Mondi vecchi e nuovi
Dal Medioevo letterario di Orff e Strauss alle suggestioni dall’America importate grazie alle pagine di Barber, Higdon e Dvořák: mondi vecchi e nuovi si confrontano in due concerti del MITO Settembre Musica.
MITO lo aveva promesso: quest’anno non si viaggia solo nello spazio ma anche nel tempo e, ipso facto, ci porta nell’ottobre del 1942: un attimo prima i monumentali Carmina Burana di Orff sembrano fare da colonna sonora alla caduta di Costantinopoli e poco giorni dopo si finisce col vagheggiare l’America finemente accennata dalla celebre Sinfonia n.9 in mi minore op.95 “Dal nuovo mondo”. Due realtà, due mondi assai differenti che s’incontrano nel sinfonismo europeo di fino Ottocento – di cui Dvořák è protagonista e Orff corteggiatore – portando in dono ora del materiale letterario di indiscutibile fascino, ora un bouquet di temi e caratteri per impreziosire e alleggerire la scrittura.
Torino, 6 settembre 2019 – Carmina tedeschi – questo è il titolo del concerto che annovera nell’impaginato di sala l’opera di Orff – s’impone tra i velluti del Regio come uno degli appuntamenti di maggior richiamo per i meno affezionati che, incoraggiati dalla prospettiva del vicino «O fortuna», devono fare inizialmente i conti con Till Eulenspiegels lustige Streiche (I tiri burloni di Till Eulenspiegel) op. 28. Daniele Rustioni, alla guida dell’Orchestra Sinfonica di Milano Giuseppe Verdi, anima il poema sinfonico di Richard Strauss con mano energica, spirito luciferino e una bella dose di verve, lavorando con cura sul fraseggio istrionico dei fiati che materializzano i dispetti di Till Eulenspiegel. Forse il passo svelto, ancor più enfatizzato dalle sonorità asciutte richieste agli orchestrali milanesi, in parte sacrifica le sottigliezze della partitura ma in fin dei conti la causa narrativa è ben servita e la concertazione, nel complesso, può ritenersi piuttosto efficace.
I Carmina Burana, invece, suonano più commerciali, con quei prevedibili toni apocalittici che subito nei sillabati del primo canto schiacciano la voce del Coro Sinfonico di Milano Giuseppe Verdi, istruito dal maestro Dario Grandino. Decisamente più interessante il parterre vocale: all’indisposta Zuzana Marková subentra (o fortuna!) Giuliana Gianfaldoni – quest’anno acclamatissima nel Viaggio a Reims dell’Accademia pesarese al Rossini Opera Festival – che, tra una filatura e una legatura e forte in generale dell’altissima qualità del timbro e dell’emissione, s’impone come beniamina della serata. Accanto a lei ben fanno il controtenore Antonio Giovannini e l’inossidabile Roberto De Candia il quale, vuoi per la meticolosità del fraseggio, vuoi per il nitore della pronuncia o in generale per la teatralità dell’accento, meglio di tutti ottempera alle prerogative della cantata.
Torino, 10 settembre 2019 – Tutta un’altra musica, tutto un altro programma – decisamente più interessante – nel Nuovo mondo, in cui ci si addentra in punta di piedi: è di fatti l’Adagio per archi dal Quartetto op.11 di Samuel Barber, a cui sarebbe più corretto riferirsi come Molto adagio – un po’ come accade al “Largo” dal Serse di Händel, «Ombra mai fu», in realtà contrassegnato come Larghetto – ad accogliere il pubblico del Conservatorio “Giuseppe Verdi” tra i languori di quelle linee purissime, laceranti, calde, che Giampaolo Pretto e la Filarmonica di Torino restituiscono nel vaporoso velluto orchestrale.
La novità assoluta dell’universo d’oltre oceano arriva però con la prima esecuzione italiana del concerto per viola e orchestra di Jennifer Higdon. Gli amanti del Novecento rimarranno forse delusi: la creatura della Higdon si muove cauta sotto il profilo della sperimentazione e si concentra invero sull’involo melodico che esaspera la cantabilità della viola e permette di conoscerla da angolazioni differenti. Ciò arride certamente al successo di Nils Mönkemeyer, violista tedesco ben inseritosi nell’ambiente atmosferico immaginato dalla Higdon e tratteggiato da Pretto. Appassionato nel porgere le frasi e nell’animare i giochi di colore di cui è pregna la composizione, dopo i meritatissimi riconoscimenti Mönkemeyer si congeda col Preludio dalla Suite n. 2 per violoncello di Bach.
Tocca infine alla Sinfonia n.9 di Dvořák, elettrizzante banco di prova per i grintosi complessi dell’Orchestra Filarmonica di Torino che, almeno rispetto a quanto non si faccia con le altre due orchestre “di casa”, spiace seguire meno durante il corso dell’anno. Dell’OFT Giampaolo Pretto è direttore musicale e l’affiatamento con gli strumentisti emerge in ogni momento della concertazione: la lettura del primo flauto dell’OSN Rai è a tratti impetuosa, ma è un’impetuosità che non si traduce esclusivamente nello sfogo sonoro bensì trova la sua naturale corrispondenza innanzitutto nel temperamento dell’Allegro molto dal primo movimento, dove i trapassi emotivi dei ricchissimi episodi, sovrastati dalle icastiche sortite del corno, si susseguono in un flusso di rinnovata eccitazione. Dopo Barber, il candore dell’oasi lirica del Largo successivo non è certo una sorpresa: il tessuto ritmico sembra ora allentarsi, con pause assai drammatiche verso la fine, per concedere più filo, soprattutto ai flauti, con cui ricamare questo idillico panorama. Elegantissima è quindi la resa dello Scherzo, per la varietà ritmica, coloristica e la brillante inventiva melodica dell’etnomusicologo ben pronunciate in tutta la loro raffinata bellezza. Più veemente l’Allegro con fuoco conclusivo, messo a rischio invero dall’equilibrio tra gli ottoni e il resto delle sezioni che si porta talvolta al limite dell’instabilità e l’assieme di corni, trombe e tromboni rischia addirittura di risultare assordante. Non viene meno però l’esaltazione emotiva che nasce nel passaggio da un periodo all’altro del movimento, nella continuità del discorso direttoriale che avanza a mezzo di soluzioni dinamiche e agogiche coinvolgenti e, alla fine, la sala s’infiamma.