Il mondo di Nemorino
di Roberta Pedrotti
Convince la visione originale e poetica del capolavoro donizettiano proposta a Parma dal regista Daniele Menghini. Francesco Meli torna nei panni di Nemorino e concede fra gli applausi il bis della "Furtiva lagrima" mentre Roberto De Candia conferma la sua classe come Dulcamara. Meno persuasiva la concertazione di Sesto Quatrini.
PARMA 15 marzo 2024 - Il barbiere di Siviglia, L'elisir d'amore, Tosca. Non si può dire che la stagione lirica 2024 del Teatro Regio di Parma brilli per audacia. Anzi: l'unica sfida che sembra porsi è quella, non indifferente, dei confronti. Non deludere le aspettative di chi è pronto a sciorinare cataloghi di interpreti eccellenti, di chi si inquieta per ogni scelta interpretativa che si discosti (soprattutto sul piano visivo) dalla tradizione, di chi vorrebbe essere, viceversa, stuzzicato da qualche elemento originale nella lettura di un titolo visto, rivisto, stravisto. Incredibilmente, questo Donizetti sembra aver intercettato tutte queste istanze e, se l'esito non sarà stato privo di limiti, il risultato finale ha confermato un generale gradimento per la compagnia di canto e per una produzione apprezzata in modo trasversale da un loggione con fama d'intransigenza conservatrice (ma forse, con l'opera buffa, le maglie si allargano) e dal pubblico più aperto al nuovo.
In effetti Daniele Menghini, con i suoi abituali collaboratori Nika Campisi (costumi) e Davide Signorini (luci), riesce a uscire dal consueto repertorio di covoni di fieno e tavoli rustici per dire qualcosa di personale. Non si tratta, insomma, di una trasposizione letterale di dinamiche e caratteri come era avvenuto – e in maniera assai felice – nella produzione balneare di Michieletto e in quella scolastica di Cucchi. Menghini trova una sua chiave di lettura poetica e la realizza tanto bene, con tanta poetica delicatezza da non impensierire chi tende a rifiutare riscritture drammaturgiche. Nemorino resta un sognatore, dolce e tenero, ma è anche un bravo artigiano: ha costruito un mondo di marionette e burattini in cui riflette i suoi sogni, i suoi sentimenti, i suoi desideri e i suoi timori. Il dottore ciarlatano, la bella furbetta, il soldato sbruffone sono i personaggi di un teatrino in cui Nemorino si rifugia. Novello Pigmalione, ama la sua Adina/Galatea, ma se anche le dona via via un po' di umanità, lui si immergerà sempre più in quel mondo incantato di cui è creatore: da Geppetto diventa Pinocchio, da uomo diventa burattino. Mentre si svela la tenerezza di questo mondo bizzarro, il mondo dell'arte e del teatro, brulicante e accogliente (sembra di sentire il grido “Una di noi!” dei freaks del film di Browning, ma con lieto fine), appaiono anche segnali perturbanti. Il momento forse più poetico è nel finale primo, quando al disperato “Adina, credimi” si accompagna la rievocazione del funerale di Pinocchio con i conigli becchini e le parole “Ei perde la testa” sottolineano la decapitazione della marionetta. Nel secondo atto, poi, apparirà una figura ambigua, suggestiva e inquietante insieme, che con tratti da Drag Queen sembra fondere in sé il Grillo e la Fata Turchina, ma rosicchia anche il legno come fosse un tarlo. La finzione, la fiaba, il mondo creato dall'artista artigiano non è solo idillio: compaiono elementi anatomici lignei di ogni dimensione, compresa una grande mano di burattinaio; i due mondi si mescolano e mentre Nemorino sembra cercare i fili, una ballerina scoordinata si ribella e trova la sua autonomia. Intanto, forse per opera del tarlo, la segatura comincia a piovere dal cielo, a invadere il palco (naturalmente si tratta di materiali studiati per non disturbare i cantanti e tuttavia pare che alla prima l'effetto sia stato limitato rispetto alle prove aperte, dalle quali i testimoni riferiscono una grande suggestione): nasce un nuovo Nemorino marionetta? O questo mondo si va frantumando? Certo è che la fuga felice dei due innamorati attraverso la platea suggerisce che il nostro protagonista abbia trovato il suo equilibrio e la sua dimensione. Non è necessario avere sempre delle risposte inequivocabili.
Si tratta, come già nel caso del Barbiere e della Carmen allo Sferisterio di Macerata [Macerata, Il barbiere di Siviglia, 12/08/2022; Macerata, Carmen, 06/08/2023], di uno spettacolo complesso, ricchissimo di contenuti, riferimenti, controscene, ma anche di uno spettacolo che sa accompagnare ai contenuti poetici e perfino politici una delicatezza d'espressione e una cura del rapporto con il testo, dei caratteri e delle relazioni dei personaggi che lo mettono al riparo da ogni rischio di ridondanza e gratuità. Semmai, si tratta di un'idea di teatro musicale talmente densa da auspicare con la massima urgenza una bacchetta di valore, che non faccia un passo indietro, ma ponga il discorso musicale sullo stesso piano di quello teatrale e in dialogo con esso. Da questo punto di vista delude la concertazione di Sesto Quatrini, non priva di scollamenti e di scarti agogici che troppo spesso appaiono fini a sé stessi. Sotto la sua guida l'Orchestra del Comunale di Bologna non sembra portata a dare il meglio, lasciando un po' in ombra il gioco di colori che dovrebbe essere connaturato a un titolo come questo, specie in una produzione così ricca di sollecitazioni sulla scena.
D'altra parte, anche nel cast non tutti aderiscono allo stesso modo alla poetica dello spettacolo. Se l'annunciato John Osborn deve essere liberato dall'impegno dal Teatro Regio per soccorrere la Wiener Staatsoper in ambasce per la defezione di Juan Diego Flòrez in Guillaume Tell, ecco che arriva infatti Francesco Meli. Questi, nei panni di Nemorino, si trova come in una seconda pelle: la tessitura, la scrittura, il peso della parte sono sempre stati perfetti per lui e anche dopo essersi votato a Ernani e Don Carlo, Manrico e Gabriele Adorno, la confidenza con il personaggio non viene meno, anzi, sembra un ritorno a casa, come conferma il bis della “Furtiva lagrima” concesso a furor di popolo. Certo, questo salvataggio incastrato fra altri impegni e repertori, senza poter prendere parte a tutte le prove (le anteprime aperte al pubblico sono state sostenute da altri tenori) ha un po' limitato il suo coinvolgimento e la sintonia con il contesto. Il problema invece non si è posto con Roberto De Candia, l'altro nome di punta della locandina, previsto da subito in cartellone e sempre grandissimo cesellatore della parola cantata nei panni di un Dulcamara un po' Mangiafuoco un po' Bargnocla (maschera tipica parmigiana, portata in scena dai burattinai Daniela e Giordano Ferrari): un personaggio completo, che non possiamo odiare, ma che pure non nasconde il suo cinismo.
Fra i nomi relativamente nuovi, Lodovico Filippo Ravizza si conferma come Belcore il baritono promettente, dalla bella voce timbrata e dalla dizione ben scolpita, già notato in altre occasioni; Nina Minasyan resta invece in ombra, Adina corretta ma dalla voce piuttosto esile e poco incisiva. Yulia Tkachenko, fresca Giannetta, completa la locandina insieme con l'ottimo coro del Regio e un gruppo di eccellenti attori/tersicorei.
Alla fine, applausi per tutti e una grande conferma: l'opera è un gioco di squadra in cui nessun aspetto può essere trascurato, men che mai la qualità e la complicità fra direzione musicale e teatrale. Su questa base non bisogna temere un teatro che esca dai soliti binari e anche se non tutto andrà per il meglio, varrà sempre la pena di esplorare una diversa sfaccettatura di un'opera d'arte.