Il fascino discreto della poesia
di Roberta Pedrotti
Affascinante recital del pianista polacco Piotr Anderszewski, fra Janáček, Bach e Chopin.
BOLOGNA, 30 gennaio 2017 - Suona con una naturalezza disarmante, Piotr Anderzsewski, e ascoltandolo si ha quasi la sensazione di una musicalità spontanea, immediata. Invece, questa semplicità, elegantissima, è la forma sensibile di un fraseggio raffinato quanto intelligente, interiorizzato al punto da manifestarsi in una serena, accattivante nonchalance.
È soprattutto Bach, con la meraviglia della Suite inglese, a colpire in tal senso, ché Anderszewski metabolizza il contrappunto senza lasciar sola nemmeno una nota ed esprime una vena lirica che potrebbe dirsi perfino struggente, se il gusto del pianista non sorvegliasse il pathos per non tradire mai la misura estetica bachiana. La pulizia del tocco, la cura minuta di un suono in cui la ricchezza pianistica pare morbidamente distillata, non prosciugata, fanno il resto, con una gestione dei tempi composta, naturalmente varia senz’essere bizzosamente estrema.
Le cinque sequenze del secondo libro di Po zarostlém chodníčku (tradotto come Sul sentiero ricoperto o Sul sentiero di rovi) di Janáček, prive di un titolo caratteristico individuale a differenza delle dieci precedenti, ci offrono un ritratto insolito del compositore ceco, là dove si ravvisano a fatica i ritmi, le armonie i modi anche un po’ spigolosi desunti dalla tradizione popolare e infusi nel suo peculiare lirismo. Ci troviamo, invece, in una scrittura singolare, che crea una sorta di limbo fra vita e morte, un ritorno alla natura che è desolato abbandono e anelito di rigenerazione, cantato da Anderzsewski con toni soffusi ma non sfocati, con una poetica, pudica dolcezza che sembra quasi sospendere lo scorrere del tempo, percepito come più lento di quanto non sia in realtà. Di sonorità “soffocata e opaca” parla Rattalino in merito a questa partitura e il pianista polacco sembra rivivere personalmente questa definizione, con un pizzico di dolce malinconia.
Tanta delicatezza, tanta eleganza non deve far pensare, pertanto, a un’uniformità o, peggio, a una diminutio retorica e dinamica da parte di Anderszeski, che è, sì, naturalmente riconoscibile personale, ma non certo rinunciatario e ritroso come interprete. L’arco d’intensità del ciclo di Janáček è compiuto alla perfezione, così come il rapporto fra i diversi caratteri delle danze della Suite bachiana, e quando Chopin lo esige l’accento sa farsi ancor più marcato, come nel finale della Polonaise-Fantaisie in la bemolle maggiore op. 61, il cui crescendo culmina in un finale giustamente perentorio, coerente sia con l’articolazione poetica del pezzo, sia con il moto ritmico e dinamico messo in bell’evidenza nelle Tre Mazurche op. 56 e op. 59, eseguite senza soluzione di continuità ma dipanando alla perfezione la dialettica di lirismo, brillantezza, inquietudine.
Bach e l’Est Europa tornano, fuori programma, a chiudere il cerchio: nella Sarabanda dalla Prima Partita BWV 825 abbiamo un nuovo esempio di come si possa fraseggiare nelle pieghe più sottili del tocco pianistico senza travisare la natura del Kantor di Lipsia, e farlo trasmettendo una sensazione di sorprendente spontaneità; nelle Tre canzoni popolari del distretto di Cisk di Bartók la sensibilità poetica di Anderszeski torna a insinuarsi sapientemente nelle suggestioni della tradizione, multiforme poesia collettiva i cui padri si perdono, al pari degli autori epici, nella notte dei tempi.
Il successo è vivo, ma spiace davvero notare che nelle prime file parte del pubblico, meno numeroso del solito, si sia affrettato a guadagnare soprabiti e uscita già durante i bis (raggelando anche con l’apertura delle porte che danno direttamente all’esterno chi voleva restare ad applaudire). Forse che la poesia intensa e discreta di Anderszeski non è fatta per creare un personaggio da acclamare a prescindere? Per fortuna, al termine, un folto gruppo ha salutato il maestro con apprezzamenti e richieste d'autografo.