L'eredità della Signorina
Amata da James Dean e Antonio Pappano, da Marilyn Horne e Charles Laughton, il fascino di Renata Tebaldi ha segnato la storia del canto del XX secolo.
“Ascolta come sa modulare, e che espressione! Gusto squisito, anche…” Così comincia un completo ed interessante elogio di “Un bel dì vedremo” cantato da Renata Tebaldi formulato – pensate un po’ – da James Dean. Sì, l’attore morto a ventiquattro anni, che tra le proprie passioni annoverava il flauto, il pianoforte, il tamburo bongo, i dischi di Šaljapin e della Muzio. L’ultima intervista rilasciata da Jimmy nella sua vita risale all’estate 1955: sarebbe da tradurre interamente e rivelerebbe diverse sorprese.
Renata Tebaldi avrebbe compiuto cento anni il primo febbraio. Se ne è andata nel dicembre 2004. Nasce da padre pesarese e madre parmense, e poiché a Pesaro si parla romagnolo e non marchigiano, possiamo annoverarla tra le glorie dell’Emilia Romagna. Al conservatorio di Parma studia con Ettore Campogalliani, a quello di Pesaro con Carmen Melis mentre Riccardo Zandonai la tiene d’occhio, o più precisamente d’orecchio. Il debutto è sotto i bombardamenti, a Rovigo come Elena del Mefistofele nel maggio del ’44 e prosegue subito con La bohème, L'amico Fitz, Andrea Chénier, Otello, Lohengrin, Margherita del Mefistofele, Otello, Tosca. È falsa quindi la teoria che la Tebaldi abbia iniziato nell’ambito di un repertorio lirico e delicato per poi “deviare” su ruoli spinti intorno al ‘53. Tra il ’47 e il ’51 si alternano Margherita nel Faust ed Eva nei Maestri Cantori, Violetta ed Elisabetta del Tannhauser, Salammbô in prima mondiale nell’opera di Franco Casavola, Donna Elvira, Alice nel Falstaff, Pamira nell’Assedio di Corinto, Aida su consiglio di Toscanini, Stabat Mater di Rossini, Olimpia e Fernando Cortez di Spontini, i due Requiem di Mozart e di Verdi, Cleopatra nel Giulio Cesare di Haendel, Giovanna D’Arco di Verdi.
Altrettanto interessante è ricordare quali direttori siano stati suoi mèntori e preparatori in quello straordinario quinquennio: Gavazzeni, Toscanini, Failoni, Serafin, Böhm, Guarnieri. Verranno poi, fra gli altri, De Sabata, Giulini, Mitropoulos, Bernstein.
Si è detto che Siciliani le abbia proposto i ruoli del soprano di coloratura Julie Dorus Gras (Il conte Ory, per esempio?), ma non ne sono sicura. Altrettanto spesso si afferma che Tullio Serafin abbia insistito perché affrontasse il ruolo di Norma (la registrazione della scena di entrata degli anni ’60, rimasta a lungo inedita, è ben più che dignitosa e andrebbe riascoltata). Se tra i suoi modelli è stato fatto il nome di Giannina Arangi Lombardi è perché il paragone è molto interessante.
La casa discograficva più importante, la Decca, si assicura quasi subito la voce di Renata e la “fotografa” con buoni risultati – anche se chi la ascolta dal vivo trova che l’espansione teatrale non venga colta del tutto. “Quasi subito” significa che la prima Tebaldi canta anche per la Cetra, con tecnica salda, SI e DO fermi e ricchi che facilmente smorza – il SI bem anche in pianissimo. C’è una sensazionale interpretazione di “Deh, vieni, non tardar” dalle Nozze di Figaro del maggio ’50. Il corpus Decca si presenta però impressionante nell’immediato, La bohème e Madama Butterfly sono del ’51 e Tosca e Aida del ’52.
Un’attività - soprattutto nell’Italia settentrionale - così intensa e prestigiosa finisce inevitabilmente per portare Renata a confronto con una feroce macchina da guerra chiamata Maria Meneghini Callas. Si dice che l’epocale rivalità Tebaldi-Callas esploda nell’autunno 1951 in Sudamerica con recite di Tosca, Aida e La traviata; ma, in realtà, la Callas e il consorte sbeffeggiavano Renata già dall’epoca del parziale fiasco scaligero della Traviata nel febbraio ’51. Lo strepitoso canto di agilità callasiano convince una buona percentuale del pubblico che l’importanza del ruolo risieda soprattutto nella perfetta (e “in tono”) esecuzione di “Sempre libera”. Se questo fosse esatto, l’unica, l’inarrivabile Violetta della storia sarebbe Joan Sutherland, e a nessun’altra sarebbe mai concesso di aprire bocca.
Nel 1950 la Tebaldi canta Aida e Otello all’Opera di San Francisco. Tra gli ammiratori c’è la sedicenne Marilyn Horne, che ricorderà “Volevo arrivare a produrre un suono che fosse una combinazione di Rentata Tebaldi ed Ebe Stignani… Le conoscevo per le loro apparizioni all’Opera Company di San Francisco e le ammiravo fino al punto di imitarle. Quando ho visto che le mie lezioni con William Vennard non mi trasformavano in un clone Tebaldi-Stignani, l’ho abbandonato”. Marilyn tornerà pentita sui suoi passi. Però si ascolti la sua Nedda del 1962 a San Francisco, accanto a Del Monaco e Bastianini, e la “clonazione” risulterà impressionante.
I peana di Celletti su Renata Tebaldi sono noti a tutti gli appassionati di canto, e anche agli appassionati di altre cantanti. Ce ne sono stati molti altri. Leonardo Pinzauti nel ’49 per L'assedio di Corinto: “Voce tutta vibrazioni interne, prende espressività dal timbro stesso […] e a questo si deve aggiungere la sua suggestiva prestanza scenica”. Eugenio Gara ha lasciato scritto nell’Enciclopedia Le grandi voci “voce leggendaria […] fraseggio impostato sulla flessibilità, ricco di suggestive legature e smorzature delicatissime, suoni trasparenti 'soffiati', da far pensare ai miracoli di Murano”. Voglio citare Claudia Cassidy, esperta critica teatrale di Chicago che fu una colonna portante del mito Callas: a commento di un recital tebaldiano, “La voce era simile a quello che indossava: seta ricamata in argento con diamanti alla gola […] Ha certo richiamato alle memorie più tenaci i tempi di Claudia Muzio”; dopo una Tosca nel ’56: “radiosamente bella, con voce opulenta e vellutata, ha dosato voce ed arte, realizzando una delle più magnifiche performances di questo teatro; non vedevo da anni una Tosca così ardente e pure, nel II atto, così sapientemente controllata”; a proposito di una Forza del destino: “bella e vulnerabile, il suo 'Madre, pietosa Vergine' ha diffuso il canto più sontuoso che si possa immaginare”. Charles Laughton, attore e uomo colto, ha raccontato: “Le ho fatto un complimento e lei è diventata tutta rossa! La sua voce è la voce di un angelo, e lo ha detto qualcuno più esperto di me!”
Nel maggio ’56 il Comunale di Firenze presentò una Traviata Serafin/Tebaldi nella quale tutti videro, e molti deplorarono, una mossa anti-Scala e anti-Callas. Ne scrisse a lungo Giuseppe Pugliese, grande ammiratore della greco-americana ma poco convinto del valore della sua Violetta viscontiana. Della Violetta-Tebaldi, disse “…la più bella, splendida, italiana voce di soprano del nostro tempo; il canto, il più fedele al nostro spirito, alla nostra tradizione… l’interpretazione è sana, non ha sottintesi, non certa ambiguità, appare libera da sofismi. Qui prevalgono la voce, la bellezza del canto. È senza dubbio più giusto, più vero, più verdiano”. Questa Traviata è rimasta in nastro e vale la pena di ascoltarla.
La contrapposizione Tebaldi-Callas avrebbe potuto restare in ambito musical-teatrale. È degenerata purtroppo in atteggiamenti personalistico-isterici, e non solo da parte di loggionisti ventenni, ma anche nei progetti e nelle azioni di dirigenti teatrali importanti. Attiva alla Scala in ogni stagione dall’11 maggio 1946, con il mitico concerto di riapertura diretto da Toscanini, al maggio 1955 con Forza del destino insieme a Di Stefano, non riapparve nelle stagioni seguenti. Il 31 gennaio ’55 la Tebaldi aveva debuttato al Metropolitan di New York, con accoglienze entusiastiche di pubblico e molto lusinghiere di critica che, facendo frequenti paragoni con la Ponselle e la Muzio, ci ha lasciato pagine e pagine da manuale sulla sua tecnica, sul controllo dei fiati, sulla resa del cantabile, sulla sua organizzazione vocale. Sarebbe ora che qualcuno le assemblasse e le offrisse ai molto disorientati studenti di canto del giorno d’oggi.
Ho sentito anche di recente sogghigni dal partito avverso, tipo “Be’, Renata non è certo andata a fare la fame…” Ma questo è ignorare la grande questione della patria spirituale di ogni artista, delle conseguenze spesso gravi di un completo sovvertimento di ambiente e di cultura, e, perché no, della perdita da parte dell’Europa di una guida vocale e sicura. Per fare un esmpio, siamo tutti d’accordo, ormai, che il quasi “trasferimento” di Franco Corelli dalla Scala al Metropolitan, nel 1961, abbia avuto conseguenze nel complesso negative per la sua carriera – e per i teatri europei. E già che ci sono, resto nel parallelo con Corelli, che è stato costantemente accusato di colpe contro l’intonazione vocale; naturalmente da parte di chi era infastidito dal suo timbro e dalla sua possanza. Di note calanti e simili accuse si legge ogni tanto negli sciocchezzai tebaldiani. Ma basta ascoltare con orecchio attento per capire che la Tebaldi, nata pianista, è musicalmente quasi ovunque impeccabile.
E al di là dei dischi più diffusi, mi permetto di consigliare a chi non la conosce qualche pagina tebaldiana indispensabile se si ama il canto. A cominciare dai suoi due Wagner, Elsa ed Elisabetta, cantati naturalmente in italiano, e colti con suono “da collezionista” – come si diceva un tempo – nel ’47 e nel ’54. Per proseguire, obbligatoriamente, con due esemplari esecuzioni del Requiem di Verdi: con Toscanini nel ’50 e con De Sabata l’anno seguente. Nel luglio del ’50 Renata Tebaldi fu Cleopatra di Haendel all’Arena di Pompei. Alla fine di “Da tempeste il legno infranto” si sente un eccellente DO; gruppetti, trilli e picchettati sono bene eseguiti. Si riprenda quindi in mano la registrazione della Giovanna D’Arco di Verdi, che cantò alla RAI nel maggio ’51, e si ascolterà un’interpretazione che non è inferiore a quella che ha lasciato la Caballè un quarto di secolo dopo, particolarmente in “Sempre all’alba ed alla sera”. Assolutamente raggiante è poi l’esecuzione di “Selva opaca” del Guglielmo Tell, in un “Martini e Rossi” del novembre ’53. Me ne parlarono con entusiasmo, definendola “storica”, sia la Horne sia Bonynge. Sfidate il suono scricchiolante e ascoltate la selezione delle Nozze di Figaro con Renata come Contessa e Italo Tajo, Alda Noni e Giulietta Simionato al San Carlo nel febbraio ’54. Tenendo presente che la Tebaldi aveva registrato l’aria di Susanna dell’ultimo atto quattro anni prima, in modo magistrale. Una Tosca alternativa a quella della Callas è stata registrata dal vivo al Metropolitan nel gennaio ’56. Dirigeva Dimitri Mitropoulos. Me ne sottolineò i momenti tebaldiani più esaltanti Rodolfo Celletti in persona. Per finire due pagine di altissimo livello: l’aria di Tatiana da Eugenio Oneghin cantata a Chicago in un recital diviso con Bastianini alla fine del ’56 e un ritorno a un debutto del 1945, la Suzel della romanza “Son pochi fior” del marzo ’57. Questo è cantare.
Di Renata, un intellettuale come Giovanni Testori non temeva di dichiararsi innamorato : “C’è nella voce della Tebaldi qualcosa che chiama da molto, molto lontano, come se venisse da tutte le gioie, da tutti gli strazi del mondo, qualcosa che ha la tenerezza infinita e l’infinita carità materna che è del mondo la vera salvezza. Cosa c’è di così impalpabile e pur presente, così sottile e pur profondo, di così quotidiano e pur sublime nella voce della Tebaldi? C’è il cuore e per cuore intendo un luogo dove ogni sentimento della vita di un uomo inizia, geme, si nutre, soffre. Ora questo cuore, in pratica, nella pratica intendo dei suoni, cos’è mai? Ho detto un dono, ho detto una grazia. La Tebaldi è stata, ed è, una delle emozioni più grandi”. Di recente il direttore Antonio Pappano ha ricordato al pubblico del Covent Garden: “Il suo era un fraseggio personale, naturale, con una qualità disarmante”.
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