Le maschere del classicismo
di Roberta Pedrotti
Per la stagione dei Pomeriggi musicali di Milano, un bel programma offre un percorso dialettico fra Grieg, Ravel e Stravinskij confermando la maturità e l'evoluzione della bacchetta di Alessandro Bonato. Meritati applausi anche per Davide Cabassi, pianoforte solista.
MILANO, 11 maggio 2024 - I Pomeriggi Musicali presentano la loro ottantesima stagione [Milano, la stagione 2024/25 dei Pomeriggi Musicali] e festeggiano fra estremi opposti. Leggiamo di serate che non vorremmo perdere, da mettere subito in calendario, e di altre da perdere con tutto il cuore, programmando di trovarsi altrove. E concerto al quale sarebbe stato un gran peccato rinunciare si può ben considerare quello in locandina proprio a cavallo della presentazione: Alessandro Bonato dirige Grieg, Ravel e Stravinskij. Una carrellata di diversi neoclassicismi che vede Davide Cabassi solista per il Concerto in Sol maggiore del francese, limpida, splendente e gioiosa rievocazione del genere nelle sue forme pure e tipiche, ma sfaccettato in una scrittura orchestrale che risponde al solista en titre con un incastro perfetto e vivacissimo di incisi individuali. C'è, se vogliamo, un che di meccanico, come un congegno a orologeria che desta meraviglia, straordinaria elaborazione trascendente dell'ingegno umano. Nulla, insomma, di arido, freddo, disanimato: tutt'altro. Anzi, è tanto ben progettato da accogliere fra i suoi elementi forme classiche, echi impressionisti, suggestioni swing e blues, memorie del folklore basco.
Cabassi non si fa intimorire dalla complessità tecnica della parte e sembra anzi divertirsi fra il turbinio ritmico dei due movimenti estremi e la repentina rarefazione dell'Adagio assai. Scattante, incisivo, disinvolto nel fraseggio quel tanto che basta per rendere lo spirito del Concerto senza deragliare dai binari, Cabassi riscuote un bel successo personale, cui risponde coinvolgendo nel bis (ancora Ravel, con il Blues moderato dalla Sonata per violino e pianoforte) Igor Riva, spalla dell'orchestra in questo programma.
Ravel richiede all'orchestra un bell'impegno solistico in tutte le sezioni e Alessandro Bonato dipana la matassa con la consueta concretezza tecnica: nessun gesto spettacolare riservato all'obiettivo dei fotografi e all'occhio del pubblico, tutto solo in funzione della musica, perché il meccanismo non s'inceppi ed esprima insieme con il solista quella vitalità bergsoniana che ne è cifra distintiva. E proprio rispetto a questa luminosa propulsione le diverse maschere neoclassiche della Holberg Suite di Grieg e della suite dal Pulcinella di Stravinskij trovano qui il rilievo di una riflessione dialettica, quasi il composto nordico costituisse una tesi, l'esuberante francese un'antitesi e, infine, il russo cosmopolita la sintesi compiuta. In questo percorso Bonato dimostra di essere un artista maturo. Ciò non vuol dire che abbia raggiunto un ipotetico punto d'arrivo: cinque anni fa, al primo ascolto [leggi la recensione], si notò subito un talento fuori dal comune fondato su solide basi e oggi si apprezza la crescita alimentata da studio ed esperienza; non c'è ragione di dubitare che fra altri cinque, dieci, venti o più anni l'evoluzione non si fermerà. Un artista, d'altra parte, non è la definizione dell'alfa e dell'omega, ma un moto continuo; e per un direttore, che si esprime attraverso il rapporto con altri musicisti, lo è ancor più. Essere maturi significa essere responsabili, sapersi muovere e mettere in discussione, non nascere formati come Atena dalla testa di Zeus e lì fissarsi imperturbabili.
Quello che ora fa definire la maturità di Bonato, quindi, non è un ipotetico traguardo finale, ma la constatazione di una concentrazione senza distrazioni e fronzoli. Non c'è nulla da dimostrare, nulla da esibire, solo fare ciò che si ritiene giusto. Semplicemente. Si tratta di far musica, non di stupire e conquistare il titolo di fenomeno; lo dimostra già la cura delicata di questo Grieg all'antica, come tale trattato per sonorità, articolazioni, impostazione stilistica, eppure sfumato con una leggerezza che lascia trasparire il sottile gioco di maschere e nostalgie. Tutto questo sembra fiorire nella complessità della partitura di Stravinskij, in cui si scontornano i singoli episodi, gli incisi melodici, i delicati colori pastorali di miniature à la Watteau e, pure, non si perde mai di vista la continuità del discorso, il trasecolorare nel grottesco, lo svelare l'inganno lasciando emergere il meccanismo (notevole davvero l'attenzione prestata ai diversi tipi di pizzicato e al loro senso nel discorso), i colori più vividi, intersecando Watteau e Picasso senza che quest'ultimo prenda il sopravvento in una prosciugata spigolosità o in tinte eclatanti, ma lasciandolo in filigrana a suggerire le profondità di un'Arcadia reinventata. Tutto è soppesato con gusto nei colori e nelle dinamiche e trasmette un senso di necessità naturale, di una lettura pensata, elaborata, metabolizzata e compiuta nella musica, non di una tesi imposta per imporre sé stessi. Una conferma, insomma, del fatto che, anche prima dei trent'anni, non stiamo parlando di uno dei tanti enfant prodige o di uno dei tanti promettenti giovani, ma già di un vero artista, dal quale aspettarsi una lunga carriera di continue evoluzioni e sempre nuovi approfondimenti.
Fortunato chi, come il pubblico milanese di questo pomeriggio, può seguire tali percorsi.