Parsifal senza sacralità
di Stefano Ceccarelli
Un’inveterata tradizione vuole che il Parsifal sia rappresentato durante le festività pasquali. In effetti, quale miglior periodo? Il III atto si svolge proprio durante il Venerdì Santo. Il Teatro dell’Opera di Stato Ungherese (Budapest) non fa eccezione, presentato anzi una ben radicata tradizione rappresentativa dell’ultimo e più elaborato monumento al teatro d’opera di Richard Wagner, il suo compiuto dramma sacro. Peccato che si tratti di una produzione, a conti fatti, destinata a fallire in partenza: una vecchia e stantia regia coniugata all’assenza quasi totale di un cast realmente all’altezza del Parsifal, non possono elevare questa produzione al di sopra di una concatenazione di recite d’ufficio, ad uso e consumo – mi viene da pensare – di un pubblico molto poco specialistico, piuttosto desideroso di godere di un’atmosfera surreale (l’Opera di Budapest è un gioiello!), che di emozionarsi realmente per un decoroso Parsifal. Se si aggiunge, poi, che il direttore Juraj Valčuha non riesce a cavar quasi nulla da un’orchestra depauperata del numero adeguatamente necessario per la partitura, si può certo dire che la serata sia stata pesantemente sfortunata.
BUDAPEST, 25 marzo 2016 – Una lunga e salda tradizione vuole che il Parsifal di Richard Wagner sia rappresentato il giorno del Venerdì Santo: il Magyar Állami Operaház – cioè l’Opera di Stato Ungherese – non fa eccezione in tal senso. All’interno di una programmazione che oserei dire funambolica (quasi non v’è giorno del mese che il Teatro dell’Opera non metta in scena un’opera, un balletto o un concerto), quest’anno a Budapest si dà Parsifal proprio a ridosso delle festività pasquali. Parsifal non è, come si sa, un’opera come tutte le altre: ha un’altissima carica mistico-sacrale, che non s’identifica in nessun colore religioso – a dispetto della critica di Nietzsche, che vedeva nell’opera l’approdo fideistico cristiano di un Wagner apostata di un neo-paganesimo germanico. La sua cristianità è solo una patina, come hanno dimostrato studi persino antropologico-psichiatrici (simbolismo di lancia e calice), oltre che filosofico-culturali. Il Parsifal ha una monumentalità abnorme, che la rende un laico rito religioso, un rito teatrale al pari di quelli che devotamente gli ateniesi tributavano a Dioniso. Per queste e non poche altre ragioni, il Parsifal va trattato e interpretato con particolare cura, va fruito proprio appunto come se si assistesse a una mistica rivelazione. E bisogna mettere il pubblico in grado di accoglierlo così: in tal senso, Parsifal palesa una sostanziale gigantesca immutabilità con cui ogni regista, che possa definirsi tale, deve fare i conti.
Tutto il contrario di ciò che ho percepito lo scorso Venerdì Santo al Teatro dell’Opera di Budapest. Prima colpevole ne è la regia, ben accompagnata dalla scenografia e dalla direzione d’orchestra. Di una stantia classicità è la storica regia di Mikó András (1922-98), istituzione dell’Opera di Budapest: avvolge il Parsifal come una vecchia carta da parati, con effetti ai limiti del grottesco. Si percepisce, anzi, la chiara assenza di un regista vero e proprio, che prepari e consigli i cantanti sul palco. La caratterizzazione delle parti è affidata interamente all’arbitrio dei cantanti – con ovvie conseguenze – e i movimenti sono rigidamente didascalici: solo Kundry (Herlitzius) e Gurnemanz (Gábor) palesano un’effettiva presenza sul palcoscenico. A tratti imbarazzante la recitazione di István nei panni di Parsifal: impacciato, immobile, incapace di rendere una parte affatto complessa com’è quella dell’eroe del Graal. Dalla generale mestizia della recitazione non si salva neppure l’Amfortas di Grochowski, benché si riprenda nella grande scena finale del III atto. Inspiegabile la scelta di rendere Klingsor una sorta di personaggio da luna park: Klingsor, l’angelo caduto del Graal per eccesso di mistico zelo. Una regia statica e complessivamente didascalica mortifica la mistica complessità di molti passaggi narrativi e musicali: i grandi affreschi delle scene della sala del Graal sono privi di una reale forza o pulsione ieratica, risultando affreschi mal rappresi. Unica, lieve eccezione la scena dei demoni/fiori (II atto), dove un certo movimento desta una sopita attenzione, salvo poi rimpigrire l’occhio in coreografie mal eseguite; di qualche effetto anche l’uso delle luci nelle scene della sala del Graal, in particolare per l’espediente di mostrare Titurel, implorante Amfortas per un’ostensione del Graal, da una fessura romboidale, adorno d’oro, del fondo del palcoscenico – prefigurazione della sua imminente morte. Un’idea unitaria, salda, insomma, non si scorge in questa regia, che tenta piuttosto di rappresentare, ma senza comprendere ab imo, la complessità del Parsifal: non mi saprei altrimenti spiegare effetti scenici di dubbio gusto come l’illuminazione della Lancia di Longino. I soli quadri scenicamente (Forray Gábor) convincenti sono quelli della sala del Graal, realizzata con colonne monolitiche e spoglie, rudimentali, ma ben giocate con le luci, in una prospettiva centrale convincente – nulla a che vedere, certo, con la monumentalità dell’interno del Duomo di Siena, che Wagner aveva in mente per le scene della première nel 1882. Incoerenti con una pretesa scenografica figurativamente didascalica risultano i teli verdi, adagiati sul palco alla rinfusa, nella prima scena dell’opera (una foresta vicino a un mistico lago); più interessanti i velatini susseguentisi a mezz’aria con fronde arboree, che donano un po’ di profondità, ma sono eccessivamente naïf. Non all’altezza dell’incantevole giardino di Villa Rufolo a Ravello (perla della Costiera Amalfitana) è uno spoglio fondale nero, cui fanno da contrasto ancora velatini infrondati e fioriti: la magia orientaleggiante voluta da Wagner è totalmente persa. Vero neo del quadro, fra il grottesco e il comico, è la sortita di Klingsor, abbigliato come Mangiafuoco, su un trono che sembra incerato.
Non si eleva molto al di sopra di una prova d’ufficio la direzione di Juraj Valčuha: un vero peccato, giacché lo slovacco di buone speranze – che molto lavora, e bene, in Italia – avrebbe certo potuto far meglio. Ma non è tutta colpa sua: parte ha contribuito un’orchestra dai numeri irrisori per una partitura come quella del Parsifal (Wagner l’aveva pensata per mastodontici complessi a Bayreuth: ben 107 orchestrali e 135 cantanti). Orchestra, peraltro, neppure ben centrata per amalgama sonoro e correttezza intonativa. Ne siamo subito avvertiti fin dallo splendido – il complimento è per la scrittura wagneriana, s’intende – ouverture: quel mistico entrare degli archi, la lucifera salita di archi e acquatici accordi dei legni… tutto suona irrigidito: siamo lontani dalle essenze contemplative di Karajan (penso all’edizione del 1980) o dalla perfezione stilistica di uno Solti (1972) o foss’anche dalle ritmiche pulsioni agnostiche di un Boulez (il live del 1966, per esempio). Confronti del genere potrebbero oziosamente continuare. Manca quell’afflato di sacralità luterana, linguaggio specifico di questa partitura, che derivava a Wagner dalla riscoperta del barocco tedesco tipica della sua epoca. Fatto sta che Valčuha fa sentire un’autentica firma direttoriale sono in sparuti passaggi della marmorea opera: il sensuale episodio dei demoni/fiori; il successivo duetto Parsifal/Kundry (II atto); l’alba e la preghiera di Gurnemanz (I atto); il panico elogio della natura da parte di Parsifal (III atto). Mancano di una palpabile ieraticità le scene nella sala del Graal.
Il cast dei cantanti è di talento fortemente ineguale. Su tutti sopravanza la Kundry di Evelyn Herlitzius, per doti canore e recitative. Certo, forse, esagera un po’ nel tratteggiare il personaggio (troppo marcata la mimica facciale): ma si muove con intelligenza e attesta presenza scenica. Dotata di una voce squillante, che arriva facilmente a disegnare arcate di canto sempre sostenuto, con vette stentoree, ha un timbro condito di qualche brunita nuance che mai non guasta nel ruolo di Kundry; dà il meglio di sé e spagina tutto il suo canto nella famosa aria «Ich sah das Kind» e nel duetto con Parsifal nel giardino incantato (II). Buono anche il Gurnemanz di Bretz Gábor, che non mostra alcun cedimento nella gargantuesca parte cui è demandato, vero aedo della vicenda: sorretto da una discreta tecnica che gli permette di cantare senza perdere aderenza alla ferma linea della melopea, condendola anzi con un interessante timbro dal cavernoso nòcciolo. Assai meno convincente risulta il Parsifal di Kovácsházi István, che non riesce ad essere innocente alla sua sortita, quando uccide il cigno bianco (cigno – rido ancora al ricordo – che sembra un enorme giocattolo per bambini in plastica); impassibile alla cerimonia dell’ostensione del Graal (I); leggermente più convincente nel duetto con Kundry, in cui mostra un barlume di consapevolezza del ruolo («Amfortas! Die Wunde! Die Wunde!»), pur sempre inficiato da una voce timbricamente certo troppo melmosa e tendente a acuti schiacciati; la situazione non migliora nel III atto, dove raramente arriva a elevarsi in una dimensione sovrannaturale (qualche emozione la si prova ascoltandolo nell’elogio della natura). Banale scenicamente e vocalmente il Klingsor di Egri Sándor: anche se chiudessimo gli occhi, evitando di guardarlo abbigliato da scena, non proveremmo certo quel senso di frustrata malvagità che dovrebbe essere la cifra del personaggio. Il Titurel di Kovács István, vocalmente astenico, è poco più che oleografico: rende però bene lo svigorimento senile cui Amfortas costringe il padre per l’egoismo di voler lui stesso morire. L’Amfortas di Gerd Grochowski, appunto, che qualcosa ci regala soprattutto scenicamente solo nel finale del III atto: ma è nulla al confronto dell’intensità pervasiva di mortificata santità con cui scolpisce il personaggio il re stesso (forse) del ruolo, Dietrich Fischer-Dieskau.
Una produzione, dunque, oramai inattuale, che – benché tradizionale – andrebbe rinnovata nel solco di una maggior comprensione della partitura. L’Opera di Budapest presenta una programmazione ricchissima, con molti titoli ogni mese: dovrebbe però meglio badare alla qualità degli stessi. Questo Parsifal lo dimostra lampantemente: con una regia diversa, una più nutrita orchestra, un cast meglio oculatamente scelto (pescando fra indiscussi wagneriani: solo così può darsi un Parsifal!), la recita sarebbe andata diversamente.