L’Ape musicale

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Il canto passeggiato

Maffei riporta lo spartito del madrigale Lasciar il velo, composto da Francesco Aiolli (organista e compositore fiorentino, nato nel XV secolo) su testo di Francesco Petrarca, ma inserendo alcuni passaggi: egli varia i valori delle note, aggiungendo dei virtuosismi che vivacizzano le linee melodiche del brano, scritto per quattro voci, cioè soprano, tenore, contralto e basso. Lo scopo di tale madrigale è illustrare l’uso dei passaggi:

«E io anchora so che questo madrigale è vecchio, ma l’ho voluto mettere solo per esempio, accioché il buon cantante osservi in qual si voglia cosa che se gli para innanzi da cantare quei ordini e regole ch’in questo osservate si veggono, le quali, accioché più chiaramente s’intendano, ecco che da me si scrivono.»

L’illustre filosofo solofrano arricchisce le dieci regole concernenti la tecnica canora illustrando quando e come inserire i passaggi, dimostrando che è suo convincimento che il cantante debba essere erudito anche in fatto di teoria musicale; storicamente parlando, i passaggi nascono come improvvisazioni, che tuttavia non sono lasciate al caso:

«La prima, dunque, regola è che non si facciano passaggi in altri luoghi che nelle cadenze, perché, concludendosi l’armonia nel cadimento, con molta piacevolezza vi si puo scherzare, senza disturbo degli altri compagni; ma non per questo si proibisce che prima che s’arrivi alla cadenza non si possa passare da una ad un’altra nota con qualche vaghezza o fioretto, si come di passo in passo nel sopra stampato madrigale osservato si vede (in quei luoghi, però, dove si può comportare e dove pare che stia bene). La seconda regola è che nel madrigale non si facciano più di quattro o cinque passaggi, accioché l’orecchia, gustando di rado la dolcezza, si renda sempre più d’ascoltar desiderosa. Il che non avvenirebbe se continuamente passaggiando si cantasse, percioché i passaggi di piacevoli diventarebbono noiosi quando l’orecchia appieno satia ne divenisse; e questo ogni giorno tenemo inanzi agli occhi, poiché molti se veggono di coloro i quali, senza osservare semitoni e bemolli e senza anche esprimere come stanno le parole, non attendono ad altro ch’a passaggiare, persuadendosi ch’inquesto modo l’orecchia s’addolcisca. Onde, perché divengono fastidiosi, sono da tutto ’l mondo biasimati. La terza regola è che si debba far il passaggio nella penultima sillaba della parola, accioché, col finimento della parola, si finisca anche il passaggio. La quarta è che più volontieri si faccia il passaggio nella parola e sillaba dove si porta la lettera “O” in bocca col passaggio che nell’altre; e accioché questa regola sia meglio intesa, ora la dichiaro: le vocali (com’ognun sa) sono cinque, delle quali alcuna, come é lo “U”, porta uno spaventevole tuono all’orecchia, oltre che, passaggiando con esso, pare appunto rappresentare un lupo ch’ulula; onde non posso se non meravigliarmi di coloro quali nella prima sillaba del madrigale, ch’incomincia “ultimi miei sospiri”, fanno il passaggio, non posso (dico) se non meravigliarmene; si perché non si deve in modo alcuno passaggiando entrare e si ancora perché con questa vocale s’aumenta lo spavento e ombra del tuono. E alcuna, si come è lo “I”, portandosi col passaggio, rappresenta un animaletto che si vada lagnando per aver smarrita la sua madre; pure si può concedere ch’al soprano istia manco brutto il passaggiare per lo “I” ch’all'altre voci. L’altre vocali che rimangono si ponno senza sempolo portare; pure fando fra loro comparatione, dico che l’“O” è la migliore, percioché con essa si rende la voce piu tonda e con l’altre, oltre che non così bene s’unisce il fiato, perché si formino i passaggi, sembianti al ridere, pure non istringendo tanto questa regola, mi rimetto al buon giudizio del cantante. La quinta regola é che quando si ritrovano quattro o cinque di conserto, mentre cantano, l’uno debbia dar luogo all’altro, perché, se due o tre tutti in un tempo passaggiassero, confonderebbono l’armonia. E di quanto in queste regole si comprende, si vede manifesto esempio sopra scritto madrigale.»

Maffei aveva già manifestato la sua preferenza per la vocale “O”; ribadisce che è estremamente funzionale poiché, grazie ad essa, la voce si arrotonda, ma indugia anche su altre vocali, associando ad ognuna una particolare immagine (a suo avviso, la “U” ricorda l’ululato di un lupo, la “I”, invece, il lamento di un cucciolo spaventato che si è allontanato dalla madre). Secondo Aristotele, è l’immaginazione che rende voce un suono: è grazie ad essa che l’interiorità si rimodella per proiettarsi all’esterno sottoforma di voce. Innanzi tutto abbiamo una rappresentazione interna, sulla quale si plasma l’emissione, che ne veicola altre al di fuori del soggetto. Ergo, la voce nasce dall’immagine, ma è anche generatrice di immagini. Gli effetti acustici sono rielaborati nelle menti degli ascoltatori e in esse riecheggiano in qualità di simboli sonori di immagini esterne all’individuo. Maffei si rende conto che è impossibile separare Eco da Narciso, il cantante non può evitare di trasmettere immagini: oltre all’atteggiamento corporeo, anche quello vocale è rilevante, e proporre determinate sonorità in particolari punti di un brano può addirittura turbare, oltre a renderlo antiestetico. Notiamo che l’elemento estetico, in Maffei, è sempre fortemente connesso all’ambito metafisico e morale: l’arte agita le anime e l’artista deve essere conscio di ciò, senza abusarne. In conclusione, il cantore maffeiano deve essere responsabile e sensibile, moderato e garbato, come un cortigiano.

«Io penso finqui avere adempito quanto V. S. m’ha comandato; ora, perché non tutti i musici dopo d’avere a questi miei ordini ubbidito sapranno da per loro formare i passaggi, voglio qui sotto, per loro sodisfatione e mia, metterne alcuni, i quali nel cantare con qualche grazia riescano dove terrò quest’ordine: prima ponerò le cadenze e dopo i passaggi (io dico i più belli), perché se volesse mettere tutti quelli con i quali si può la cadenza variare, empirei il foglio più tosto di passaggi da sonar che da cantare, aggiongendovi Vago augelletto passaggiato nell’aria sua.»

Prima di riportare lo spartito di Vago augelletto, Maffei propone una serie di cadenze e passaggi come esempi per coloro che, nonostante le indicazioni fornite dall’autore, non riescano a ideare autonomamente dei virtuosismi. Vago augelletto è un antico madrigale (Maffei non specifica da chi sia stata musicata la versione da lui proposta), basato sul testo di un sonetto tratto dal Canzoniere di Petrarca, indicato da Maffei come ulteriore modello per l’invenzione e l’esecuzione di cadenze e passaggi: questi ultimi vanno eseguiti esclusivamente sulle cadenze e, in un madrigale, non ve ne devono essere più di quattro o cinque, in modo tale da non intaccare la linea melodica e l’armonia. In seguito, l’autore scrive poche righe per promuovere il proprio metodo didattico: la natura fornisce all’aspirante cantore lo strumento, cioè l’apparato fonatorio, ed egli, attraverso l’arte, lo educa al canto; per avvalorare le proprie tesi, Maffei afferma che sono condivise anche da Giovanni Domenico da Nola (poeta e compositore rinascimentale), Stefano Lando (compositore e liutista), Rocco Rodio (compositore e teorico musicale della scuola napoletana) e Tommaso Cimello (che, insieme allo stesso Giovanni Domenico da Nola, fu uno dei primi musicisti a scrivere villanelle napoletane). Secondo l’illustre solofrano il vero canto, cioè quello cavalleresco, è quello “di gorga”, che può essere perseguito rifuggendo la pigrizia e seguendo fedelmente il decalogo da lui formalizzato. Tuttavia, ciò non è sufficiente: riusciamo a cantare agevolmente solo se siamo sani, ecco perché è il medico che alberga nel Maffei a conclude la Lettera sul canto con una serie di suggerimenti per preservare e guarire la nostra voce.


 

 

 
 
 

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