Das Unbehagen in der Seele
di Andrea R. G. Pedrotti
In un umido pomeriggio veneziano, il disagio dell'anima viene trattato da tre compositori: Kerschbaumer lo introduce, Bloch lo affronta, Schumann lo palesa. Gran successo da parte del folto pubblico per il violoncellista Jan Vogler e il direttore Omer Meir Wellber, che guida i complessi della Fenice con tecnica inappuntabile e straordinaria profondità intellettuale.
VENEZIA, 4 febbraio 2017 - Nel piovoso pomeriggio di sabato, al Gran Teatro la Fenice di Venezia, abbiamo avuto il piacere di ascoltare un concerto di altissima levatura tecnica e artistica.
Tre brani con un unico filo conduttore, ossia quella particolare vibrazione di tormentato disagio che agita la nevrosi latente in ognuno di noi. Come circa un anno fa nello stesso periodo [leggi la recensione], è una nuova partitura ad aprire il concerto: nel 2016 si raccontò di uno “sciame interiore”, mentre oggi il titolo appare assai meno immediato, ossia Minu. Questa nuova commissione, affidata al compositore Hannes Kerschbaumer, e inquadrata nel progetto “Nuova musica alla Fenice” realizzato con il sostegno della Fondazione Amici della Fenice e lo speciale contributo di Béatrice Rosenberg, è corretta prosecuzione di ciò che ascoltammo un anno fa. Non più Bruckner e Mozart, ma Bloch e Schumann a rappresentare l'interiorità in una forma più ordinata e desiderosa di conoscienza e autoscienza.
Il lavoro è pregevole, ben orchestrato: interessante l'inizio, soffuso e impercettibile (complimenti al pubblico della Fenice che ha dimostrato attenzione fin dalle prime battute, quasi sussurrate). La vibrazione dei violini e dinamiche simili (ma inimitabili) a quelle di Stravinskij sono coinvolgenti e non rinunciano a spunti melodici, affidati a un organico ben più nutrito, a paragone di quelli che normalmente si riscontrano per la musica contemporanea, tanto da non richiedere particolari cambi sul palcoscenico, prima del brano successivo.
Dopo un brevissimo assestamento che consentisse l'ingresso del solista (il violoncellista Jan Vogler), è giunta l'ora di ascoltare Schelomo Rapsodia ebraica per violoncello e orchestra di Ernest Bloch. Un brano raro, che abbiamo avuto la fortuna di ascoltare già una volta, con gli stessi interpreti, nel 2015, presso il teatro Filarmonico di Verona [leggi la recensione]. Qui a salire in cattedra sono la tecnica musicale e la profondità intellettuale del direttore, Omer Meir Wellber. Il violoncello di Jan Vogler è Schelomo (il nome e ebraico di Salomone) che narra i salmi, non voce diretta di un'entità trascendente, ma espressione di saggezza e ragionamento direttamente ispirati dalla forza creatriche dell'universo che si fa simile e piccola nella capacità di formulare un pensiero in ogni uomo e in ogni donna. Il salmo è il violoncello, al quale risponde risponde un'orchestra magistralmente guidata da Meir Wellber, il quale è capace di ottenere impareggiabile purezza di suono dai professori, ma al contempo esalta la molteplicità di significati e li riordina nella linea interpretativa della sua eccellente linea musicale. C'è molto in questa rapsodia: i fiati evocano il dubbio e il mistero delle sonorità ebraiche, che ebbero genesi nel medio-oriente, fino a diffondersi per tutta l'area indoeuropea, assorbendone la cultura con abilità tale da mantener intatta la propria identità. Le percussioni rispondono e accentuano l'intensità del dubbio, del tormento e del disagio, placati solo dalla saggezza dei Salmi pronunziati dal violoncello. In svariate sequenze Wellber palesa ancora una volta l'abilità nel valorizzare tutti gli aspetti della scrittura di Bloch, esaltando il disagio dell'anima attraverso le vibrazioni dei violini, portate all'eccesso dallo stimolo degli ottoni. Un'altra cosa stupisce della concertazione, ossia l'uso delle pause; come quelle che Gustav Mahler segnava in partitura, esse hanno importanza eguale all'intera scrittura musicale. All'incirca a tre quarti del brano i bassi dell'orchestra sembrano chiamare l'apoteosi della tensione, che pare stia per esplodere nel fermento delle percussioni, ma qui una pausa di imperfettibile durata precede il fermento orchestrale, trasformando la tensione, senza farla scemare, perché sono ancora i bassi a tornare prepotenti, fino a calare nella pacatezza, una pacatezza irrisolta, perché altro non è che il grido d'aiuto alla voce di Salomone, quasi salutata con sollievo dagli altri archi. Tutto si conclude senza una conclusione, poiché domanda e ragionamento sono la vita, la soluzione è la morte. Bravissimo Jan Vogler e splendida l'orchestra.
Fra grandi applausi, e prima della pausa, il violoncellista tedesco (tra l'altro anche sovrintendente del Festival di Dresda e di Moritzburg) ha voluto ringraziare il pubblico con un bis dedicato a Johann Sebastian Bach.
Dopo una breve pausa, prosegue il concerto con l'ottima scelta di eseguire la Sinfonia n. 4 in Re minore Op.120 di Robert Schumann, nella versione di Gustav Mahler. Schumann palesava una notevole solennità nelle sue composizioni, quasi un apparente ottimismo, caratteristica che lo differenziava, per esempio, da Schubert. Schubert raccontava la morte, Schumann, no, ma fu egli a decidere di suicidarsi, dopo aver coronato il suo sogno d'amore, a riprova di un disagio molto più profondo. La sua musica, in realtà è ricerca di vita: chi cerca la morte, generalmente non ha bisogno di raccontarla, perché non la teme. Mahler era l'autore ideale per relazionarsi con questa sinfonia e rielaborarla, poiché egli indagava la consapevolezza di una vita alla ricerca di una serenità che non avrebbe mai trovato. Mahler conferisce alla sinfonia quel gran velo di umanità e l'abilità di Wellber nel guidare, in amalgama perfetta, tutte le sezioni dell'orchestra, consente di apprezzare in tutti dettagli celati fra le cinque righe del pentagramma. Eccellente il primo movimento Ziemlich langsam. Lebhaft (Un poco lento -Vivace), con l'ampiezza dei violini e le variazioni di tonalità, passaggio da Re minore a Re maggiore, a palesare un disagio che il direttore rende percepibile alla sensibilità degli astanti. Il secondo movimento Romance - Ziemlich langsam (Romanza un poco lento) è denso per il senso del dubbio in esso contenuto, ma mai di dubbi che possano anticipare la fine, anche se un velo di melanconia pare trasparire. Non è tristezza negativa, ma trasognata, taluni passaggi potrebbero avere un'idea funebre, ma sono privi di disperazione. Questa linea musicale esalta lo stile e la personalità dell'autore, grazie a Mahler e Wellber. Da notare ancora una volta l'alternanza di modo, che da minore si fa maggiore, sino a tornare minore. Il direttore, nuovamente, è magistrale nel gestire le pause e il senso di serenità si fa egualmente irrequieto, a riprova della piena consapevolezza del significato complessivo della sinfonia, in una lettura che va molto oltre la mera esecuzione. Ottimo come i due precedenti, sia per interpretazione, sia per tecnica, anche il terzo movimento Scherzo. Lebhaft (scherzo vivace) in Re minore.
Bellissimo, infine, il quarto movimento Langsam (lento) Lebhaft (vivace), nel quale definitivamente il minore si fa maggiore. Schumann ha trovato la sua soluzione, quella che Bloch non riscontra mai, Schumann pubblica la sua ultima sinfonia, Schumann è sereno finalmente, Schumann tenta il suicidio il 27 febbraio 1854, un anno dopo la stampa di questa sinfonia.
Al termine grandissimo successo per tutti gli interpreti, per un'orchestra in forma eccellente e uno dei migliori direttori d'orchestra al mondo.