Del paragon la pietra sono i contrari eventi
di Roberta Pedrotti
Spiccano le prove di Maxim Mironov, Davide Luciano e Paolo Bordogna nella Pietra del paragone al Rossini Opera Festival. Delude la concertazione di Daniele Rustioni.
PESARO 11 agosto 2017 - Stendhal l'adorava e la chiamava Sigillara, dall'ordine impartito in un idioma esotico di fantasia dal finto creditore (il Conte travestito) nel finale primo: La pietra del paragone è un titolo chiave nell'ascesa di Rossini e una delle sue opere buffe più significative, eppure stenta a trovare una collocazione stabile nel repertorio, sia per l'impegno richiesto a un cast numeroso, sia per una drammaturgia non perfettamente lineare che deriverebbe da due diverse farse giustapposte e attraverso due diverse peripezie conduce a giuste nozze il misogino Conte Asdrubale e l'arguta Marchesa Clarice: nel primo atto il nobiluomo mette alla prova con un falso tracollo finanziario (“del paragon la pietra sono i contrari eventi”) la buona fede di amici e corteggiatrici; nel secondo, oltre all'intrigo buffo dei duelli concatenati, abbiamo dapprima messa in dubbio la fedeltà di Clarice, quindi è quest'ultima a camuffarsi da proprio gemello militare per saggiare i sentimenti del Conte e spingerlo finalmente a chiederle la mano. La trama sentimentale costituisce il filo conduttore per una satira sociale pungente, in cui le maschere tragicamente vere del poeta cialtrone e pieno di sé e del giornalista corrotto e ignorante si trovano sulla stessa linea che congiunge Plauto alla migliore commedia all'italiana del XX secolo. I tratti grotteschi della piccola corte di parassiti che gravita attorno alla villa del Conte sono, però, incastonati e smussati dai modi della commedia sofisticata, non senza raffinate e melanconiche introspezioni, sicché l'opera appare come un piccolo gioiello estremamente delicato.
Quindici anni fa, al rimpianto e sempre atteso Palafestival, l'aveva portata in scena per il Rof Pierluigi Pizzi, che ne fece una sorta di emblema del suo stile in ambientazione novecentesca: una villa moderna con piscina e arredi di design, un pizzico d'ambiguità (Clarice che, spacciandosi per il fratello e creduta da tutti il cavalier Lucindo, bacia appassionatamente il Conte), un girotondo d'abiti variopinti ed elegantissimi, ma anche di corpi più o meno torniti fra nuoto e ginnastica. Oggi, riproponendo lo spettacolo all'Adriatic Arena la scena si semplifica, il parco si fa più sobrio dell'originale che riciclava la foresta del Guillaume Tell del '95, spariscono modelle e giovanotti a far da comparsa a bordo piscina. In compenso l'azione sembra farsi più rutilante, talora perfino troppo, approfittando magari di un cast dalla muscolatura più generosa per giocare maggiormente sulla fisicità allusiva e su una comicità più esuberante. Tant'è che, più nella ripresa effettiva da lui stesso curata del suo spettacolo, il miglior omaggio a uno dei registi più significativi della storia del Rof si ha quando Richard Barker, prevedibilmente magnifico al continuo, ripete l'exploit con cui, nelle vesti di Nino Rota, aveva accompagnato le uscite alla ribalta nel Cappello di paglia di Firenze, forse il più bell'allestimento di genere brillante firmato da Pizzi.
Purtroppo, però, la musica questa sera non ha sempre lo spirito di quella suonata da Barker, benché l'Orchestra Rai svolga ancora splendidamente il suo compito. Daniele Rustioni, però, procede con pesantezza fra scelte di tempi bislacche (perfino grottesca la frenesia saltellante della cabaletta di Asdrubale) e assoluta piattezza espressiva, che affossa le strutture e la teatralità dei concertati e ignora tutta la malizia delicata che potrebbe sprigionare il duetto dell'eco nel primo atto, reso qui addirittura noioso.
Va da sé che siffatta concertazione non aiuti né stimoli i cantanti, tant'è vero che perfino il coro del Ventidio Basso risulta meno compatto della sera precedente con Le siège de Corinthe. Su tutti si impongono i tre deuteragonisti maschili: il nobile poeta Giocondo e i meschini Macrobio e Pacuvio. Quest'ultimo è Paolo Bordogna, assolutamente ideale in una parte che, con la celeberrima “Ombretta sdegnosa”, è l'unica che sembra offrire l'occasione per qualche estrosità attoriale e che richiede, pertanto, il gusto e l'arte adeguati. Nei panni tristemente realistici del bieco e pavido giornalista ritroviamo Davide Luciano e abbiamo la conferma delle qualità ammirate due anni fa nell'Inganno felice: voce ben timbrata, assai bella, disinvolta in tutta l'estensione e nella gestione dei fiati, così come chiarissima e incisiva nella dizione, va di pari passo con l'efficacia naturale del gesto e della presenza scenica. Come già quindici anni fa, quando titolare del ruolo fu Pietro Spagnoli, “Chi è colei che s'avvicina?” risulta uno dei momenti migliori della serata. Un calorosissimo, prolungato applauso punteggiato da esclamazioni giubilanti è riservato pure a Maxim Mironov per la resa elegante e virtuosistica della sua “Quell'alme pupille”, altro vertice della recita. Il tenore russo, voce non possente ma ben educata, ha la figura perfetta per il giovane poeta, sensibile e di delicati sentimenti, così come il timbro e il modo di porgere morbido e aristocratico, ma capace anche di divertiti momenti brillanti in una prova in crescendo.
Chi non funziona è, purtroppo Gianluca Margheri, comparso in locandina in un secondo momento in luogo di Luca Pisaroni passato a sostituire il previsto Alex Esposito nel Siège de Corinthe, ma che comunque aveva già interpretato il Conte Asdrubale a Cagliari un annetto fa (leggi). Gli porta oggi in dote per lo più un fisico palestrato esibito in varie tenute sportive, nonché un timbro in origine interessante, tuttavia non ben messo a frutto tecnicamente: l'acuto non gira come dovrebbe e tende a schiacciarsi, la coloratura e, in generale, il fiato non sono esenti da affanni, così come il cantabile, in cui fatica a sorvegliare a dovere la musicalità e l'intonazione.
Corretto il Fabrizio di William Corrò.
Sul versate femminile, nella coppia delle rivali pareti strette di Clorinda e Tisbe, spicca senz'altro la Donna Fulvia della promettente Marina Monzò, mentre Aurora Faggioli, come Baronessa Aspasia, risulta spesso stridula e sgraziata.
Negli ardui panni della sofisticata Clarice, pensati per la prima musa rossiniana Maria Marcolini, Aya Wakizono ribadisce l'accurata musicalità, anche se forse un'altra bacchetta avrebbe potuto stimolarla a cercare qualche sfumatura, ironia e seduzione in più nel fraseggio, così come avrebbe forse cercato di venire incontro a un volume non proprio penetrante e a una vocalità che nel settore centro grave ha senz'altro bel colore, ma anche poca sostanza e rischia di suonare un po' sorda. La via della correttezza e dell'intenzione, che non le possono essere negate, non riesce a condurla trionfante alla meta proprio in quella che dovrebbe essere una delle parti di maggior soddisfazione per un contralto rossiniano, e che invece lascia freddi perfiodopo il rondò del secondo atto.
Certo, impossibile non pensare che con altra bacchetta tutti, o quasi, avrebbero potuto far meglio, ma gli applausi sono comunque generosi con tutti, premiando meritatamente, alle uscite finali, Bordogna, Luciano e Mironov forse più d'ogni altro.
foto Amati Bacciardi