sopranos dramáticas -, mas a voz, embora sempre desejável, não é tudo na arte lírica. Ótima intérprete, sua técnica sólida a ajudou a vencer os desafios oferecidos pela sua própria vocalidade e por uma orquestra em alguns momentos alta e lenta – o que a prejudicou especialmente em sua primeira ária, “Dich, teure Halle”, no início do segundo ato. Já ouvi cantores dizendo que quem sabe falar bem um texto, também sabe cantá-lo. E é isso que Petersen transmite, o texto está muito presente em seu canto. Em Tannhäuser, Marlis Petersen confirmou a forte impressão que já havia me causado, no ano passado, no inesquecível Der Rosenkavalier, em Munique.

Estreando como Tannhäuser, Jonas Kaufmann mostrou, sobretudo no terceiro ato, em “Hör an, Wolfram”, com o seu magnífico relato sobre a peregrinação a Roma, por que é o melhor tenor da atualidade. Foi marcante a forma como cantou “Hast du so böse Lust geteilt”, a maldição que ouviu justamente no lugar aonde foi buscar graça. Ao fim do relato, era possível visualizar o pecador, marginalizado, amaldiçoado, indignado com os cantos de graça que ouvia ao longe. Foi um final grandioso para a ópera.

No primeiro ato, chegou a me incomodar certa falta de vigor, de paixão, no canto a Vênus, extremamente lento. A cada repetição, a melodia aparecia com um andamento um pouco mais rápido, efeito que atingiu o seu ápice no segundo ato, quando, durante o concurso de canto, Tannhäuser tem aquela espécie de surto e começa a louvar Vênus. Ainda que esse tenha sido um expediente realmente interessante, o problema foi que, para que esse efeito ficasse bem evidente, a primeira aparição do canto foi lenta demais, quase que com uma pausa após cada sílaba em “Dir töne Lob! Die Wunder sei’n geprisen”. Certamente uma escolha de Andris Nelsons, que fez praticamente a ópera inteira em andamento lento, levando os cantores ao limite.

Apesar da cor escura do seu timbre, Kaufmann não é um heldentenor, categoria que parece ser a única possível e aceita para os papeis wagnerianos, mas é um verdadeiro artista, um cantor em pleno domínio da sua técnica, um músico minucioso e dono de um timbre sedutor.

Todas as cenas de conjunto foram marcadas por grandes atuações e, de um modo geral, foram menos prejudicadas pelo andamento. Além do elenco de tão alto nível, também contribuiu para o ótimo resultado o coro, formado pelo Tschechischer Philharmonischer Chor Brünn e pelo Bachchor Salzburg.

Andris Nelsons é um maestro atento a detalhes, capaz de entregar uma interpretação transcendental — algo que, aliás, combina muito com a produção de Castellucci — e de extrair uma bela sonoridade da ótima Gewandhausorchester. Apesar disso, ele parece não se importar muito com o fato de que está lidando com músicos cujos instrumentos apresentam limitações fisiológicas: os cantores. Mesmo que o resultado orquestral obtido seja interessante, fazer com que cantores cheguem ao limite, de modo que tenham que respirar em momentos em que isso não seria necessário com um andamento um pouco mais favorável, ou fazer com que parte do fraseado se perca em meio a pausas e lentidão, é um preço alto demais a se pagar, ainda mais quando se tem em mãos um elenco tão qualificado.

De todo modo, foi uma noite memorável. A gestão de Nikolaus Bachler, novo diretor artístico do Osterfestspiele Salzburg, teve um belo início com essa edição 2023. No ano que vem, os nomes são atrativos: novamente Jonas Kaufmann, Anna Netrebko e Antonio Pappano, que será o regente do festival. O que desanima é o título escolhido: La Gioconda, de Ponchielli. A partir de 2026, o festival deve contar com a participação de Kirill Petrenko e a Filarmônica de Berlim, reproduzindo, pois, em Salzburg, a parceria bem-sucedida entre diretor e maestro que fez da Bayerische Staatsoper a melhor casa de ópera do mundo.


 

 

 
 
 

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