La giostra della musica, del caso, dell'umanità
di Roberta Pedrotti
L'immersione nella musica da camera con i cinque giorni del festival Trame Sonore di Mantova non è solo l'occasione di assistere a molti bei cocnerti, ma anche un momento di riflessione, rigenerazione e profonda condivisione umana.
MANTOVA, 31 maggio, 1-2-3-4 giugno - Non posso scommettere sull'unicità di un festival come Trame sonore, ma sarei tentata di farlo. L'intuizione di Carlo Fabiano, fondatore e direttore artistico, è un colpo di genio semplice e irripetibile: trasformare la città di Mantova, i suoi palazzi, le sue chiese, le sue piazze, in una grande sala da concerto in cui, per cinque giorni, ciascuno può comporre il proprio programma fra più di centocinquanta appuntamenti e oltre trecento artisti coinvolti. Numeri che possono, insieme, ingolosire e frastornare: c'è il rischio che si tratti di un'ostentazione, di una catena di montaggio? Se così fosse, difficilmente sarebbe arrivato all'undicesima edizione e basta passare anche solo qualche ora a Mantova per rendersene conto. Anzi, Trame Sonore è un'esperienza artistica prima di tutto perché è un'esperienza personale che oserei perfino definire iniziatica. È necessario abbandonare altri pensieri, dedicarsi totalmente alla musica, ma non basta: di fronte alle cento pagine del sacro opuscolo guida (da riempire di appunti e promemoria sui concerti seguiti e da seguire) ci si può impegnare a pianificare con coscienza un piano d'azione. Si prende nota dei programmi imperdibili, si calcolano tempi e distanze, si compiono scelte anche difficili, si valutano tutte le opzioni per colmare la giornata di musica. Poi, naturalmente, non andrà come avevamo previsto: un disguido, un ritardo, una suggestione dell'ultimo momento, e il programma cambia da un istante all'altro. Si rinuncia a qualcosa, si fanno nuove scoperte. Soprattutto, si impara a non farsi travolgere dalla frenesia organizzativa, a non prendersela se qualcosa non va secondo i piani, ad abbandonarsi un po' al destino, al caso, all'avventura. Fa bene. Si fa molto moto (il riposo è bandito) e lo spirito si rinfranca.
Costruire o improvvisare il nostro personalissimo programma itinerante, la nostra trama fra le trame tematiche suggerite dal Festival, ci permette di immergerci anche nella trama tangibile della città e di vivere Palazzo Te o Palazzo Ducale non come musei da osservare deferenti, ma come luoghi vivi da percorrere anche di corsa, come foyer, teatro e auditorium, come case nostre e dei musicisti. E la musica sacra ha dimora principale nella Basilica di Santa Barbara, che le consente di collocare gli esecutori nelle cantorie e dare così la giusta dimensione anche fisica a riverberi e polifonie: il Vespro della Beata Vergine di Monteverdi diretto da Walter Testolin è, in questo senso, esperienza esemplare di uno spazio sonoro che diventa idealizzata drammaturgia. È, questo, uno dei concerti più ponderosi, anche per la durata di circa due ore. Un'ora richiede l'Ottetto di Schubert con i solisti della NDR Elbphilharmonie, ed è difficile pensare a tempo speso meglio, anzi: si vorrebbe che non finissero mai. Così era stato anche la sera prima, con il primo dei tre concerti di mezzanotte nella rotonda romanica di San Lorenzo: un altro luogo vissuto e non solo visitato, per stringerci a strettissimo contatto con i musicisti, percepire in modo quasi tattile la formazione del suono mentre il formidabile sestetto d'archi anseatico dà vita a una Verklärte Nacht di Schönberg che porteremo nel cuore fra le esperienze musicali più intense e illuminanti. La sera successiva, la violinista Alexandra Soumm, il violista Sergey Malov e il violoncellista Giovanni Gnocchi concludono la giornata sempre ad altissimo livello con le Variazioni Golberg trascritte da Dmitry Sitkovetsky; un'autentica gemma, infine, è la versione per pianoforte a quattro mani (Alessandra Ammara e Roberto Prosseda), coro da camera (Recercare Ensemble) e due soprani (Karin Sela e Anna Simboli) delle musiche di scena di Mendelssohn per Sogno di una notte di mezz'estate: si esegue una suite di mezz'ora appena, ma la finezza, la suggestione quasi perturbante dell'incanto teatrale ci accompagnano all'ultimo brindisi sotto le stelle offerto dal Bar Caravelli con un senso di totale, estatico appagamento.
Mendelssohn è uno dei fil rouge che intrecciano trame e a lui sono dedicati due dei programmi serali con l'Orchestra da camera di Mantova, gli unici, peraltro, a svolgersi come previsto en plein air: il 31 maggio l'apertura è sancita dal Concerto in mi minore per violino con Julio Garcìa Vico direttore e Javier Comesaña Barrera solista; il primo giugno Michele Gamba dirige la Scozzese e tutto sembra andare per il meglio finché uno scroscio di pioggia non interrompe l'esecuzione a pochi minuti dalla fine. La prudenza consiglia di ripararci sotto un tetto nei giorni seguenti e così è al Teatro Bibiena che si gode di uno straordinario primo Concerto per violoncello di Šostakóvič suonato e diretto da Nicolas Altstaedt, non meno che strepitoso per il fraseggio mordente, la tecnica impeccabile, l'intelligenza espressiva e la coerenza di concertazione (non lasci però mai l'archetto per la bacchetta: sarebbe una perdita troppo grande!). Si apprezza anche la generosa condivisione del proscenio con l'ottimo corno solista di Stefano Rossi. È, invece, al Teatro Sociale che tutto si chiude, con i saluti e i ringraziamenti d'obbligo, la premiazione dei vincitori della caccia al tesoro abbinata al Festival (nuova trama ludica sperimentata quest'anno) e un impaginato tutto mozartiano (ouverture da Le nozze di Figaro e Concerto n. 25 K 503) con l'artista in residence Alexander Lonquich in veste di direttore e pianista.
Ogni artista porta con sé nuovi fili da seguire. Altstaedt e Lonquich si uniscono a Barnabás Kelemen per un trio di Brahms (farà il paio, poche ore dopo, il trio per piano, violoncello e clarinetto sempre di Brahms con Maurizio Baglini, Silvia Chiesa e Pablo Barragán, parimenti ottimo). Kelemen duetta su brevi pagine di Bartók con Katalin Kokas a Palazzo Ducale dopo aver suonato Bach a mezzogiorno nella rotonda di San Lorenzo e aver vissuto uno degli imprevisti inevitabili in queste umanissime trame: i crini dell'archetto che si sganciano all'improvviso e lui che, senza scomporsi, lo sostituisce e riprende da dove si era interrotto. Lonquich con il figlio Tommaso, clarinettista, Stefano Rossi, Irena Kavčič, flauto, Massimiliano Selmi, oboe, e Andrea Bressan, fagotto, è pure al Bibiena per un bel programma fra Poulenc e Ligeti. In pochi minuti e (quasi) pochi passi si può saltare dal suocero di Bach a un pezzo di Sofija Gubaiduljna per violoncelli e aquaphone (quest'ultimo ha l'aspetto di una gabbia per uccellini tagliata in diagonale e lo suonano con l'archetto due dei bravissimi giovani violoncelli del Mozarteum di Salisburgo preparati da Giovanni Gnocchi); da Gesualdo a Schumann, da Mozart a Fauré, da Strozzi a Ullman. Contrasti o accostamenti imprevisti, anche per la libertà lasciata agli artisti di incontrarsi e sperimentare. A noi, pure, per la libertà di abbandonarci a diversi tipi d'ascolto, che alla fine, fra tante tentazioni, può scivolare nella bulimia e ci fa riflettere su una fruizione premeditata, consapevole, attenta, una viva a sorpresa e una quasi passiva. Non è sempre possibile mantenere lo stesso livello d'attenzione per concerti che, sì, durano una mezz'oretta l'uno, ma sommandosi ci riversano intorno ore e ore di musica dal vivo. Non è nemmeno un male, però: siamo esseri umani, abbiamo limiti fisici, anche se la passione e la determinazione ci spingono a sfidarli in questa giostra di continuo contatto diretto con la musica. E anche stremati, talora, dimentichiamo ogni cosa, accalcati, in piedi, rapiti, come per l'op. 110 di Šostakóvič suonato da un ispiratissimo, magnifico Quartetto Prometeo. Oppure ci commuoviamo per la toccante drammaturgia e l'acuta selezione dei brani nel programma dedicato da Guido Barbieri (voce recitante), Valentina Coladonato (soprano) e Paolo Marzocchi (pianoforte) ai musicisti del campo di concentramento di Terezín. Oppure seguiamo le sirene nella vocalità, incrociando i percorsi di Gemma Bertagnolli o Laura Catrani, o ancora la scoperta della musica colta e popolare macedone con il tenore Blagoj Nakoski e il pianista Luca Ciammarughi, i quali ci ammaniscono una suggestiva, struggente serie di perle misconosciute, che compongono un ideale dittico “balcanico” con il programma tutto dedicato all'Albania da Marzocchi. Quanto hanno da insegnarci anche queste immersioni in storie, tradizioni, metri, modi, ritmi che più raramente incontriamo nei nostri percorsi più lineari e abitudinari!
Trame Sonore, in effetti, è come una grande comunità, un grande laboratorio vissuto fianco a fianco fra pubblico, addetti ai lavori e musicisti che si ascoltano a vicenda, si seguono, scambiano idee. Per i più giovani sembra meglio di una masterclass: si provano programmi davanti al pubblico, si seguono da vicino colleghi grandi e grandissimi. Il gruppetto dei violoncelli del Mozarteum, sempre compatto, strumenti in spalla, quando non è impegnato a suonare è in movimento costante per ascoltare e ispira un'immensa simpatia. Così come tutti i ragazzi che si assiepano nelle sale o si ristorano ai tavolini del Bistrot Artisti (la mensa gratuita per chi lavora nel fastival) o dei locali del centro. Tutti felicemente uniti, mostri sacri e astri nascenti, esperti e debuttanti.
Le giornate cominciano nel verde o nel verde ci si ritrova dopo pranzo, sorseggiando un caffè offerto dalla torrefazione locale Caffè Brasil, e conversando ora con Alberto Mattioli, ora con Roberto Prosseda, Giovanni Bietti o Sandro Cappelletto; anche qui capita che si faccia musica, come quando Bietti e la violinista Nurit Stark rendono omaggio a Bartók o il Quartetto Indaco affianca Cappelletto con Beethoven (prima di suonare, assai bene, Brahms nel pomeriggio). Anche questa è la leggerezza di un rapporto familiare, quotidiano con la musica, di una dimensione cameristica in senso lato che non esige più di quanto non solleciti.
Qui e solo qui, allora, si poteva realizzare l'abbraccio tenero del pubblico a Dora Schwarzberg, la grande violinista ritiratasi dalle scene sei anni fa – proprio con un concerto a Mantova – in seguito a gravi problemi di salute e un intervento alla spalla. È un regalo che le fa, con il festival, l'amica di sempre Martha Argerich, accompagnandola in tre concerti tutti dedicati a Schumann e che – com'è facile immaginare – ridefiniscono e rendono perfin banale il concetto di tutto esaurito. Dora non è più quella di una volta, è chiaro, ma importa poco: Martha la sostiene con una dolcezza, una sensibilità, una delicatezza premurosa e discreta che già di per sé bastano a stringere il cuore. Tenerezza, tenerezza e ancora tenerezza è la parola che ci si ripete, lasciando il Bibiena dopo il primo appuntamento in duo: l'arte non è solo astratta bellezza, ma anche umana fragilità. Il giorno seguente si unisce anche la figlia di Dora, Nora Romanoff-Schwarzberg, che prima duetta con Argerich e poi si unisce in trio anche con la madre. Anche qui, l'affetto è palpabile. Infine, il terzo giorno la formazione in quintetto, con il secondo violino di Lucy Hall e il violoncello di Giovanni Gnocchi. Proprio pianoforte e violoncello sembrano assumere il ruolo di guida, in una prospettiva del tutto particolare, ma che ancora ribadisce come il valore dei grandi sia nel piacere della condivisione e dell'amicizia, come il pubblico lo percepisca e risponda con un'interminabile standing ovation, finché non si concede un bis con Šostakóvič.
Difficilmente, pensiamo, avrebbe potuto avvenire altrove. Invece, la trama tessuta a Mantova è proprio quella della dimensione umana dell'arte, dell'abitare i luoghi storici, di vivere i suoni, di condividere con i musicisti, di riflettere su noi stessi, il nostro rapporto con la musica e con gli altri. Di trovarsi in un palco o a tavola, a sorpresa, con chi si era applaudito poco prima. Di scoprire, lasciarsi sorprendere, uscire dagli schemi e sentirsi liberi, inebriati di madrigali e mottetti o di live elettronics, di quartetto o di orchestra.