Il match conclusivo dell’interminabile battaglia dei sessi si gioca in una luminosissima Napoli. La dialogica visiva intavolata dell’allestimento sabaudo di Così fan tutte (1 Luglio) supera di gran lunga quella delle due produzioni precedenti. Sul fondale campeggia una splendida immagine del golfo di Napoli visto da sud (si riconoscono Castel del Monte e la certosa di San Marino sulla collina del Vomero) mentre un sipario raffigurante un dettaglio di vita portuale maschera il palcoscenico durante i cambi di scena (piuttosto rumorosi). Le scenografie di Luciano Ricceri ricostruiscono una Napoli nobiliare tardo settecentesca di grande suggestione (bellissime le arcate di Palazzo dello Spagnuolo utilizzate per definire la villa delle «dame ferraresi») e l’utilizzo di drappeggi un po’ in disuso nell’arredo interno suggerisce perdipiù l’idea di una borghesia decadente che legittima, sul piano puramente pratico, il desiderio delle sorelle di convolare a nozze con uomini di «buona borsa». La regia di Ettore Scola, ripresa da Vittorio Borrelli, nel rispetto assoluto della “tradizione” (accezione di cui farei volentieri a meno), lascia poco al caso e approfondisce gli spunti giocosi del libretto con estrema perizia teatrale. Si canta spesso in proscenio e la movimentazione delle masse è meccanica e datata (soldati e popolani fanno irruzione nel giardino a passo cadenzato di marcia) ma l’ingegno registico è efficace nel gestire la staticità dei momenti musicali offrendo in contrappunto siparietti arguti. Diverse le illustrazioni letterali, alcune di esse molto simpatiche (Fiordiligi avvicina all’orecchio il polso del pretendente “avvelenato” e Ferrando si fionda su di un ponteggio quando Guglielmo gli sconsiglia di precipitarsi «per una donna che non val due soldi»), altre più imbarazzanti (Dorabella, legata al principe albanese prima della passeggiata funesta, trova refrigerio dal «pizzicore» sventolando con un ventaglio la zona inguinale). I costumi di Odette Nicoletti ben confanno al taglio registico anche se Don Alfonso, qui mercante di stoffe o stilista antesignano, somiglia molto di più a Falstaff che a un vecchio filosofo. Anche Despina ha un qualcosa di tirolese e ricorda per sommi capi l’Amina della Sonnambula nell’allestimento di Mary Zimmerman. Minuziose le luci di Vladi Spigarolo, precise nello scandire lo scorrere del tempo e attente alle minuzie sceniche (le luci cambiano quando Despina apre e chiude le finestre).
Sul podio Diego Fasolis compie un lavoro eccellente nella brillante concertazione dell’ultima opera della trilogia. Il manierismo sopraffino del direttore svizzero conferisce all’orchestra del Teatro Regio una gamma di colori ricca e variegata. L’equilibrio delle varie sezioni è una costante garantita per tutta l’esecuzione e il gran gusto nella ricerca del particolare sposa lo spigliato istinto drammaturgico. Le sonorità si fanno evanescenti dei momenti di slancio lirico (fantastico in tal senso, ad esempio, il terzettino «Soave sia il vento») e si affilano nei celeri abbrivi che accompagnano gli istanti più concitati. Encomiabile la cura nelle frasi, nell’equilibrio tra buca e palcoscenico e nell’attenzione alle esigenze dei cantati. Per lui grande applausi già alla fine del primo atto, quando impugna lo spartito per convogliare su Mozart gli entusiasmi del pubblico. Molto belli gli inserti del violoncello nel basso continuo, in particolar modo nella chiusura di alcuni recitativi, mentre il generoso fortepiano del maestro Carlo Caputo, gradevole nello scioglimento di pause e corone, abbonda troppo di leziosi arpeggi.
Altrettante soddisfazioni giungono dalla compagnia vocale, molto valida quasi nella sua interezza. Roberto de Candia è irresistibile, il suo Don Alfonso è un burattinaio arguto e sagace. La linea vocale è solida, brunita nel colore, doviziosa di sfumature e inarcature istrionesche, il tutto commisurato con un garbo e un distinto senso della misura tale da preservare l’aura intellettuale del confutatore di illusioni. Decisamente più macchiettistica la Despina di Lucia Cirillo, mezzosoprano impegnato principalmente nel repertorio barocco e caratterizzato da vocalità decisamente più sopranile. Gli abbellimenti del ruolo sono sviluppati tutti nella tessitura centrale, laddove la cantante trova evidentemente più agio, ma ogni tanto la pulizia dell’emissione è sacrificato in virtù di goliardate strappa risate. Ottime le sorelle che si impongono per grande affiatamento. Annalisa Stroppa contrappone alla superficialità del personaggio una verace intensità nel ruolo. La voce risulta omogenea in tutta l’estensione, con centri e gravi ampi e acuti squillanti. Negli accenti e nel modo di porgere la sua Dorabella, dirompente nell’aria di sortita, acquista una femminilità di maggior spessore. Federica Lombardi da sfogo ai rimorsi di Fiordiligi con sobrietà. Il giovane soprano fronteggia con destrezza le agilità del «Come scoglio» ma non sempre la salita è lineare e i picchiettati risuonano poco a fuoco, specialmente se emessi senza l’appoggio del forte. Al di là di queste piccole imprecisioni, il personaggio complessivo è fascinoso e pienamente convincente. Il baritono Andrè Schuen tratteggia un Guglielmo tenace sulla scena e nella resa vocale. La pronuncia è pressoché perfetta (è l’unico del cast a non essere italiano), il timbro seducente; l’emissione baldanzosa assicura granitiche puntature in acuto che avvalorano l’audacia del giovane soldato. La partecipazione attoriale è convinta e convincente, qualità non pervenuta nel Ferrando di Francesco Marsiglia, purtroppo noioso da ogni punto di vista. La tenuta è sempre periclitante, soprattutto in acuto, dove la voce si irrigidisce e l’emissione si fa muscolare, penalizzando ulteriormente un volume già piccolo. I recitativi sono frettolosi e il fraseggio monotono. Unica nota positiva dell’intera performance è la buona agilità nella coloratura richiesta nei concertati.
Validi i brevi interventi del Coro del Teatro Regio preparato dal Maestro Andrea Secchi. Onore all’Orchestra, assoluta protagonista di questa maratona, sempre capace di veicolare appieno l’impronta dei tre direttori.
Con un unanime ex aequo si conclude l’eterna battaglia tra i due sessi. Tanti pregi, molte debolezze, nessun vincitore e nessun vinto. Trionfa solo la musica, trionfa il teatro, trionfa l’intelligenza di chi sa osservare l’universo con occhio critico e ironico. Il riscontro favorevole del pubblico, sempre numeroso in ciascuna recita, consacra il successo di un progetto tanto impegnativo quanto pavido. Divorati da dubbi amletici congediamo per la pausa estiva il Teatro Regio di Torino, senza mettere però a tacere il briciolo di disincanto verso la prossima stagione, molto criticata dal drappello di inflessibili appassionati (me compreso, sia chiaro) che impietoso s’è levato sulle pagine social del teatro nelle ultime settimane. Una riflessione del tutto personale è d’uopo. La banalità della nuova programmazione non va imputata esclusivamente alla spicciola progettualità della nuova direzione. Parte della colpa grava anche su chi al teatro dà vita. Molti degli interessantissimi appuntamenti di quest’anno (I lombardi alla prima crociata, uno degli spettacoli musicalmente più belli degli ultimi anni, il dittico Il segreto di Susanna/ La voix humaine, Salome, il meraviglioso allestimento dell'Orfeo, Tristan und Isolde, durante cui buona parte del pubblico è fuggito al primo intervallo) non hanno ottenuto assolutamente il consenso meritato. A volte basterebbe allargare di poco i proprio orizzonti per accorgersi che la bellezza si nasconde copiosa anche altrove. Altrimenti, fin ch’han dal vino calda la testa, una gran festa è facile preparar.
foto Ramella e Giannese