L’Ape musicale

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Torino, 10 settembre 2019 – Tutta un’altra musica, tutto un altro programma – decisamente più interessante – nel Nuovo mondo, in cui ci si addentra in punta di piedi: è di fatti l’Adagio per archi dal Quartetto op.11 di Samuel Barber, a cui sarebbe più corretto riferirsi come Molto adagio – un po’ come accade al “Largodal Serse di Händel, «Ombra mai fu», in realtà contrassegnato come Larghetto – ad accogliere il pubblico del Conservatorio “Giuseppe Verdi” tra i languori di quelle linee purissime, laceranti, calde, che Giampaolo Pretto e la Filarmonica di Torino restituiscono nel vaporoso velluto orchestrale.

La novità assoluta dell’universo d’oltre oceano arriva però con la prima esecuzione italiana del concerto per viola e orchestra di Jennifer Higdon. Gli amanti del Novecento rimarranno forse delusi: la creatura della Higdon si muove cauta sotto il profilo della sperimentazione e si concentra invero sull’involo melodico che esaspera la cantabilità della viola e permette di conoscerla da angolazioni differenti. Ciò arride certamente al successo di Nils Mönkemeyer, violista tedesco ben inseritosi nell’ambiente atmosferico immaginato dalla Higdon e tratteggiato da Pretto. Appassionato nel porgere le frasi e nell’animare i giochi di colore di cui è pregna la composizione, dopo i meritatissimi riconoscimenti Mönkemeyer si congeda col Preludio dalla Suite n. 2 per violoncello di Bach.

Tocca infine alla Sinfonia n.9 di Dvořák, elettrizzante banco di prova per i grintosi complessi dell’Orchestra Filarmonica di Torino che, almeno rispetto a quanto non si faccia con le altre due orchestre “di casa”, spiace seguire meno durante il corso dell’anno. Dell’OFT Giampaolo Pretto è direttore musicale e l’affiatamento con gli strumentisti emerge in ogni momento della concertazione: la lettura del primo flauto dell’OSN Rai è a tratti impetuosa, ma è un’impetuosità che non si traduce esclusivamente nello sfogo sonoro bensì trova la sua naturale corrispondenza innanzitutto nel temperamento dell’Allegro molto dal primo movimento, dove i trapassi emotivi dei ricchissimi episodi, sovrastati dalle icastiche sortite del corno, si susseguono in un flusso di rinnovata eccitazione. Dopo Barber, il candore dell’oasi lirica del Largo successivo non è certo una sorpresa: il tessuto ritmico sembra ora allentarsi, con pause assai drammatiche verso la fine, per concedere più filo, soprattutto ai flauti, con cui ricamare questo idillico panorama. Elegantissima è quindi la resa dello Scherzo, per la varietà ritmica, coloristica e la brillante inventiva melodica dell’etnomusicologo ben pronunciate in tutta la loro raffinata bellezza. Più veemente l’Allegro con fuoco conclusivo, messo a rischio invero dall’equilibrio tra gli ottoni e il resto delle sezioni che si porta talvolta al limite dell’instabilità e l’assieme di corni, trombe e tromboni rischia addirittura di risultare assordante. Non viene meno però l’esaltazione emotiva che nasce nel passaggio da un periodo all’altro del movimento, nella continuità del discorso direttoriale che avanza a mezzo di soluzioni dinamiche e agogiche coinvolgenti e, alla fine, la sala s’infiamma.


 

 

 
 
 

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