L’Ape musicale

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Libertà!

di Fabiana Crepaldi

All'inizio di maggio, il Teatro Municipale di San Paolo ha presentato la Carmen di Bizet, interpretata dal mezzosoprano italiano Annalisa Stroppa.

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San Paolo (Brasile), 3 e 4 maggio 2024 - Non si sa se Prosper Mérimée si sia ispirato al poema di Pushkin Gli zingari, pubblicato in russo nel 1827, per scrivere la sua Carmen, del 1845. Secondo A.D.P Briggs nel suo saggio La Carmen venne davvero dalla Russia (con un piccolo aiuto da parte di Turgenev)?, quello che si sa è che dopo la pubblicazione della Carmen, Mérimée studiò il russo e tradusse "Gli zingari" in prosa francese, e questa traduzione fu pubblicata nel 1852 con il titolo "Les Bohémiens". Si sa anche che il libretto dell'opera "Carmen", scritto non solo da Henri Meilhac (1830-1897) e Ludovic Halévy (1834-1908), ma anche dallo stesso compositore Georges Bizet (1838-1875), contiene passaggi suggestivi (come la fine dell'opera) che sono presenti nel poema di Puškin, ma non nel romanzo di Mérimée.

È dalla Carmen di Mérimer, naturalmente, che deriva non solo il titolo dell'opera, ma anche, in generale, la sua trama. È qui che ha origine quell'intreccio tipico dell'imperialismo europeo che, nel suo eccellente articolo, James Parakilas ha chiamato Il soldato e l'esotico: "la storia dell'amore impossibile tra un soldato dell'esercito europeo e una donna appartenente a un popolo esotico (...)", di cui ho già parlato in un precedente testo su Lakmé [Zurigo, Lakmé, 02/04/2023]. È molto importante tenere presente, tuttavia, che nella Carmen di Mérimer la storia è narrata da Don José dopo la morte di Carmen. Pertanto, la personalità del personaggio del titolo ci giunge attraverso le parole del soldato. Da qui la domanda naturale: fino a che punto possiamo fidarci di questo narratore?

In Pushkin, invece, abbiamo l'esotica, la zingara Zemfira, ma non un funzionario, bensì il giovane Aleko, che si è ritirato dalla società russa a causa di un crimine commesso e della sua disillusione. Aleko finisce tra gli zingari, dove incontra Zemfira. A differenza del romanzo di Mérimer, nel poema di Puškin la zingara ha voce e personalità proprie. Come sottolinea Briggs, i tre temi principali trattati nell'opera provengono da Puškin: "la forza della passione umana e il suo forte legame con la violenza e la tragedia; le ripetute dichiarazioni dell'eroina sul bisogno di libertà; e la forza ineluttabile del destino maligno che, una volta invocato o riconosciuto, rivendica sempre ciò che è suo".

La prima della Carmen di Bizet avvenne nel 1875 all'Opéra Comique di Parigi, dove venivano presentati spettacoli dallo stile ben definito (il cosiddetto opéra-comique). Stiamo quindi parlando di una piccola sala, un ambiente quasi intimo, con una piccola orchestra abituata a suonare brani poco elaborati musicalmente e rivolta verso il palcoscenico piuttosto che verso il pubblico. Ciò significa che Carmen, così come Bizet l'ha concepita, non è un'opera grandiosa per arene enormi e fragorose, cori e orchestre. In Carmen predominano i piani e i pianissimi, e ci sono pochi forti e fortissimi.

Se Carmen e Don José provengono dalla novella di Mérimée e dal poema di Puškin, e potrebbero benissimo essere personaggi di un grand opéra, Micaëla ed Escamillo sono creazioni dei librettisti e figure tipiche dell'opéra-comique. Nell'opéra-comique, dinorma, ci sono dialoghi parlati tra i numeri cantati, la musica non è sofisticata, ci sono elementi comici e pittoreschi, e si evitano tragedia, morte o violenza. In Carmen, insomma, solo la coppia centrale (e, naturalmente, la trama!) si discosta da questo stile, sia musicalmente sia drammaticamente. Micaëla ed Escamillo, invece, sono personaggi drammaticamente superficiali con una musica convenzionale. Micaëla è la tipica brava ragazza, come quelle che andavano a teatro con le loro famiglie; Escamillo è il tipico stereotipo dell'uomo di successo.

Nella produzione di Jorge Takla, che ha debuttato il 3 maggio al Theatro Municipal de São Paulo con la regia di Ronaldo Zero, i dialoghi della versione opéra-comique sono stati quasi completamente tagliati - e non sostituiti dai recitativi composti da Ernest Guiraud dopo la morte di Bizet, ma semplicemente soppressi. Ciò ha causato fratture nella trama e una perdita di drammaticità. In altre parole, il teatro è stato sacrificato. Se si fosse prestata maggiore attenzione all'aspetto teatrale, alla costruzione e all'evoluzione drammatica dei personaggi, avremmo avuto uno spettacolo migliore.

Takla ha un curriculum di produzioni eccellenti a San Paolo, che combinano buon gusto e intelligenza. Ne cito due: il Rigoletto di Verdi, presentato sempre al Municipal nel 2019, e un indimenticabile Don Quichotte di Massenet presentato nel 2016 al Teatro São Pedro. Nella sua Carmen, Takla ha optato per il lusso e il fascino visivo. L'azione è ambientata a Siviglia, ma trasposta in un atelier di alta moda negli anni '50, durante la dittatura franchista. Un ambiente che ricorda Il tempo tra le cuciture di María Dueñas.

Carmen, la protagonista, non è più un'impiegata della Fabbrica Reale di Tabacco - un'icona di Siviglia, dove ora si trova l'università - ma una modella. La taverna di Lillas Pastia è diventata uno studio fotografico - con alcuni tavoli da bar. La corrida dell'ultimo atto si è trasformata in una sfilata in cui modelle vestite da toro, con un'estetica androgina, hanno sfilato davanti a un pubblico omogeneo, vestito di raso azzurro, che ha applaudito.

È in questa atmosfera di sfilata di uomini-toro che sembravano mettere in discussione la loro mascolinità, sotto gli applausi del pubblico, che Don José e Carmen si sono confrontati, anche se in realtà, la regia piuttosto fredda degli attori ha evitato qualsiasi confronto. Ed è davanti a un Escamillo gelido ed egocentrico, paralizzato dal suo stesso successo (e questa è stata una grande idea) e a questo pubblico indifferente, che Carmen è stata uccisa. Se da un lato si è trattato di un quarto atto ricco di segni e di buone idee, dall'altro si deve deplorare la mancanza di drammaticità nella direzione degli attori e il gran numero di persone in scena, che hanno distolto l'attenzione dalla narrazione principale - cosa che, tra l'altro, è avvenuta anche in altri momenti dell'opera, allontanandola dallo spirito dell'opéra-comique.

Non si può dire che la Carmen di Takla non sia più una gitana, perché nulla impedisce a una persona di origine rom (cioè una gitana) di fare la modella in Spagna. Tuttavia, si è già assimilata alla società europea e ha perso parte del suo status di "esotica". Questo non è un grosso problema, perché i tre temi fondamentali dell'opera - passione, libertà e destino - sono ancora presenti. La libertà, infatti, è stata enfatizzata e, nel bene e nel male, ha trasceso la condizione di zingara che è nata libera e vuole morire libera.

Dico "nel bene e nel male" perché, in piena dittatura franchista, la libertà a cui Carmen aspirava era quella politica, la democrazia, non quella sessuale femminile. Questo diventa chiaro nel secondo atto, nello studio fotografico di Lillas Pastia, che è anche un luogo dove la gente si riuniva per complottare contro la dittatura. In un momento potente ed emblematico, nel concertato finale, quando Carmen e il coro cantano "la liberté!", appare sullo sfondo un pannello con un pugno rosso serrato. È vero che questo spostamento ha dato alla produzione una densità politica e ha toccato un tema particolarmente pertinente ai nostri tempi, ma d'altra parte ha tolto attenzione alla lotta delle donne.

Le scenografie di Nicolás Boni, sempre belle e intelligenti, e l'eccellente illuminazione di Mirella Brandi - che faceva entrare la luce attraverso una finestra laterale che cambiava temperatura e intensità - hanno contribuito notevolmente al buon finale dello spettacolo. I costumi di Pablo Ramírez, invece, sono stati un po' disomogenei: hanno aggiunto colore allo spettacolo attraverso una tavolozza che iniziava con il rosa e migrava nel corso dell'opera verso il rosso e l'azzurro, e ci sono stati alcuni bei momenti, ma gli abiti di Micaëla e Mercedes, ad esempio, erano di cattivo gusto e, anche se voluti, esagerati.

Nella parte di Micaëla si sono alternate Camila Provenzale (il 3) e Marly Montoni (il 4). Due soprani brasiliani; due nomi forti; due Micaëla scenicamente opposte - e nessuna delle due totalmente convincente. La Provenzale ha reso una fanciulla delicata, ma lascia uscire un po' d'aria mentre canta, sminuendo la brillantezza e rendendo difficile la proiezione del suono. La voce della Montoni, invece, ha un volume maggiore, che seduce il pubblico brasiliano e le permette offrire un personaggio più audace - troppo audace. La Montoni ha eseguito l'aria con un'intonazione imprecisa e un vibrato accentuato, rendendo difficile la fruizione e la comprensione del testo.

Dopo la stessa Carmen, Micaëla è stato il personaggio più compromesso dai tagli. Nel terzo atto, ad esempio, arriva e inizia a cantare "Je dis que rien ne m'épouvante", come se fosse a un saggio. Il dialogo che precede l'aria è così breve, perché tagliarlo?

La linea di Escamillo, il toréador, scende a un si bemolle basso, che è sempre una sfida per i baritoni. Certamente in un ambiente intimo come l'Opéra Comique, sentire queste note del canto del toréador non è un problema. Detto questo, egli è, come già detto, un personaggio convenzionale dell'Opéra Comique, i suoi couplets sono quasi un jingle, è ciò che il pubblico lascia il teatro canticchiando. Per Escamillo bastano un bel timbro, un legato e un carisma, e il successo è garantito. Fabián Veloz (3) e Bongani J Kubheka (4) si sono alternati nella parte. Veloz ha una voce potente e imponente, ma manca di carisma, espressività e attenzione al testo. Il sudafricano Kubheka, invece, con carisma da vendere, si è avvicinato all'Escamillo dei sogni, anche con il dovuto e tanto disprezzato staccato in "en ga-a-a-arde!" - che ha fatto solo quando la melodia è stata ripetuta, differenziando le due parti dell'aria. La sua voce ha proiettato poco il si bemolle, ma il suo timbro caldo e morbido è bellissimo e il suo canto ha un bel legato.

Don José è l'icona della passione travolgente che porta alla violenza e alla tragedia. Nel ruolo si sono alternati due tenori brasiliani: Max Jota (il 3) e Giovanni Tristacci (il 4). Oltre a essere tenori e brasiliani, hanno in comune anche il fatto di essere stati vincitori, nel 2011, della decima edizione del Concorso Brasiliano di Canto Maria Callas - nella produzione, infatti, accanto a loro, altri tre vincitori di altre edizioni di questo importante concorso brasiliano: Raquel Paulin (Frasquita), Johnny França (Dancaire) e la già citata Camila Provenzale (Micaëla).

Jota risiede in Italia e questa produzione segna il suo ottavo Don José e il suo debutto a San Paolo. È stato interessante vedere come si sia lasciato infiammare da una passione incontrollabile per tutta la recita. Nelle poche parti parlate rimaste, il tenore ha abusato di una voce gutturale un po' caricaturale, compensata dal buon francese e dalla buona proiezione. Jota era un Don José con un bel timbro, begli acuti e filati, fraseggio e dinamiche molto ben lavorati. Alla fine dell'aria del fiore - tutta cantata con dinamiche ricche, fedeli a Bizet - in "Et j'étais une chose à toi!", Jota non ha rischiato il pianissimo scritto in partitura, ma non ha nemmeno fatto appello al facile (e sgradevole, e anti-Bizet) effetto del fortissimo. Ha optato per un mezzoforte con un diminuendo che portava al pianissimo.

Giovanni Tristacci è attualmente uno dei principali tenori brasiliani. Ha fornito prestazioni impeccabili e sta costruendo una carriera consistente. Ha un bel timbro e una voce che proietta bene. Ha anche un ottimo francese. Tuttavia, Don José non sembra ancora un ruolo naturale per lui. Dal punto di vista scenico, la costruzione del personaggio non è migliorata. Il suo canto mancava di sfumature e sembrava che cercasse di scurire la voce, il che portava a un vibrato innaturale.

A capo dei rispettivi cast, Annalisa Stroppa (giorno 3) e Lilia Istratii (giorno 4) hanno dato vita a due Carmen distinti e di altissimo livello. Chi, come me, ha avuto l'opportunità di vedere i due cast ha potuto scoprire, attraverso le due cantanti, aspetti diversi del canto e della personalità del protagonista. Istratii, giovane mezzosoprano moldavo, è all'inizio di una promettente carriera. Stroppa, invece, ha già una carriera affermata. Italiana, è alla sua decima produzione di Carmen (la precedente risale al 2021, al Teatro Massimo di Palermo). Va fatto un plauso alla direzione del Municipal per aver dato al pubblico di San Paolo, così lontano dai principali teatri del mondo, l'opportunità di vedere un'artista di questo calibro, che ha calcato importanti palcoscenici in tutto il mondo.

Stroppa ha dato vita a una Carmen sofisticata, in linea con l'idea scenica. È chiaramente una cantante che esplora la partitura, che rispetta il compositore e che non perde un dettaglio. Questo non significa che il suo canto fosse artificiale. Al contrario: il canto di Stroppa trasmette tutta la libertà che Carmen rappresenta. Nella Seguidilla, ad esempio, ha saputo giocare con le parole, con un canto colorato quanto l'orchestrazione di Bizet - e, naturalmente, senza privarci del delizioso e spesso dimenticato staccato in "j'irai danser la séguedille / et boire du Manzanilla".

L'aria delle carte, o dei tarocchi, è il momento in cui Carmen entra in contatto con il suo destino maligno, esplicitando quel destino che si manifesta attraverso le carte spietate, contro cui è inutile lottare. È un momento di rassegnazione o di dramma, a seconda dei gusti dell'interprete. Con il legato, entrambe le opzioni funzionano bene - ma con le note martellate, come spesso si sente, non funziona nulla, è inutile come combattere il destino. Stroppa ha eseguito l'aria con profonda drammaticità, con un senso di tragedia e, fortunatamente, con un legato coerente e un piano iniziale.

Sempre a proposito del canto di Stroppa, c'è un momento del secondo atto che merita una menzione speciale. Don José termina l'aria del fiore con "Carmen, je t'aime!", in pianissimo, e Carmen risponde, sempre in pianissimo, "Non! tu ne m'aimes pas!". Stroppa ha intonato un pianissimo così profondo, così pulito, così sostenuto, che ha inondato la sala.

Come Jota, il suo Don José, la Carmen di Stroppa ha acquisito personalità nel corso della recita. Non solo ha dominato il palcoscenico come grande attrice, ma, grazie alle coreografie di Katia Barros, ha dimostrato di essere una ballerina aggraziata e abile.

Il fascino di Lilia Istratii, invece, non si trova nei dettagli del suo canto, ma nella forza della sua Carmen. Istratii ha una voce bella e uniforme, che proietta molto bene, e una forte presenza scenica. Il mezzo ha costruito una Carmen molto ben dosata, senza esagerazioni e seducente al punto giusto. La sua chanson bohème è stata irresistibile.

Il cast di supporto è stato molto efficiente, sia dal punto di vista scenico che vocale, con una menzione speciale per Raquel Paulin (Frasquita), Andreia Souza (Mercedes) e Johnny França (Dancaire), oltre a Jean William (Remendado), Guilherme Rosa (Moralès), Sérgio Righini (Zuniga) e l'attore Marcio Louzada (Lillas Pastia).

Lo stesso si può dire del Coro lirico comunale e del Coro di voci bianche della Scuola comunale di musica, preparati rispettivamente da Érica Hindrikson e Regina Kinjo. La partecipazione del coro dei bambini è stata incantevole. Quanto al coro degli adulti, ha iniziato a distinguersi nella bellissima scena in cui le sarte, con le sigarette in mano, cantano "Dans l'air, nous suivons des yeux / la fumée".

Alla guida dell'Orchestra Sinfonica Municipale, il direttore Roberto Minczuk è riuscito a gestire il caleidoscopio di timbri che costituisce l'orchestrazione di Carmen. Minczuk è stato criticato in precedenti produzioni quando, oberato da altri impegni, non ha provato adeguatamente con l'orchestra. In Carmen è stato possibile vedere quanta differenza faccia quando il direttore si dedica alla costruzione di un suono. È vero che a volte i suoi tempi erano un po' veloci, come nel preludio, ma si trattava di una scelta accettabile, niente di eccessivo rispetto a quanto si faceva qualche decennio fa, quando non c'era la minima preoccupazione per un'interpretazione storicamente informata. La registrazione di Giuseppe Patané, responsabile della Staatskapelle di Dresda, è lì a dimostrare che il tempo del preludio è davvero esagerato. A proposito, la Chanson Bohème è stata staccata molto bene, con un crescendo e un accelerando. Degno di nota anche l'entr'acte che precede il terzo atto, eseguito con sensibilità e delicatezza. Si tratta di un bellissimo andantino, che inizia con un assolo di flauto e un accompagnamento di arpa, ma presto si uniscono il clarinetto e gli archi, producendo un delicato e graduale crescendo. Una gemma posta da Bizet al centro di quest'opera che è meritatamente una delle più popolari del repertorio.

Infine, a prescindere dagli innegabili meriti della regia di Takla, la produzione di una nuova Carmen da parte del Teatro Municipale di San Paolo è discutibile. Nel 2014, lo stesso teatro ha prodotto l'opera, per la regia di Filippo Tonon, con grande successo. Sembra irragionevole che, dieci anni dopo, il teatro investa in una nuova produzione senza aver mai rimontato l'opera di Tonon. In ogni caso, vale la pena di festeggiare il fatto che questa Carmen punti in una buona direzione: un livello musicale coerente, con cantanti nazionali e stranieri che condividono il palco.


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