Salvare il tiranno
di Roberta Pedrotti
Il Festival di Wexford porta per la prima volta sulle scene la prima versione della donizettiana Zoraida di Granata con due tenori antagonisti. Kunu Kim e Matteo Mezzaro assolvono assai bene al loro compito con la direzione attenta di Diego Ceretta.
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WEXFORD 31 ottobre 2023 - Nel gennaio del 1822, ancora ventiquattrenne, Gaetano Donizetti si prepara al debutto a Roma, allo stesso Teatro Argentina dove Rossini aveva dato Il barbiere di Siviglia e Adelaide di Borgogna. Il libretto è di una vecchia conoscenza, il concittadino Bartolomeo Merelli che gli aveva già fornito i versi per Enrico di Borgogna, Una follia e Le nozze in villa, ma che è meglio ricordare come impresario, dato che il poeta e drammaturgo mediocre nelle vesti di organizzatore ha contribuito invece alla nascita di Norma, Lucrezia Borgia o Nabucco. Con una collaborazione collaudata e un cast di tutto rispetto (Domenico Donzelli ed Ester Mombelli le stelle più note), Zoraida di Granata sembra avviarsi a consacrare il giovane compositore con la sua prima opera seria. Le cose, però, non filano lisce: il tenore deuteragonista, Amerigo Sbigoli, non vive benissimo la rivalità con Donzelli e lo sforzo per superarlo in potenza, nelle recite del Giulio Cesare in Egitto di Pacini che precedevano il debutto della Zoraida, gli provocarono la rottura di una vena, uno sbocco di sangue e la morte dopo pochi giorni d'agonia. Non c'è tempo da perdere e la sua parte è adattata per il contralto Adelaide Mazzanti en travesti; due anni dopo l'opera verrà revisionata con l'illustrissima Rosamunda Pisaroni e il contributo del librettista Jacopo Ferretti. La versione per tenore rimase così lontana dalle scene, testimoniata solo in tempi recenti da un CD OperaRara. Il debutto vero e proprio, nella nuova edizione critica di Edoardo Cavalli, avviene ora a Wexford, in una coproduzione con il festival Donizetti Opera di Bergamo che non si limita a condividere l'allestimento e, probabilmente, parte della locandina, ma costruisce un percorso unico che collega gli spettacoli, distinti e consequenziali: ora ascoltiamo la versione del '22 con il tenore, nel '24 in Italia avremo la versione del '24 con il contralto en travesti. Idea eccellente, e buon per chi non si è fatto sfuggire l'occasione di assistere al debutto irlandese - peraltro reso disponibile anche su youtube.
La trama è presto detta: Zoraida (Mombelli) è amata dal tenore cattivo (il sovrano Almuzir, Donzelli)) e dal tenore buono (il generale Abenamet, Sbigoli), predilige ovviamente il secondo e altrettanto ovviamente il primo ordisce ogni più bieca trama ai danni dei due innamorati. Alla fine Abenamet ha la meglio, Almuzir deve arrendersi, pentirsi e confessare i suoi misfatti di fronte al coro sdegnato. Nonostante ciò, però, resta sul trono, difeso proprio da Abenamet. Questo finale sbrigativo e apparentemente illogico muove qualche risata nel pubblico irlandese, di antica e orgogliosa tradizione repubblicana (nel 1798 a Wexford fu piantato l'Albero della Libertà e proliferavano i giacobini, cattolicissimi, peraltro, in quanto nemici della monarchia britannica anglicana). In effetti la sottotrama che fa dei tenori due rivali anche politici e di Almuzir un usurpatore assassino del legittimo sovrano, padre di Zoraida, finisce per passare in secondo piano di fronte alla contingenza storica della prima. Se in una qualunque opera à sauvetage degli anni immediatamente precedenti (si pensi a Fidelio o alla Gazza ladra) il tiranno sarebbe stato punito, se risalendo all'opera seria settecentesca, celebratrice della monarchia illuminata, vediamo il potente perverso ben altrimenti condannato o redento, qui la soluzione un po' posticcia è resa indispensabile dalla stretta attualità: l'opera risale al 1822, all'indomani dei moti del 1820-21, e, di fronte al pericolo appena scampato, la reazione non poteva che essere l'imporre di salvare i regnanti, a qualunque costo, chiunque fossero. Da questa tendenza non era passata indenne nemmeno La Cenerentola di Rossini, se si pensa che l'aria di Alidoro alla prima del 1817 parlava del mondo come di un teatro in cui servi e signori possono scambiarsi le maschere, mentre nel 1821 ne viene inserita una (entrata in repertorio perché di mano rossiniana, al contrario della precedente) che sottolinea il ruolo della provvidenza divina nella storia. A dire il vero la regia di Bruno Ravella non sembra scavare molto a fondo nel senso storico di topoi e stereotipi e imbastisce un'azione assai tradizionale nella recitazione e nel rapporto con gli spazi, favorita dalle belle luci di Daniele Naldi e dall'appropriata cornice scenica (un cortile moresco sfregiato dalla guerra e infine impreziosito da una magnifica vetrata) di Gary McCann, anche costumista. All'occhio si porta, dunque, alla ribalta il tema conduttore del festival: l'orrore della guerra e la figura femminile, che spicca nel grigiore per il blu squillante o il bianco dell'abito.
Sul podio la presenza di Diego Ceretta si distingue per una discrezione intesa nel miglior senso del termine: si pone al servizio del testo con gesto sobrio e pulito, non impone sé stesso, non scalpita per farsi notare, ma mantiene un saggio rapporto fra buca e palco, amministra bene tempi e le dinamiche in rapporto al canto, al passo teatrale, alle forme di un Donizetti in evoluzione, capace ormai di padroneggiare con una certa disinvoltura lo stile e le strutture rossiniste dominante lasciando meglio emergere alcuni caratteri personali distintivi. Basti, per esempio, citare nel secondo atto la scena di catene di Abenamet, la straniata aria di Zoraida “Rose, che un dì spiegaste” e la preghiera finale “Se non piango, o Dèi clementi”, la tormentata aria di Almuzir “Amarla tanto! E perderla!”.
Si apprezza l'unità d'intenti e l'omogeneità d'assieme raggiunta con l'orchestra, il coro e il cast, sebbene gli occhi siano inevitabilmente puntati sui due tenori: Konu Kim, già apprezzato nell'Ange de Nisida a Bergamo (Bergamo, L'ange de Nisida, 16/11/2019), come Almuzir conferma le sue ottime qualità di cantante e interprete, con dizione assai chiara, bel fraseggio, una vocalità ben levigata, portata a fiorire man mano che sale verso l'acuto, ma comunque capace di sostenere senza forzature la tessitura più centrale della parte. L'eroe Abenamet è Matteo Mezzaro, che riesce a conciliare l'ostica scrittura tendente al contraltino con l'irrobustirsi dei suoi mezzi, delineando così un fiero e combattivo contraltare del tiranno. Molto bene anche i rispettivi confidenti: Matteo Guerzé ribadisce le sue qualità vocali e teatrali nella piccola parte dell'infido Ali Zegri, così come desta una buona impressione Julian Henao Gonzalez negli interventi dell'integro Almanzor. Claudia Boyle, eroina eponima, canta con fluidità e trepida partecipazione, mentre Rachel Croasch si ritaglia il suo spazio nell'aria di sorbetto di Ines. Luisa Baldinetti e Myriam Tomé, danzatrici, completano lo schieramento sulla scena insieme con il coro del Festival preparato da Andrew Synnott, attento e versatile al pari dell'orchestra in buca.
Mentre il pubblico irlandese festeggia giustamente gli interpreti, noi rinnoviamo l'appuntamento per la prossima tappa a Bergamo, fra un anno, a celebrare i due secoli della seconda versione dell'opera.
foto Clive Benda