L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

La Manon che non ti aspetti

di Alberto Ponti

La ripresa dopo molti anni della Manon Lescaut di Daniel Auber si rivela una gradita sorpresa, grazie a una direzione brillante e a un cast che non delude

TORINO, 22 ottobre 2024 - Nel 1856 Daniel Auber aveva 74 anni e una quarantina di opere alle spalle. I suoi primi grandi successi risalivano agli anni ’20 del secolo, quando il gusto parigino era assai diverso. Eppure, nella Manon Lescaut il compositore dimostra di essere rimasto al passo con i tempi dando origine a una musica dove le inevitabili influenze del melodramma si sposano con una verve tutta francese non estranea alle più recenti conquiste della tecnica orchestrale. Est modus in rebus: rimaniamo ovviamente molto lontani da un Tannhäuser, che da lì a cinque anni avrebbe dato scandalo all’Opéra. Ma l’inossidabile Auber sa passare oltre e la sua ultima fatica, Rêve d’amour, andrà in scena nel 1869, dando prova nella vecchiaia di una vitalità prodigiosa che sarebbe stata eguagliata, qualche decennio dopo, solo da Giuseppe Verdi.

Tornando alla Manon stupisce soprattutto la freschezza e spontaneità di un’invenzione che attraverso tutti gli stati dell’espressione, dal lirico al comico, dal drammatico al patetico riserva ad ogni numero qualche sorpresa gradevole. È quindi un’iniziativa di elevato spessore culturale quella del Teatro Regio di Torino che, per l’inaugurazione della stagione, accanto agli universalmente noti lavori di Giacomo Puccini e Jules Massenet ispirati al medesimo soggetto, ha deciso di mettere sul tappeto il titolo di Auber che, in una triade ideale ben atta a rendere l’idea delle metamorfosi in atto nell’Ottocento operistico, rappresenta il punto di partenza, con la sua struttura tradizionale e i recitativi parlati.

Differenze e tante, si possono notare, ma anche analogie, rese ancora più evidenti dall’impegnativo allestimento registico di Arnaud Bernard teso a edificare un arco coerente capace di traghettare il pubblico dall’una all’altra delle tre Manon. Se l’elemento comune è stato individuato, con raffinato ingegno, nel cinema d’oltralpe, per il presente spettacolo, concepito come sorta di grado zero della trasposizione lirica del romanzo dell’Abbé Prevost (verrebbe quasi da dire Ur-Manon) non si poteva non fare riferimento all’epopea del muto, agli albori della settima arte. Sulla scena compare allora una grande quinta costituita da uno stabilimento di produzione, con una troupe di mimi impegnata nel filmare la vicenda rappresentata che è ovviamente la storia dell’inquieta ragazza e del suo fido Cavaliere Des Grieux. Ridotto di molto, rispetto al ruolo ricoperto nelle altre due parti della trilogia, è anche l’intervento degli spezzoni cinematografici proiettati sullo sfondo, utili giusto a far comprendere, in una sorta di gioco di specchi appena accennato ma in sé compiuto, il parallelo tra azione e racconto. I costumi di Carla Ricotti, le scene di Alessandro Camera, le luci di Fiammetta Baldisseri, dopo avere indugiato nelle suggestioni dettate dal réalisme poétique in Puccini e dall’emancipazione femminile degli anni della contestazione in Massenet, si fanno di colpo più castigati, meno sontuosi in colori e apparati ma allo stesso tempo acquistano una sobria essenzialità, tutt’altro che dimessa, che si traduce in una prevalenza del bianco e del nero in disparate sfumature, ammiccando dal palco al risultato finale di una macchina da presa dell’epoca.

Problematica da un punto di vista psicologico è la protagonista, che passa da una certa frivolezza dei primi due atti, a un indubbio spessore drammatico del terzo, cui Auber demanda però non solo versatilità ma anche doti vocali d’eccezione per affrontare una parte che, volendo escludere la micidiale ‘Bourbonnaise’ (‘C’est l’histoire amoureuse’), appare largamente modellata sull’archetipo belcantistico. Perché se è vero che dalla fonte letteraria discende la catarsi terminale, con Manon destinata a morire sul suolo della Louisiana appena confortata da Des Grieux, è altrettanto indiscutibile che il musicista dipinga in precedenza una donna spigliata e priva di sensi di colpa, pronta a prendersi gioco degli ammiratori pur di attirare a sé denari presto spesi. Marie-Eve Munger è una voce volenterosa, non si tira indietro di fronte alle difficoltà tecniche e con professionale savoir faire disbriga la matassa di alcuni acuti temerari. Il timbro del soprano canadese non è forse così chiaro e squillante come parrebbe richiedere una figura che, ponendosi al crocevia di molteplici stili e influenze, dovrebbe possedere tra le caratteristiche pure una disinvoltura alla Offenbach, ma risulta centrato, vibrante di risonanze ambrate, nel duetto e aria dell’epilogo (‘Comme un doux rêve’). L’attenzione nel fraseggio, la cura di pause e respiri, il piglio attoriale non straripante ma sicuro sono sintomo di una personalità sensibile, in grado di delineare a tutto tondo la donna complessa e contradditoria del libretto di Eugène Scribe. Il risultato a conti fatti volge a favore di un’interpretazione intensa e generosa, trattandosi di reggere da capo a fondo l’arco emozionale di due ore e mezza di spettacolo, con non meno di sei arie impegnative, e non presentare un paio di pezzi staccati all’interno di un recital.

Gioca bene le carte che Auber gli distribuisce con dovizia il baritono Edward Nelson nel ruolo del marchese d’Hérigny, vero alter ego maschile di Manon, grazie a un canto possente e rotondo, dall’emissione fluida e calibrata, preciso nel valorizzare le sottigliezze dinamiche di una linea melodica quanto mai sagomata e tornita fin dalla cavatina ‘Et vermeille et fraîche’ aiutato, last but not least, da un’accurata pronuncia della lingua francese, particolare non secondario in un’opéra-comique dai dialoghi senza accompagnamento.

Se librettista e compositore riservano un trattamento di favore al marchese, non altrettanto si può dire di Des Grieux, per l’occasione impersonato da Marco Ciaponi, che ha occasione di venire davvero in luce solo nell’atto finale. Il tenore toscano si disimpegna con abilità regalando alla platea nel grande duetto con la donna amata momenti di convincente e aperto lirismo. Di buon livello i numerosi comprimari, dal Lescaut del baritono Francesco Salvadori a Madame Bancelin del mezzosoprano Manuela Custer, passando per Guillaume Andrieux (Renaud, baritono), Lamia Beuque (Marguerite, soprano), Anicio Zorzi Giustiniani (Gervais, tenore), Paolo Battaglia (Monsieur Durozeau, basso), Tyler Zimmermann (un sergente, basso), Juan José Medina (un borghese, tenore), Albina Tonkikh (Zaby, soprano).

Frizzante, scrupolosa, rigorosa nel bilanciamento di timbri e tempi, la direzione di Guillaume Tourniaire, alle prese per la prima volta con la partitura, si avvale di un’orchestra apparsa in gran forma, con la sezione degli ottoni vicina a un autentico virtuosismo, e un coro, guidato con la consueta maestria da Ulisse Trabacchin, di assoluta rilevanza nei molti interventi cui è chiamato in causa.

Nella mancanza quasi assoluta di termini di paragone, se non su pochi pezzi isolati, la presente ripresa integrale di questa Manon Lescaut potrà diventare, ci auguriamo, lo stimolo per ulteriori rappresentazioni, con differenti interpreti e visioni, del titolo specifico e di altri lavori teatrali di Auber che, un po’ come il coevo Meyerbeer, sebbene non possieda la dirompenza di un rivoluzionario, non merita nemmeno l’oblio in cui è precipitato dal secondo dopoguerra.

Successo autentico e pubblico assai sparuto ma, nonostante il valore indiscutibile dell’intera operazione ‘Manon’, in una città come Torino, anche ipotizzando un potere attrattivo sul resto della regione, diventa difficile riempire un teatro da 1.500 posti per 21 serate (tante sono le rappresentazioni complessive delle tre opere) nel giro di un mese. Sono ritmi che forse riuscirebbero a tenere il Metropolitan di New York e poche altre istituzioni in giro per il mondo.

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