Tanti auguri Mozart!
di Stefano Ceccarelli
L’Accademia di Santa Cecilia invita la celebre Cecilia Bartoli per un concerto/recital tutto mozartiano: cade infatti il duecentosessantunesimo anniversario della nascita del genio di Salisburgo. Composizione sacre e profane, per voce sola, coro e orchestra si coniugano a brani orchestrali, per una significativa antologia di noti brani mozartiani. Il concerto è un successo: il pubblico ama la Bartoli, che non brilla certo nella performance ma sa stare divinamente sul palco; e gode di esecuzioni eccellenti sotto la vigile bacchetta di Antonio Pappano.
ROMA, 27 gennaio 2017 – I festeggiamenti per il duecentosessantunesimo anniversario del genetliaco del compositore più amato di sempre, Wolfgang Amadeus Mozart, prendono vita all’Accademia di Santa Cecilia sotto forma di una serata di gala che vede esibirsi due stars: il maestro Antonio Pappano e Cecilia Bartoli. Pappano nel presentare il birthday party asserisce di aver voluto regalare saggi da diversi momenti creativi del genio mozartiano, sacri e profani, giovanili e senili. La Bartoli si esibisce in arie sacre e profane, di uno dei compositori che ne ha certamente decretato il successo mondiale.
S’inizia dall’Exsultate jubilate K158a (165), mottetto composto a Milano per il sopranista Venanzio Rauzzini, primo uomo che all’epoca cantava nella Lucio Silla. Cecilia Bartoli ci dà subito un assaggio della sua arte: dotata di una voce dal volume certo non importante, dal vibrato strettissimo, ma agile e svelta, la Bartoli è a casa sua nella scrittura sacra eppur spumeggiante dell’Exsultate, eseguendo agilmente le fioriture su «psallant aethera», il dolce recitativo di «exortus est», una bella messa di voce su «consolare affectus» e concludendo con il virtuosistico «Alleluja». Non è – questo è certo – la Bartoli di una volta: lo si sente da tanti piccoli particolari. Ma il carisma e la presenza scenica sono tutt’ora intatte. Magnifici, assolutamente perfetti il Misericordias domini K222 (205a) e l’Ave verum Corpus K618, che attestano lo stato di grazia in cui versa il coro dell’Accademia. Intensi, interpretati con profondo pathos: soprattutto l’Ave verum, «dalla bellezza così elementare quanto misteriosa», assolutamente traboccante del «più puro sentimento religioso» (G. Pestelli, dal programma di sala – da dove citerò d’ora in avanti). Chiudono il primo tempo le Vesperae solennes de confessore K339, il delicatissimo Laudate dominum: qui la parca potenza vocale della Bartoli concede soffusa espressione al brano, facendolo palpitare di intima delicatezza. Il pubblico osanna la sua beniamina, tributandole calorosissimi applausi. La Bartoli, animale da palcoscenico, trasformista (si cambierà diverse volte nel corso della serata), non si eleva però oltre la straordinaria perizia degli orchestrali, del coro e del direttore Pappano, veri protagonisti della serata.
Il secondo tempo presenta il Mozart profano. Forse la meno entusiasmante esecuzione della Bartoli è Ch’io mi scordi di te, dove vari problemi si palesano: stanchezza vocale, interpretazione piatta, disomogeneità fra i registri e problemi negli acuti (troppo stretti e striduli) nella parte finale. L’orchestra, guidata da Pappano al pianoforte, suona divinamente. Quanto suoni bene l’orchestra dell’Accademia, del resto, lo dimostra senz’ombra di dubbio l’esecuzione della Sinfonia n. 31 “Parigi” in re maggiore K267 (300a), la cui anima francese emerge con smagliante freschezza dai frizzi, dai guizzi neoclassici di cui è adornata una scrittura felicissima in ogni punto: merito ancor di Pappano. Certamente migliore della precedente è l’esecuzione di Chi sa, chi sa qual sia: la Bartoli si sta già preparando al successivo suo cavallo di battaglia. Semplicemente incantevole la resa dell’Andante dal Concerto per flauto, arpa e orchestra in do maggiore K299, dove i due strumenti solisti raggiungono «l’arcadico idillio» di una composizione «aristocratica e sorridente»: è il Mozart amatissimo dal grande pubblico, perfetto nella sua semplicità, che Pappano e i solisti dell’Accademia eseguono magnificamente. La Bartoli rientra: è il momento clou della sua serata, la difficile aria di Sesto da La Clemenza di Tito: «Parto, parto, ma tu ben mio» la vede certamente più concentrata, con un fraseggio più scolpito, ricco di sfumature, ma s’avverte che è al limite, non ha ampi margini di spinta e le fioriture della sezione finale escono un po’ dure nei passaggi, pure arditi e virtuosistici. Il pubblico l’applaude e l’ama più per essere Cecilia Bartoli che non per la sua reale performance nell’hic et nunc: è sacrosanto e meritato, ma si deve pur notare la parabola declinante dell’interprete. Come bis regala l’«Alleluja» dell’Exsultate jubilate e si ritira fra fiori e applausi. Il concerto termina con uno splendido Molto allegro (IV) dalla monumentale Sinfonia n. 41“Jupiter” in do maggiore K551, l’ultima sinfonia di Mozart, che Pappano interpreta con piglio neoclassico, squadrando linee sonore pulite, granitiche eppur così caldamente umane.
Foto: Riccardo Musacchio & Flavio Ianniello