L'impeto di Beethoven, l'enigma di Bruckner
di Roberta Pedrotti
Entusiasmo trionfale per il Terzo concerto di Beethoven con il pianista Denis Matsuev al fianco dell'orchestra del Comunale ben diretta da Nikolai Znajder; purtroppo non altrettanto riuscita, nella seconda parte, la Sesta Sinfonia di Bruckner.
BOLOGNA, 28 gennaio 2017 - Qualcosa è cambiato. È ormai un anno che la nuova camera acustica, dovuta al mecenatismo di Alfa Wasserman, fa bella mostra di sé per i concerti sinfonici al Comunale e, dopo la novità dell’impatto inziale, ci si era resi sempre più decisamente conto che qualcosa andava sistemato: così è stato e già i colpo d’occhio iniziale suggerisce quanto sarà presto confermato dall’ascolto. Cielo e quinte sistemati ad hoc, qualche distanza ricalibrata, et voilà: finalmente corretto quel senso di ridondanza, finalmente coniugata la ricchezza del suono con l’equilibrio fra le sezioni, i colori e le frequenze. Il miglioramento è sensibile e ci auguriamo trovi conferma anche alla prova dei prossimi concerti, rendendo giustizia all’intervento in una sala già di per sé acusticamente felice.
Il test della ridondanza del suono non poteva, comunque, già trovare occasione migliore della presenza di un pianista come Denis Matsuev, quarantunenne alfiere della grande tradizione russa, virtuoso e maestoso. Il suo è un pianismo fortemente assertivo, imponente, che del Terzo concerto di Beethoven mette in evidenza soprattutto il vigore romantico, nel quale le reminiscenze mozartiane hanno ormai tutt’altro valore. È nelle note, è un omaggio, è un legame stilistico imprescindibile, ma il mondo è cambiato, è mosso da un’altra forza e Matsuev concretizza la novità della scrittura pianistica in un vigoroso slancio romantico, tant’è che persino il Rondò si sviluppa in una nuova densità, in un virtuosismo patetico più che leggiadro, che saluta il nuovo secolo con fierezza. Sommerso dagli applausi, Matsuev amministra con sapienza i suoi tre bis per ribadire le sue doti in un crescendo d’intensità: la Tabacchiera musicale di Ljadov è un saggio di dinamiche soffuse e pastoso legato, in liquida contiguità e fusione fra il moto della mano destra e della mano sinistra; la trascrizione dell’Antro del re della montagna dal Peer Gynt di Grieg è un vortice di travolgente, fin sfrontato virtuosismo; infine il tributo all’amato jazz si scatena nella mobilità irruente di un singolare swing intriso di grandezza slava. E il teatro vien giù, si potrebbe quasi temere letteralmente, dagli applausi.
La bacchetta complice e attenta di Nikolaj Znaider sovrintende con la consueta efficacia agli equilibri del concerto beethoveniano, senza soccombere alla personalità del solista, bensì inscrivendone l’impeto nella coerenza e nella nobiltà di un fraseggio orchestrale sempre ben ponderato.
Dopo l’intervallo, purtroppo, le cose non vanno egualmente bene e perfino la salda esperienza sinfonica di Znaider, impegnato negli stessi giorni anche in Die Entführung aus dem Serail [leggi] sempre al Comunale, sembra non riuscire a venire a capo del difficile rapporto fra l’Orchestra felsinea e Anton Bruckner. Dopo l’esito non entusiasmante della Prima diretta da Mariotti un paio di settimane fa [leggi], la Sesta patisce nuovamente un’esecuzione problematica, in cui emerge la difficoltà del complesso a penetrare il linguaggio bruckneriano, a evitare le trappole disseminate nella scrittura (specie degli ottoni), a far sì che il peculiare intreccio di temi sospesi proceda senza sfilacciarsi. Dopo un primo movimento meglio controllato, soprattutto il lirismo del secondo e le architetture ardite del quarto sembrano smarrirsi disordinatamente. Peccato, perché la bacchetta è di valore e anche l’orchestra altrove sa dimostrare le proprie qualità, ma è inevitabile che il succsso incandescente della prima parte si tramuti, dopo gli ultimi accordi della Sinfonia, in un battimani di cortesia prima di lasciare la sala.