L’Ape musicale

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Libertà!

di Fabiana Crepaldi

All'inizio di maggio, il Teatro Municipale di San Paolo ha presentato la Carmen di Bizet, interpretata dal mezzosoprano italiano Annalisa Stroppa.

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San Paolo (Brasile), 3 e 4 maggio 2024 - Non si sa se Prosper Mérimée si sia ispirato al poema di Pushkin Gli zingari, pubblicato in russo nel 1827, per scrivere la sua Carmen, del 1845. Secondo A.D.P Briggs nel suo saggio La Carmen venne davvero dalla Russia (con un piccolo aiuto da parte di Turgenev)?, quello che si sa è che dopo la pubblicazione della Carmen, Mérimée studiò il russo e tradusse "Gli zingari" in prosa francese, e questa traduzione fu pubblicata nel 1852 con il titolo "Les Bohémiens". Si sa anche che il libretto dell'opera "Carmen", scritto non solo da Henri Meilhac (1830-1897) e Ludovic Halévy (1834-1908), ma anche dallo stesso compositore Georges Bizet (1838-1875), contiene passaggi suggestivi (come la fine dell'opera) che sono presenti nel poema di Puškin, ma non nel romanzo di Mérimée.

È dalla Carmen di Mérimer, naturalmente, che deriva non solo il titolo dell'opera, ma anche, in generale, la sua trama. È qui che ha origine quell'intreccio tipico dell'imperialismo europeo che, nel suo eccellente articolo, James Parakilas ha chiamato Il soldato e l'esotico: "la storia dell'amore impossibile tra un soldato dell'esercito europeo e una donna appartenente a un popolo esotico (...)", di cui ho già parlato in un precedente testo su Lakmé [Zurigo, Lakmé, 02/04/2023]. È molto importante tenere presente, tuttavia, che nella Carmen di Mérimer la storia è narrata da Don José dopo la morte di Carmen. Pertanto, la personalità del personaggio del titolo ci giunge attraverso le parole del soldato. Da qui la domanda naturale: fino a che punto possiamo fidarci di questo narratore?

In Pushkin, invece, abbiamo l'esotica, la zingara Zemfira, ma non un funzionario, bensì il giovane Aleko, che si è ritirato dalla società russa a causa di un crimine commesso e della sua disillusione. Aleko finisce tra gli zingari, dove incontra Zemfira. A differenza del romanzo di Mérimer, nel poema di Puškin la zingara ha voce e personalità proprie. Come sottolinea Briggs, i tre temi principali trattati nell'opera provengono da Puškin: "la forza della passione umana e il suo forte legame con la violenza e la tragedia; le ripetute dichiarazioni dell'eroina sul bisogno di libertà; e la forza ineluttabile del destino maligno che, una volta invocato o riconosciuto, rivendica sempre ciò che è suo".

La prima della Carmen di Bizet avvenne nel 1875 all'Opéra Comique di Parigi, dove venivano presentati spettacoli dallo stile ben definito (il cosiddetto opéra-comique). Stiamo quindi parlando di una piccola sala, un ambiente quasi intimo, con una piccola orchestra abituata a suonare brani poco elaborati musicalmente e rivolta verso il palcoscenico piuttosto che verso il pubblico. Ciò significa che Carmen, così come Bizet l'ha concepita, non è un'opera grandiosa per arene enormi e fragorose, cori e orchestre. In Carmen predominano i piani e i pianissimi, e ci sono pochi forti e fortissimi.

Se Carmen e Don José provengono dalla novella di Mérimée e dal poema di Puškin, e potrebbero benissimo essere personaggi di un grand opéra, Micaëla ed Escamillo sono creazioni dei librettisti e figure tipiche dell'opéra-comique. Nell'opéra-comique, dinorma, ci sono dialoghi parlati tra i numeri cantati, la musica non è sofisticata, ci sono elementi comici e pittoreschi, e si evitano tragedia, morte o violenza. In Carmen, insomma, solo la coppia centrale (e, naturalmente, la trama!) si discosta da questo stile, sia musicalmente sia drammaticamente. Micaëla ed Escamillo, invece, sono personaggi drammaticamente superficiali con una musica convenzionale. Micaëla è la tipica brava ragazza, come quelle che andavano a teatro con le loro famiglie; Escamillo è il tipico stereotipo dell'uomo di successo.

Nella produzione di Jorge Takla, che ha debuttato il 3 maggio al Theatro Municipal de São Paulo con la regia di Ronaldo Zero, i dialoghi della versione opéra-comique sono stati quasi completamente tagliati - e non sostituiti dai recitativi composti da Ernest Guiraud dopo la morte di Bizet, ma semplicemente soppressi. Ciò ha causato fratture nella trama e una perdita di drammaticità. In altre parole, il teatro è stato sacrificato. Se si fosse prestata maggiore attenzione all'aspetto teatrale, alla costruzione e all'evoluzione drammatica dei personaggi, avremmo avuto uno spettacolo migliore.

Takla ha un curriculum di produzioni eccellenti a San Paolo, che combinano buon gusto e intelligenza. Ne cito due: il Rigoletto di Verdi, presentato sempre al Municipal nel 2019, e un indimenticabile Don Quichotte di Massenet presentato nel 2016 al Teatro São Pedro. Nella sua Carmen, Takla ha optato per il lusso e il fascino visivo. L'azione è ambientata a Siviglia, ma trasposta in un atelier di alta moda negli anni '50, durante la dittatura franchista. Un ambiente che ricorda Il tempo tra le cuciture di María Dueñas.

Carmen, la protagonista, non è più un'impiegata della Fabbrica Reale di Tabacco - un'icona di Siviglia, dove ora si trova l'università - ma una modella. La taverna di Lillas Pastia è diventata uno studio fotografico - con alcuni tavoli da bar. La corrida dell'ultimo atto si è trasformata in una sfilata in cui modelle vestite da toro, con un'estetica androgina, hanno sfilato davanti a un pubblico omogeneo, vestito di raso azzurro, che ha applaudito.

È in questa atmosfera di sfilata di uomini-toro che sembravano mettere in discussione la loro mascolinità, sotto gli applausi del pubblico, che Don José e Carmen si sono confrontati, anche se in realtà, la regia piuttosto fredda degli attori ha evitato qualsiasi confronto. Ed è davanti a un Escamillo gelido ed egocentrico, paralizzato dal suo stesso successo (e questa è stata una grande idea) e a questo pubblico indifferente, che Carmen è stata uccisa. Se da un lato si è trattato di un quarto atto ricco di segni e di buone idee, dall'altro si deve deplorare la mancanza di drammaticità nella direzione degli attori e il gran numero di persone in scena, che hanno distolto l'attenzione dalla narrazione principale - cosa che, tra l'altro, è avvenuta anche in altri momenti dell'opera, allontanandola dallo spirito dell'opéra-comique.

Non si può dire che la Carmen di Takla non sia più una gitana, perché nulla impedisce a una persona di origine rom (cioè una gitana) di fare la modella in Spagna. Tuttavia, si è già assimilata alla società europea e ha perso parte del suo status di "esotica". Questo non è un grosso problema, perché i tre temi fondamentali dell'opera - passione, libertà e destino - sono ancora presenti. La libertà, infatti, è stata enfatizzata e, nel bene e nel male, ha trasceso la condizione di zingara che è nata libera e vuole morire libera.

Dico "nel bene e nel male" perché, in piena dittatura franchista, la libertà a cui Carmen aspirava era quella politica, la democrazia, non quella sessuale femminile. Questo diventa chiaro nel secondo atto, nello studio fotografico di Lillas Pastia, che è anche un luogo dove la gente si riuniva per complottare contro la dittatura. In un momento potente ed emblematico, nel concertato finale, quando Carmen e il coro cantano "la liberté!", appare sullo sfondo un pannello con un pugno rosso serrato. È vero che questo spostamento ha dato alla produzione una densità politica e ha toccato un tema particolarmente pertinente ai nostri tempi, ma d'altra parte ha tolto attenzione alla lotta delle donne.

Le scenografie di Nicolás Boni, sempre belle e intelligenti, e l'eccellente illuminazione di Mirella Brandi - che faceva entrare la luce attraverso una finestra laterale che cambiava temperatura e intensità - hanno contribuito notevolmente al buon finale dello spettacolo. I costumi di Pablo Ramírez, invece, sono stati un po' disomogenei: hanno aggiunto colore allo spettacolo attraverso una tavolozza che iniziava con il rosa e migrava nel corso dell'opera verso il rosso e l'azzurro, e ci sono stati alcuni bei momenti, ma gli abiti di Micaëla e Mercedes, ad esempio, erano di cattivo gusto e, anche se voluti, esagerati.

Nella parte di Micaëla si sono alternate Camila Provenzale (il 3) e Marly Montoni (il 4). Due soprani brasiliani; due nomi forti; due Micaëla scenicamente opposte - e nessuna delle due totalmente convincente. La Provenzale ha reso una fanciulla delicata, ma lascia uscire un po' d'aria mentre canta, sminuendo la brillantezza e rendendo difficile la proiezione del suono. La voce della Montoni, invece, ha un volume maggiore, che seduce il pubblico brasiliano e le permette offrire un personaggio più audace - troppo audace. La Montoni ha eseguito l'aria con un'intonazione imprecisa e un vibrato accentuato, rendendo difficile la fruizione e la comprensione del testo.

Dopo la stessa Carmen, Micaëla è stato il personaggio più compromesso dai tagli. Nel terzo atto, ad esempio, arriva e inizia a cantare "Je dis que rien ne m'épouvante", come se fosse a un saggio. Il dialogo che precede l'aria è così breve, perché tagliarlo?

La linea di Escamillo, il toréador, scende a un si bemolle basso, che è sempre una sfida per i baritoni. Certamente in un ambiente intimo come l'Opéra Comique, sentire queste note del canto del toréador non è un problema. Detto questo, egli è, come già detto, un personaggio convenzionale dell'Opéra Comique, i suoi couplets sono quasi un jingle, è ciò che il pubblico lascia il teatro canticchiando. Per Escamillo bastano un bel timbro, un legato e un carisma, e il successo è garantito. Fabián Veloz (3) e Bongani J Kubheka (4) si sono alternati nella parte. Veloz ha una voce potente e imponente, ma manca di carisma, espressività e attenzione al testo. Il sudafricano Kubheka, invece, con carisma da vendere, si è avvicinato all'Escamillo dei sogni, anche con il dovuto e tanto disprezzato staccato in "en ga-a-a-arde!" - che ha fatto solo quando la melodia è stata ripetuta, differenziando le due parti dell'aria. La sua voce ha proiettato poco il si bemolle, ma il suo timbro caldo e morbido è bellissimo e il suo canto ha un bel legato.

Don José è l'icona della passione travolgente che porta alla violenza e alla tragedia. Nel ruolo si sono alternati due tenori brasiliani: Max Jota (il 3) e Giovanni Tristacci (il 4). Oltre a essere tenori e brasiliani, hanno in comune anche il fatto di essere stati vincitori, nel 2011, della decima edizione del Concorso Brasiliano di Canto Maria Callas - nella produzione, infatti, accanto a loro, altri tre vincitori di altre edizioni di questo importante concorso brasiliano: Raquel Paulin (Frasquita), Johnny França (Dancaire) e la già citata Camila Provenzale (Micaëla).

Jota risiede in Italia e questa produzione segna il suo ottavo Don José e il suo debutto a San Paolo. È stato interessante vedere come si sia lasciato infiammare da una passione incontrollabile per tutta la recita. Nelle poche parti parlate rimaste, il tenore ha abusato di una voce gutturale un po' caricaturale, compensata dal buon francese e dalla buona proiezione. Jota era un Don José con un bel timbro, begli acuti e filati, fraseggio e dinamiche molto ben lavorati. Alla fine dell'aria del fiore - tutta cantata con dinamiche ricche, fedeli a Bizet - in "Et j'étais une chose à toi!", Jota non ha rischiato il pianissimo scritto in partitura, ma non ha nemmeno fatto appello al facile (e sgradevole, e anti-Bizet) effetto del fortissimo. Ha optato per un mezzoforte con un diminuendo che portava al pianissimo.

Giovanni Tristacci è attualmente uno dei principali tenori brasiliani. Ha fornito prestazioni impeccabili e sta costruendo una carriera consistente. Ha un bel timbro e una voce che proietta bene. Ha anche un ottimo francese. Tuttavia, Don José non sembra ancora un ruolo naturale per lui. Dal punto di vista scenico, la costruzione del personaggio non è migliorata. Il suo canto mancava di sfumature e sembrava che cercasse di scurire la voce, il che portava a un vibrato innaturale.

A capo dei rispettivi cast, Annalisa Stroppa (giorno 3) e Lilia Istratii (giorno 4) hanno dato vita a due Carmen distinti e di altissimo livello. Chi, come me, ha avuto l'opportunità di vedere i due cast ha potuto scoprire, attraverso le due cantanti, aspetti diversi del canto e della personalità del protagonista. Istratii, giovane mezzosoprano moldavo, è all'inizio di una promettente carriera. Stroppa, invece, ha già una carriera affermata. Italiana, è alla sua decima produzione di Carmen (la precedente risale al 2021, al Teatro Massimo di Palermo). Va fatto un plauso alla direzione del Municipal per aver dato al pubblico di San Paolo, così lontano dai principali teatri del mondo, l'opportunità di vedere un'artista di questo calibro, che ha calcato importanti palcoscenici in tutto il mondo.

Stroppa ha dato vita a una Carmen sofisticata, in linea con l'idea scenica. È chiaramente una cantante che esplora la partitura, che rispetta il compositore e che non perde un dettaglio. Questo non significa che il suo canto fosse artificiale. Al contrario: il canto di Stroppa trasmette tutta la libertà che Carmen rappresenta. Nella Seguidilla, ad esempio, ha saputo giocare con le parole, con un canto colorato quanto l'orchestrazione di Bizet - e, naturalmente, senza privarci del delizioso e spesso dimenticato staccato in "j'irai danser la séguedille / et boire du Manzanilla".

L'aria delle carte, o dei tarocchi, è il momento in cui Carmen entra in contatto con il suo destino maligno, esplicitando quel destino che si manifesta attraverso le carte spietate, contro cui è inutile lottare. È un momento di rassegnazione o di dramma, a seconda dei gusti dell'interprete. Con il legato, entrambe le opzioni funzionano bene - ma con le note martellate, come spesso si sente, non funziona nulla, è inutile come combattere il destino. Stroppa ha eseguito l'aria con profonda drammaticità, con un senso di tragedia e, fortunatamente, con un legato coerente e un piano iniziale.

Sempre a proposito del canto di Stroppa, c'è un momento del secondo atto che merita una menzione speciale. Don José termina l'aria del fiore con "Carmen, je t'aime!", in pianissimo, e Carmen risponde, sempre in pianissimo, "Non! tu ne m'aimes pas!". Stroppa ha intonato un pianissimo così profondo, così pulito, così sostenuto, che ha inondato la sala.

Come Jota, il suo Don José, la Carmen di Stroppa ha acquisito personalità nel corso della recita. Non solo ha dominato il palcoscenico come grande attrice, ma, grazie alle coreografie di Katia Barros, ha dimostrato di essere una ballerina aggraziata e abile.

Il fascino di Lilia Istratii, invece, non si trova nei dettagli del suo canto, ma nella forza della sua Carmen. Istratii ha una voce bella e uniforme, che proietta molto bene, e una forte presenza scenica. Il mezzo ha costruito una Carmen molto ben dosata, senza esagerazioni e seducente al punto giusto. La sua chanson bohème è stata irresistibile.

Il cast di supporto è stato molto efficiente, sia dal punto di vista scenico che vocale, con una menzione speciale per Raquel Paulin (Frasquita), Andreia Souza (Mercedes) e Johnny França (Dancaire), oltre a Jean William (Remendado), Guilherme Rosa (Moralès), Sérgio Righini (Zuniga) e l'attore Marcio Louzada (Lillas Pastia).

Lo stesso si può dire del Coro lirico comunale e del Coro di voci bianche della Scuola comunale di musica, preparati rispettivamente da Érica Hindrikson e Regina Kinjo. La partecipazione del coro dei bambini è stata incantevole. Quanto al coro degli adulti, ha iniziato a distinguersi nella bellissima scena in cui le sarte, con le sigarette in mano, cantano "Dans l'air, nous suivons des yeux / la fumée".

Alla guida dell'Orchestra Sinfonica Municipale, il direttore Roberto Minczuk è riuscito a gestire il caleidoscopio di timbri che costituisce l'orchestrazione di Carmen. Minczuk è stato criticato in precedenti produzioni quando, oberato da altri impegni, non ha provato adeguatamente con l'orchestra. In Carmen è stato possibile vedere quanta differenza faccia quando il direttore si dedica alla costruzione di un suono. È vero che a volte i suoi tempi erano un po' veloci, come nel preludio, ma si trattava di una scelta accettabile, niente di eccessivo rispetto a quanto si faceva qualche decennio fa, quando non c'era la minima preoccupazione per un'interpretazione storicamente informata. La registrazione di Giuseppe Patané, responsabile della Staatskapelle di Dresda, è lì a dimostrare che il tempo del preludio è davvero esagerato. A proposito, la Chanson Bohème è stata staccata molto bene, con un crescendo e un accelerando. Degno di nota anche l'entr'acte che precede il terzo atto, eseguito con sensibilità e delicatezza. Si tratta di un bellissimo andantino, che inizia con un assolo di flauto e un accompagnamento di arpa, ma presto si uniscono il clarinetto e gli archi, producendo un delicato e graduale crescendo. Una gemma posta da Bizet al centro di quest'opera che è meritatamente una delle più popolari del repertorio.

Infine, a prescindere dagli innegabili meriti della regia di Takla, la produzione di una nuova Carmen da parte del Teatro Municipale di San Paolo è discutibile. Nel 2014, lo stesso teatro ha prodotto l'opera, per la regia di Filippo Tonon, con grande successo. Sembra irragionevole che, dieci anni dopo, il teatro investa in una nuova produzione senza aver mai rimontato l'opera di Tonon. In ogni caso, vale la pena di festeggiare il fatto che questa Carmen punti in una buona direzione: un livello musicale coerente, con cantanti nazionali e stranieri che condividono il palco.


La Liberté!

de Fabiana Crepaldi

No início de maio, o Theatro Municipal de São Paulo apresentou a ópera Carmen, de Bizet, protagonizada pela mezzosoprano italiana Annalisa Stroppa.

São Paulo, 3 e 4 maio 2024 - Se Prosper Mérimée se inspirou no poema “Os Ciganos”, de Pushkin, publicado em russo em 1827, para escrever sua “Carmen”, de 1845, não se sabe. Segundo A.D.P Briggs em seu ensaio “Did Carmen really come from Russia (with a little help from Turgenev)?”, o que se sabe é que, após a publicação de “Carmen”, Mérimée estudou russo e traduziu “Os Ciganos” para o francês em prosa, e essa tradução foi publicada em 1852, sob o título de “Les Bohémiens”. Também se sabe que o libreto da ópera “Carmen”, de autoria não só de Henri Meilhac (1830-1897) e Ludovic Halévy (1834-1908), mas também do próprio compositor Georges Bizet (1838-1875), há passagens marcantes (como o próprio final da ópera) que estão no poema de Pushkin, mas não na novela de Mérimée.

É da Carmen de Mérimer, evidentemente, que provém não só o título da ópera, mas, também, de um modo geral, seu enredo. É aí que está a origem dessa trama típica do imperialismo europeu que, em seu excelente artigo, James Parakilas chamou de The Soldier and the Exotic: “uma estória do amor impossível entre um soldado de um exército europeu e uma mulher pertencente a um povo exótico (...)”, que já discuti em um texto anterior sobre Lakmé [Zurigo, Lakmé, 02/04/2023]. É muito importante ter em mente, no entanto, que na “Carmen” de Mérimer, a história é narrada por Don José após a morte de Carmen. Desse modo, a personalidade da personagem-título nos chega por meio das palavras de Don José. Daí é natural a pergunta: até que ponto podemos confiar nesse narrador?

Já em Pushkin, temos o exótico, a cigana Zemfira, mas não temos um oficial, e sim o jovem Aleko, que se retirou da sociedade russa em virtude de um crime que cometeu e de sua desilusão. Aleko foi parar no meio dos ciganos, onde conheceu Zemfira. Ao contrário da novela de Mérimer, no poema de Pushkin a cigana tem voz e personalidade próprias. Como aponta Briggs, os três principais temas tratados na ópera provêm de Pushkin: “o poder da paixão humana e sua forte ligação com a violência e com a tragédia; as repetidas declarações da heroína sobre a necessidade de liberdade; e a força inelutável do destino malévolo que, uma vez invocado ou reconhecido, sempre reivindica o que é seu.”

A “Carmen” de Bizet estreou em 1875 na Opéra Comique, em Paris, onde eram apresentados espetáculos de um estilo bem-definido (a chamada opéra-comique). Estamos falando, pois, de uma sala pequena, um ambiente quase intimista, com uma orquestra pequena e habituada a tocar peças pouco elaboradas musicalmente, e que tocava virada para a cena, e não para o público. Isso significa que “Carmen”, como Bizet a concebeu, não é uma ópera grandiosa, para arenas, coros e orquestras enormes e estrondosas. Em “Carmen”, predominam os pianos e pianíssimos, e há poucos fortes e fortíssimos.

Se Carmen e Don José vêm da novela de Mérimer e do poema de Pushkin, e bem poderiam ser personagens de uma grand opéra, Micaëla e Escamillo são criações do libretistas e figuras típicas da opéra-comique. Na opéra-comique, em regra, há diálogos falados entre os números cantados, a música não é sofisticada, há elementos cômicos, caricatos, e não pode haver tragédia, morte ou violência. Em “Carmen”, em resumo, apenas o casal central (e, claro, o enredo!) destoa desse estilo, tanto musical quanto dramaticamente. Já Micaëla e Escamillo são personagens dramaticamente superficiais com músicas convencionais. Micaëla é a típica boa-moça, como as que frequentavam o teatro com suas famílias; Escamillo é o típico herói, o estereótipo do homem bem-sucedido.

Na produção de Jorge Takla, que estreou no dia 3 de maio no Theatro Municipal de São Paulo e teve a direção associada de Ronaldo Zero, os diálogos da versão opéra-comique foram quase totalmente cortados – e não foram substituídos pelos recitativos compostos por Ernest Guiraud após a morte de Bizet, mas simplesmente suprimidos. Isso causou fraturas na trama e perda de dramaticidade. Em outras palavras, o teatro foi sacrificado. Com uma maior atenção ao aspecto teatral, à construção e evolução dramática dos personagens, teríamos tido um espetáculo superior.

Takla tem um histórico de ótimas produções em São Paulo, unindo bom gosto e inteligência. Cito duas delas: o “Rigoletto”, de Verdi, apresentado também no Municipal, em 2019, e um inesquecível “Don Quichotte”, de Massenet, apresentado em 2016 no Theatro São Pedro. Em sua “Carmen”, Takla apostou no luxo e no apelo visual. A ação foi mantida em Sevilha, mas transposta para um ateliê de alta costura nos anos 50, período da ditadura franquista. Um ambiente que faz lembrar “O Tempo entre Costuras”, de María Dueñas.

Assim sendo, Carmen, a personagem-título, deixou de ser uma funcionária da Real Fábrica de Tabacos – um ícone de Sevilha onde, atualmente, funciona a universidade – e passou a ser uma modelo. A taberna de Lillas Pastia se transformou em estúdio fotográfico – com algumas mesas de bar. A tourada do último ato tornou-se um desfile onde modelos vestidos de touro, com uma estética andrógina, passavam diante de uma plateia homogênea, vestida de cetim azul claro, que aplaudia.

Foi nesse ambiente de desfile de homens-touro, que pareciam questionar a masculinidade, sob os aplausos da plateia, que Don José e Carmen se confrontaram – na verdade, a direção de atores, um tanto fria, evitou qualquer confronto. E foi diante de um Escamillo congelado, egocêntrico, paralisado pelo próprio sucesso (e essa foi uma ótima ideia), e dessa plateia indiferente, que Carmen foi morta. Se por um lado foi um quarto ato repleto de signos e com boas ideias, por outro há que se lamentar a falta de dramaticidade da direção de atores e a grande quantidade de pessoas no palco, tirando o foco da narrativa principal – algo que, aliás, também ocorreu em outros momentos durante a ópera, a distanciando do espírito da opéra-comique.

Não podemos afirmar que a Carmen de Takla não seja mais uma cigana, afinal de contas, nada impede que uma pessoa de origem romani (ou seja, uma cigana) se torne modelo na Espanha. No entanto, ela já está assimilada à sociedade europeia e perdeu parte do status de “exótica”. Isso não é um grande problema, já que os três temas fundamentais da ópera – paixão, liberdade e destino – continuam presentes. A liberdade, aliás, ganhou grande destaque e, para o bem ou para o mal, transcendeu a condição de cigana que nasceu livre e quer morrer livre.

Digo “para o bem ou para o mal” porque, em meio à ditadura de Franco, a liberdade aspirada por Carmen era política, era a democracia, e não a liberdade sexual feminina. Isso fica claro no segundo ato, no estúdio fotográfico de Lillas Pastia, que é também um local onde as pessoas se reuniam para tramar contra a ditadura. Em um momento forte e emblemático, no concertato final, quando Carmen e coro cantam “la liberté!”, aparece, no fundo, um painel com o punho vermelho cerrado. É verdade que esse deslocamento deu uma densidade política à produção e tocou em um tema especialmente pertinente em nossos dias, mas, por outro lado, tirou o foco da luta feminina.

Os sempre belos e inteligentes cenários de Nicolás Boni, bem como a ótima iluminação de Mirella Brandi – que fazia com que entrasse uma luminosidade através de uma janela lateral que ia mudando de temperatura e intensidade – contribuíram muito com o bom-acabamento do espetáculo. Já os figurinos de Pablo Ramírez foram um tanto irregulares: deram cor ao espetáculo, por meio de uma palheta de cores que começou com o rosa e migrou, ao longo da ópera, para o vermelho e o azul claro, e tiveram belos momentos, mas os vestidos de Micaëla e de Mercedes, por exemplo, foram de um mau gosto que, mesmo que proposital, foi exagerado.

Como Micaëla, alternaram-se no elenco Camila Provenzale (dia 3) e Marly Montoni (dia 4). Duas sopranos brasileiras; dois nomes fortes por aqui; duas Micaëlas cenicamente opostas – e nenhuma totalmente convincente. Provenzale fez uma Micaëla delicada, mas ela deixa escapar um pouco de ar enquanto canta, tirando o brilho e dificultando a projeção do som. Já a voz de Montoni tem maior volume, o que seduz o público brasileiro e lhe permite fazer uma Micaëla mais ousada – ousada até em demasia. Montoni entregou um canto com afinação imprecisa e vibrato acentuado, tornando difícil a fruição e a compreensão do texto.

Micaëla foi, depois da própria Carmen, a personagem mais comprometida pelos cortes. No terceiro ato, por exemplo, chega e começa a cantar “Je dis que rien ne m'épouvante...”, como se estivesse em um recital. O diálogo que precede a ária é tão curto, para quê cortá-lo?

A linha de Escamillo, o toréador, cai até um si bemol grave em um final de frase, o que é sempre um desafio para os barítonos. Certamente em um ambiente intimista como o da Opéra Comique, ouvir essas notas da canção do toréador não é um problema. Isso posto, é, como já mencionado, um personagem convencional da opéra-comique, sua canção é quase um jingle, é o que o público sai do teatro cantarolando. A Escamillo, bastam belo timbre, legato e carisma, e o sucesso está garantido.

Fabián Veloz (dia 3) e Bongani J Kubheka (dia 4) se alternaram no papel. Veloz tem uma voz poderosa, que se impõe, mas faltaram-lhe carisma, expressividade e atenção ao texto. Já o sul-africano Kubheka, com carisma de sobra, esteve próximo do Escamillo dos sonhos, inclusive com o devido e tão desprezado staccato no “en ga-a-a-arde!” – que ele fez apenas quando a melodia se repetiu, diferenciando as duas partes da ária. Sua voz se projetou pouco no si bemol grave, mas seu timbre quente e macio é lindo, seu canto tem um belo legato.

Don José é o ícone da avassaladora paixão que leva à violência e à tragédia. Dois tenores brasileiros revezaram-se no papel: Max Jota (dia 3) e Giovanni Tristacci (dia 4). Além de tenores e brasileiros, eles também têm em comum o fato de, em 2011, terem sido vencedores da décima edição do Concurso Brasileiro de Canto Maria Callas – aliás, na produção, ao lado deles, mais três vencedores de outras edições desse importante concurso brasileiro: Raquel Paulin (Frasquita), Johnny França (Dancaire) e a já citada Camila Provenzale (Micaëla).

Jota é radicado na Itália e esta produção marcou seu oitavo Don José e sua estreia em São Paulo. Foi interessante ver como Jota foi se deixando inflamar por uma incontrolável paixão ao longo da récita (e, segundo relatos de amigos, das récitas). Nas poucas partes faladas que restaram, o tenor abusou um pouco de uma voz gutural um tanto caricata, o que foi compensado por seu bom francês e sua boa projeção. Jota foi um Don José com belo timbre, belos agudos e filati, fraseado e dinâmicas muito bem trabalhados. No final da ária da flor – toda ela cantada com uma rica dinâmica, fiel a Bizet –, em “Et j'étais une chose à toi!”, Jota não arriscou o pianíssimo escrito na partitura, mas também não apelou ao efeito fácil (e de mau gosto, e anti-Bizet) do fortíssimo. Fez um mezzoforte com um diminuendo que o levou ao pianíssimo.

Giovanni Tristacci é, atualmente, um dos principais tenores em atividade no Brasil. Ele tem tido atuações impecáveis e está construindo uma carreira consistente. Tristacci tem um timbre de grande beleza e uma voz que se projeta bem. Além disso, tem um ótimo francês. No entanto, Don José ainda não parece ser um papel natural para ele. Cenicamente, faltou um aprimoramento na construção do personagem. Seu canto foi carente de nuances e ele parecia estar tentando escurecer a voz, o que gerou um vibrato pouco natural.

Encabeçando seus respectivos elencos, Annalisa Stroppa (dia 3) e Lilia Istratii (dia 4) entregaram duas Carmens distintas e de alto nível. Quem teve, como eu, a oportunidade de ver os dois elencos, pôde descobrir, através das duas cantoras, diferentes aspectos do canto e da personalidade do protagonista. Istratii, uma jovem mezzosoprano da Moldávia, está no início de uma promissora carreira. Stroppa, por sua vez, já conta com uma carreira consolidada. Italiana, estava em sua décima produção de Carmen (a anterior foi em 2021, no Teatro Massimo di Palermo). A direção do Theatro Municipal merece aplausos por proporcionar ao público de São Paulo, tão distante dos principais teatros do mundo, a oportunidade de ver uma artista como Stroppa, que tem passado por importantes palcos mundo afora.

Stroppa deu vida a uma Carmen sofisticada, em consonância com a concepção cênica. Nitidamente, é uma cantora que explora a partitura, que respeita o compositor e que não deixa passar um detalhe. Isso não significa que ela tenha cantado de forma artificial. Ao contrário: o canto de Stroppa transmitiu toda a liberdade que Carmen representa. Na Seguidilla, por exemplo, soube brincar com as palavras, com um canto tão colorido quanto a orquestração de Bizet – e, claro, sem nos privar do delicioso e tantas vezes esquecido staccato em “j'irai danser la séguedille / et boire du Manzanilla”.

A ária das cartas, ou do tarô, é o momento em que Carmen entra em contato com o destino malévolo, explicita esse destino que se manifesta por meio das cartas impiedosas, contra as quais é inútil lutar. É um momento de resignação ou dramaticidade, ao gosto da intérprete. Com legato, as duas opções funcionam bem – já com as notas marteladas, como muitas vezes se ouve, nada funciona, é tão inútil quanto lutar contra o destino. Stroppa interpretou a ária com profunda dramaticidade, com senso de tragédia, e, felizmente, com um consistente legato e começando piano.

Ainda quanto ao canto de Stroppa, há um momento, no segundo ato, que merece especial destaque. Don José termina a ária da flor com “Carmen, je t’aime!”, em pianíssimo, e Carmen responde, também em pianíssimo “Non! tu ne m'aimes pas!”. Stroppa fez um pianíssimo tão profundo, tão limpo, tão sustentado, que inundou a sala.

Como ocorreu com Jota, seu Don José, a Carmen de Stroppa foi ganhando personalidade ao longo da récita e, sobretudo, das récitas. Não bastasse ter dominado a cena como uma ótima atriz, revelou-se, graças à coreografia de Katia Barros, uma graciosa e habilidosa dançarina.

Os encantos de Lilia Istratii, por outro lado, não devem ser buscados nos detalhes do canto, mas na força de sua Carmen. Istratii tem uma linda e homogênea voz, que se projeta muitíssimo bem, e presença de palco forte. A mezzo construiu uma Carmen muito bem dosada, sem exageros e sedutora na medida certa. Sua chanson bohème foi irresistível.

Foi bastante eficiente, tanto cênica quanto vocalmente, o elenco de apoio, com especial destaque para Raquel Paulin (Frasquita), Andreia Souza (Mercedes) e Johnny França (Dancaire), e ainda: Jean William (Remendado), Guilherme Rosa (Moralès), Sérgio Righini (Zuniga) e o ator Marcio Louzada (Lillas Pastia).

O mesmo pode se dizer sobre o Coro Lírico Municipal e sobre o Coro Infantil da Escola Municipal de Música, preparados, respectivamente, por Érica Hindrikson e Regina Kinjo. Foi encantadora a participação do Coro Infantil. Quanto ao coro adulto, começou a se destacar logo na bela cena em que as costureiras, com cigarros nas mãos, cantam “Dans l'air, nous suivons des yeux / la fumée”.

À frente da Orquestra Sinfônica Municipal, o maestro Roberto Minczuk soube manejar bem esse verdadeiro caleidoscópio de timbres que é a orquestração de Carmen. Minczuk andou sofrendo críticas em produções anteriores, quando, sobrecarregado com outros compromissos, não ensaiou devidamente a orquestra. Em Carmen, foi possível notar como faz diferença quando o maestro se dedica a construir uma sonoridade. É verdade que por vezes seus tempi foram um pouco acelerados, como no prelúdio, mas foi um andamento bastante aceitável, não foi nada demais se comparado àquilo que se fazia, há algumas décadas, quando não havia a menor preocupação com uma interpretação historicamente informada. A gravação de Giuseppe Patané, à frente da Staatskapelle de Dresden, está aí para mostrar o que é um andamento realmente exagerado do prelúdio. Por falar em andamento, foi muito bem escolhido o da Chanson Bohème, onde há um crescendo e um acelerando. Merece destaque, ainda, o entracte que precede o terceiro ato, executado com sensibilidade e delicadeza. É um belo andantino, que começa apenas com o solo da flauta e o acompanhamento da harpa, mas o clarinete e as cordas não tardam a se juntar a eles, produzindo um delicado e gradual crescendo. Uma jóia colocada por Bizet no meio dessa ópera que é, merecidamente, uma das mais populares do repertório.

Para encerrar, independente dos inegáveis méritos da direção de Takla, é questionável a produção de uma nova “Carmen” pelo Theatro Municipal de São Paulo. Em 2014, o mesmo teatro produziu a ópera, com direção Filippo Tonon, obtendo grande sucesso. Não parece razoável, dez anos depois, o teatro invista em uma nova produção sem nunca ter remontado a de Tonon. De qualquer forma, há que se comemorar o fato de essa Carmen apontar para boa direção: um nível musical consistente, com cantores nacionais e estrangeiros dividindo o palco.


La Liberté!

por Fabiana Crepaldi

A principios de mayo, el Teatro Municipal de São Paulo presentó la ópera Carmen, de Bizet, protagonizada por la mezzosoprano italiana Annalisa Stroppa.

São Paulo Mayo 3 y 4, 2024. No se sabe si Prosper Mérimée se inspiró en el poema de Pushkin Los gitanos, publicado en ruso en 1827, para escribir su Carmen de 1845.

Según A.D.P. Briggs en su ensayo Did Carmen really come from Russia (with a little help from Turgenev)?, lo que sí se sabe es que, tras la publicación de Carmen, Mérimée estudió ruso y tradujo Los gitanos a la prosa francesa, traducción que se publicó en 1852 con el título de Les bohémiens.

También se sabe que el libreto de la ópera Carmen, escrito no solo por Henri Meilhac (1830-1897) y Ludovic Halévy (1834-1908), sino también por el propio compositor Georges Bizet (1838-1875), contiene pasajes importantes (como el final mismo de la ópera) que están en el poema de Pushkin, pero no en la novela de Mérimée.

De la Carmen de Mérimée procede, por supuesto, no sólo el título de la ópera, sino también, en general, su argumento. Ahí está el origen de esa trama típica del imperialismo europeo que, en su excelente artículo, James Parakilas llamó The Soldier and the Exotic: “Una historia de amor imposible entre un soldado de un ejército europeo y una mujer perteneciente a un pueblo exótico (…)”, de la que ya he hablado en un texto anterior sobre Lakmé [Zurigo, Lakmé, 02/04/2023].

Es muy importante tener en cuenta, sin embargo, que en la Carmen de Mérimée, la historia es narrada por Don José después de la muerte de Carmen. De este modo, la personalidad de la protagonista del título nos llega mediante las palabras de Don José. De ahí la pregunta natural: ¿hasta qué punto podemos fiarnos de ese narrador?

En Pushkin, en cambio, tenemos lo exótico: la gitana Zemfira, pero no una oficial, sino el joven Aleko, que se ha retirado de la sociedad rusa a causa de un crimen que cometió y de su desilusión. Aleko acaba entre los gitanos, donde conoce a Zemfira. A diferencia de la novela de Mérimée, en el poema de Pushkin la gitana tiene voz y personalidad propias.

Como señala Briggs, los tres temas principales tratados en la ópera proceden de Pushkin: «el poder de la pasión humana y sus estrechos vínculos con la violencia y la tragedia; las repetidas afirmaciones de la heroína sobre la necesidad de libertad; y la fuerza ineluctable del destino malévolo que, una vez invocado o reconocido, siempre reclama lo suyo.»

La Carmen de Bizet se estrenó en 1875 en el Théâtre National de l’Opéra-Comique (Salle Favart) de París, donde se representaban espectáculos de un estilo bien definido (la llamada opéra-comique). Hablamos, pues, de una sala pequeña, un escenario casi íntimo, con una orquesta pequeña acostumbrada a interpretar piezas poco elaboradas musicalmente, y que tocaba de cara al escenario, no al público. Esto significa que Carmen, tal y como la concibió Bizet, no es una ópera para arenas, coros y orquestas enormes y atronadoras. En Carmen predominan los piani y pianissimi, y hay pocos forti y fortissimi.

Si Carmen y Don José proceden de la novela de Mérimée y del poema de Pushkin, y bien podrían ser personajes de una grand opéra, Micaëla y Escamillo son creaciones de los libretistas y figuras convencionales de la opéra-comique. En la opéra-comique, por regla general, hay diálogos hablados entre los números cantados, la música no es sofisticada, hay elementos cómicos, caricaturescos, y no puede haber tragedia, muerte ni violencia.

En Carmen, en resumen, solo la pareja central (y, por supuesto, el argumento) se desvían de este estilo, tanto musical como dramáticamente. Micaëla y Escamillo, en cambio, son personajes dramáticamente superficiales con una música convencional. Micaëla es la típica niña buena, como las que solían ir al teatro con sus familias; Escamillo es el típico héroe, el estereotipo de masculinidad y del hombre de éxito.

En la puesta en escena de Jorge Takla y Ronaldo Zero (director adjunto), estrenada el 3 de mayo en el Theatro Municipal de São Paulo, los diálogos de la versión opéra-comique se cortaron casi por completo, y no se sustituyeron por los recitativos compuestos por Ernest Guiraud tras la muerte de Bizet, sino que simplemente se suprimieron. Esto provocó fracturas en la trama y una pérdida de dramatismo. En otras palabras, se sacrificó el teatro. Si se hubiera prestado más atención al aspecto teatral, a la construcción y evolución dramática de los personajes, habríamos tenido un espectáculo mejor.

Takla tiene una trayectoria de excelentes producciones en São Paulo, combinando buen gusto e inteligencia. Menciono dos de ellas: Rigoletto de Giuseppe Verdi, presentada también en el Municipal en 2019, y un inolvidable Don Quichotte de Jules Massenet, presentado en 2016 en el Theatro São Pedro. En su Carmen, Takla optó por el lujo y el atractivo visual. La acción se sitúa en Sevilla, pero trasladada a un taller de alta costura en los años 50, durante la dictadura franquista. Un ambiente que recuerda a la novela El tiempo entre costuras, de María Dueñas.

Carmen, el personaje del título, ya no es una empleada de la Real Fábrica de Tabacos —un icono de Sevilla donde ahora se encuentra la universidad—, sino una modelo. La taberna de Lillas Pastia se ha convertido en un estudio fotográfico, con algunas mesas de bar. La corrida de toros del último acto se convirtió en un desfile en el que modelos vestidos de toro, con una estética andrógina, paseaban ante un público homogéneo, vestido de raso azul claro, que aplaude.

Fue en este ambiente de desfile de hombres-toro que parecían cuestionar la masculinidad, bajo los aplausos del público, cuando Don José y Carmen se enfrentan. De hecho, la dirección de escena evita cualquier enfrentamiento. Y es ante un Escamillo egocéntrico, paralizado por su propio éxito, y este público indiferente, que Carmen es asesinada. Si por un lado fue un cuarto acto lleno de signos y buenas ideas, por otro hubo que lamentar la falta de dramatismo en la dirección de actores y la gran cantidad de gente en escena, alejando el foco de la narración principal, algo que también ocurrió en otros momentos de la ópera, alejándola del espíritu de la opéra-comique.

No podemos decir que la Carmen de Takla haya dejado de ser gitana, al fin y al cabo, pues nada impide que una persona de origen romaní ejerza de modelo en España. Sin embargo, ya se ha asimilado a la sociedad europea y ha perdido parte de su condición de “exótica”. No es un gran problema, ya que los tres temas fundamentales de la ópera —pasión, libertad y destino— siguen presentes. La libertad, de hecho, se ha enfatizado y, para bien o para mal, ha trascendido la condición de gitana que nació libre y quiere morir libre.

Digo “para bien o para mal” porque, en plena dictadura franquista, la libertad a la que aspiraba Carmen era política —la democracia—, no la libertad sexual femenina. Esto queda claro en el segundo acto, en el estudio fotográfico de Lillas Pastia, que es también un lugar donde la gente se reunía para conspirar contra la dictadura. En un momento poderoso y emblemático, en el concertato final, cuando Carmen y el coro cantan “la liberté!”, aparece al fondo un panel con un puño rojo cerrado. Es cierto que este giro dio a la producción una densidad política y tocó un tema especialmente pertinente en nuestros tiempos, pero, por otra parte, eclipsó la lucha de las mujeres.

La siempre bella e inteligente escenografía de Nicolás Boni, así como la excelente iluminación de Mirella Brandi —que dejaba pasar, a través de una ventana lateral, la luz que cambiaba de temperatura e intensidad— contribuyeron en gran medida al buen acabado del espectáculo. El vestuario de Pablo Ramírez, en cambio, fue algo irregular: aportó colorido al espectáculo, con una paleta de colores que comenzaba con el rosa y migraba a lo largo de la ópera hacia el rojo y el celeste, y hubo momentos bellos, pero los vestidos de Micaëla y Mercédès, por ejemplo, fueron de mal gusto y, aunque deliberados, exagerados.

Como Micaëla, Camila Provenzale (3 de mayo) y Marly Montoni (4 de mayo) se alternaron en el reparto. Dos sopranos brasileñas; dos nombres fuertes aquí; dos Micaëlas escénicamente opuestas… y ninguna totalmente convincente. Provenzale hizo una Micaëla delicada, pero dejó escapar un poco de aire al cantar, lo que restó brillo y dificultó la proyección del sonido. La voz de Montoni, en cambio, con más volumen, sedujo al público brasileño y le permitió interpretar una Micaëla más atrevida, tal vez demasiado atrevida. Montoni cantó con una afinación imprecisa y un vibrato acentuado, lo que dificultó la lectura y comprensión del texto.

Después de la propia Carmen, Micaëla fue el personaje más perjudicado por los recortes. En el tercer acto, por ejemplo, llega y empieza a cantar ‘Je dis que rien ne m’épouvante’ como si estuviera en un recital. El diálogo que precede al aria es tan corto, ¿por qué cortarlo?

La línea de Escamillo, el toréador, baja a un Si bemol grave al final de una frase, lo que siempre es un reto para los barítonos. Ciertamente, en un ambiente intimista como la Salle Favart, escuchar estas notas del canto del toréador no es un problema. Dicho esto, es un personaje convencional de opéra-comique, su canción es casi un jingle, es lo que el público sale del teatro tarareando. A Escamillo le basta un timbre hermoso, con legato y carisma, y el éxito está garantizado.

Fabián Veloz (día 3) y Bongani J Kubheka (día 4) se alternaron en el papel. Veloz tiene una voz potente, pero le faltó carisma, expresividad y atención al texto. El sudafricano Kubheka, en cambio, con carisma de sobra, estuvo cerca del Escamillo soñado, incluso con el debido y tan despreciado staccato en “en ga-a-a-arde!”, que solo hizo cuando se repetía la melodía, diferenciando las dos partes del aria. Su voz proyectó poco el Si bemol, pero su timbre cálido y suave es hermoso y su canto tiene un legato encantador.

Don José es el icono de la pasión desbordada que desemboca en la violencia y en la tragedia. Dos tenores brasileños se turnaron en el papel: Max Jota (el día 3) y Giovanni Tristacci (el día 4). Además de ser tenores y brasileños, también tienen en común el hecho de que, en 2011, fueron ganadores de la décima edición del Concurso Brasileño de Canto Maria Callas. En esta producción, junto a ellos, había otros tres ganadores de otras ediciones de este importante concurso brasileño: Raquel Paulin (Frasquita), Johnny França (Dancaïre) y la ya mencionada Camila Provenzale (Micaëla).

Jota reside en Italia y esta producción supuso su octavo Don José y su debut en São Paulo. Fue interesante ver cómo Jota se dejó inflamar por una pasión incontrolable a lo largo de la función. En las pocas partes habladas que le quedaban, el tenor abusó de una voz gutural un tanto caricaturesca, que compensaba con su buen francés y su buena proyección. Jota fue un Don José de bello timbre, hermosos agudos y filati, fraseo y dinámica muy bien trabajados. Al final del aria de la flor —toda ella cantada con ricas dinámicas, fiel a Bizet— en ‘Et j’étais une chose à toi!’, Jota no arriesgó el pianissimo escrito en la partitura, pero tampoco recurrió al efecto fácil (y desagradable, y anti-Bizet) del fortissimo. Cantó un mezzoforte con un diminuendo que condujo al pianissimo.

Giovanni Tristacci es actualmente uno de los principales tenores brasileños. Ha realizado actuaciones impecables y está desarrollando una carrera consistente. Tristacci tiene un timbre hermoso y una voz que se proyecta bien. También tiene un excelente francés. Sin embargo, Don José aún no parece ser un papel natural para él. Escénicamente, faltó la actitud del personaje. Su canto carecía de matices y parecía intentar oscurecer su voz, lo que le llevaba a un vibrato poco natural.

Encabezando sus respectivos repartos, Annalisa Stroppa (día 3) y Lilia Istratii (día 4) ofrecieron dos Cármenes distintas y ambas muy buenas. Quienes, como yo, tuvieron la oportunidad de ver los dos repartos, pudieron descubrir, por medio de las dos cantantes, diferentes aspectos del canto y la personalidad de la protagonista. Istratii, una joven mezzosoprano de Moldavia, se encuentra al principio de una carrera prometedora. Stroppa, en cambio, ya tiene una carrera consolidada. Italiana, participa en su décima producción de Carmen (la anterior fue en el Teatro Massimo di Palermo). Hay que aplaudir a la dirección del Theatro Municipal por dar al público de São Paulo, tan alejado de los principales teatros del mundo, la oportunidad de ver a una artista como Stroppa.

Stroppa dio vida a una Carmen sofisticada, acorde con el concepto escénico. Es claramente una cantante que explora la partitura, que respeta al compositor y que no pierde detalle. Esto no significa que su canto fuera artificial. Al contrario: el canto de Stroppa transmitió toda la libertad que Carmen representa. En la seguidilla, por ejemplo, supo jugar con las palabras, con un canto tan colorista como la orquestación de Bizet y, por supuesto, sin privarnos del delicioso y a menudo olvidado staccato de “j’irai danser la séguedille / et boire du Manzanilla”.

El aria de las cartas, o del tarot, es el momento en que Carmen entra en contacto con su destino malévolo, y hace explícito este destino mediante las cartas despiadadas, contra las que es inútil luchar. Es un momento de resignación o de dramatismo, según el gusto del intérprete. Con legato, ambas opciones funcionan bien, pero con notas martilleadas, como se oye a menudo, nada funciona, es tan inútil como luchar contra el destino. Stroppa interpretó el aria con profundo dramatismo, con sentido de la tragedia y, afortunadamente, con un legato consistente y piano inicial.

Siguiendo con el canto de Stroppa, hay un momento en el segundo acto que merece una mención especial. Don José termina el aria de la flor con “Carmen, je t’aime!”, en pianissimo, y Carmen responde, también en pianissimo, “Non! tu ne m’aimes pas!”. Stroppa cantó un pianissimo tan profundo, tan limpio, tan sostenido, que inundó la sala.

Al igual que Jota con su Don José, la Carmen de Stroppa fue ganando personalidad a lo largo de la función. No solo dominó el escenario como gran actriz, sino que, gracias a la coreografía de Katia Barros, demostró ser una bailarina grácil y hábil.

Los encantos de Lilia Istratii, en cambio, no se encuentran en los detalles de su canto, sino en la fuerza de su Carmen. Istratii tiene una voz hermosa y uniforme, que se proyecta muy bien, y una fuerte presencia escénica. La mezzo construyó una Carmen muy bien dosificada, sin exageraciones y seductora en su justa medida. Su chanson bohème fue irresistible.

El resto del reparto fue muy eficiente, tanto escénica como vocalmente, con mención especial para Raquel Paulin (Frasquita), Andreia Souza (Mercédès) y Johnny França (Dancaïre), así como Jean William (Remendado), Guilherme Rosa (Moralès), Sérgio Righini (Zuniga) y el actor Marcio Louzada (Lillas Pastia).

Lo mismo puede decirse del Coro Lírico Municipal y del Coro Infantil de la Escuela Municipal de Música, preparados respectivamente por Érica Hindrikson y Regina Kinjo. La participación del Coro Infantil fue encantadora. En cuanto al Coro de Adultos, empezaron a destacar en la hermosa escena en la que las costureras, con cigarrillos en la mano, cantan “Dans l’air, nous suivons des yeux / la fumée”.

Al frente de la Orquesta Sinfónica Municipal, el director Roberto Minczuk ha sabido manejar el caleidoscopio de timbres que es la orquestación de Carmen. Minczuk ha sido criticado en producciones anteriores cuando, sobrecargado de otros compromisos, no ensayaba adecuadamente la orquesta. En Carmen, se pudo comprobar cuánta diferencia hay cuando el director de orquesta se dedica a construir un sonido. Es cierto que a veces sus tempi eran un poco rápidos, como en el preludio, pero eran tempi muy aceptables, nada exagerados comparado con lo que se hacía hace unas décadas, cuando no había la menor preocupación por una interpretación históricamente informada.

La grabación de Giuseppe Patané, a cargo de la Staatskapelle de Dresde, está ahí para mostrar el tempo realmente exagerado del preludio. Hablando de tempo, la Chanson bohème estuvo muy bien elegida, con su crescendo y su accelerando. También hay que destacar el entr’acte que precede al tercer acto, interpretado con sensibilidad y delicadeza. Es un bello andantino, que comienza con un solo de flauta y acompañamiento de arpa, pero al que pronto se unen el clarinete y las cuerdas, produciendo un delicado y gradual crescendo. Una joya colocada por Bizet en medio de esta ópera que es merecidamente una de las más populares del repertorio.

Por último, independientemente de los innegables méritos y del éxito de esta nueva puesta en escena de Carmen, ella es cuestionable. En 2014, el mismo teatro produjo la ópera, con dirección escénica de Filippo Tonon, logrando un gran éxito. No parece tener sentido que, diez años después, el teatro invierta en una nueva producción sin nunca haber vuelto a poner en escena la de Tonon. Sin embargo, esta Carmen apunta a una buena dirección: un nivel musical consistente, con cantantes brasileños y extranjeros.


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