L'imperatrice e la zarina
di Roberta Pedrotti
Martha Argerich e la Filarmonica di S. Pietroburgo incantano il Regio di Parma.
PARMA, 5 febbraio 2017 - Quale mai sarà l’elisir d’eterna giovinezza scoperto da Martha Argerich? Settantacinque anni che non sono un mistero, già ufficialmente festeggiati ma che si dissolvono come per magia man mano che il braccio s’approssima alla tastiera, finché le dita non paiono quelle di una ragazzina. E che ragazzina! Temperamentosa, talentuosissima, rapida, lieve, lucida, energica, fiera, elegante… con la maturità artistica e il dominio tecnico di decenni di vita e carriera. Sembra di dover sempre ripetere le stesse cose, ma lei riesce a non trasformarle in banalità regalandoci lo stupore di un ascolto che è sempre come il primo, perfino quando torna, per l’ennesima volta, a un amatissimo cavallo di battaglia come il Terzo concerto di Prokof’ev. La partitura non ha più segreti per lei, la vive in ogni respiro, e può concedersi il lusso di riscoprirla in una continua poesia, con il sorriso sulle labbra. Tutte le difficoltà sono superate in un battito d’ala, il problema tecnico e virtuosistico sembra non potersi nemmeno porre, mentre la madreperla unica del suono Argerich risplende ora in una poesia onirica, traslucida, ora in un lirismo più intenso e patetico, ora fiammeggiando brillante, ora disegnando geometrie, canti e speculazioni. Senza che si avverta mai la soluzione di continuità fra le mille esattissime sfumature del suo fraseggio, della sua musicalità così prepotentemente personale e insieme così sciolta, chiara, ammaliante. Ancora sorridente, di una serenità che può esser pari solo alla sua profondità d’artista, Martha torna fra le acclamazioni per accarezzare ancora il piano, questa volta con Widmung di Schumann nella versione di Liszt. Suonato da par suo, non c’è quasi bisogno di dirlo.
La Filarmonica di San Pietroburgo è la compagna di viaggio più splendida che si possa immaginare: l’imperatrice del pianofrote va a braccetto con la zarina delle orchestre e il gioiello intarsiato in avorio ed ebano è incastonato nella magnificenza di un perfetto organismo musicale, che respira all’unisono, in cui ogni sezione sembra suonare come un sol uomo con tutta la ricchezza della collettività. Di fronte a compagini di questo livello ci si sente come liberati dalla caverna platonica, dolcemente accompagnati all’aria aperta per ammirare in piena luce l’essenza degli archi, dei legni, degli ottoni, delle percussioni. Tutte idee splendenti come una costellazione in un’essenza unica e molteplice. Così la leggiamo anche nei volti stupendi, che raccontano storie e generazioni diverse di un grande paese, come in una raccolta di Puskin, Gogol', Tolstoj.
Il gusto puro dell’orchestra in sé e per sé giustifica appieno anche la scelta in apertura di due episodi dal balletto Spartacus di Chačaturjan, che non sarà il capolavoro del compositore armeno-sovietico, ma permette alla Filarmonica di sfoderare di fronte alla nostra ammirazione l’esotismo languido dell’Adagio di Spartacus - Frigia o quello erotico ed esuberante delle Danze delle Gaditanee - Vittoria di Spartacus. Parimenti, ed è inevitabile, risulta difficile immaginare suonata meglio la Quinta sinfonia di Šostakovič, l’altro piatto forte della serata. Tanta precisione, tanta incisività, tanta coesione si dipanano in una tavolozza dinamica strepitosa tanto per la densità dei pianissimi quanto nel controllo dei fortissimi, s’impongono negli equilibri formali del Moderato iniziale, guizzano nell’Allegretto, sospendono ad arte le atmosfere surreali del Largo, sviluppano gradualmente le tensioni del finale. Al timone di tale favoloso veliero (con un primo violino che nel suo assolo può far sfigurare tanti colleghi solisti), Yuri Temirkanov – già evanescente direttore musicale del Regio, ma di passaggio a Parma con maggior frequenza in vesti indipendenti – gongola orgoglioso e traccia rotte chiare e sicure nelle forme delineate da Šostakovič: ne risulta, in effetti, una lettura bella, sfacciatamente bella, di una bellezza che sovrasta anche la cattiveria, il sarcasmo, la rabbia, l’astrazione di cui è permeato l’apparente ritorno all’ordine dell’autore della scandalosa Lady Macbeth di Mcensk. Si gode indubbiamente, profondamente, anche se magari senza penetrare nel cuore problematico della partitura, così ben mascherato da Šostakovič nell’anima di una collettività complessa, molteplice, unica e unitaria come l’ormai ex Unione Sovietica, come l’orchestra di S. Pietroburgo.
Questa stessa anima si effonde anche nell’offerta, graditissima, del bis: l’Amoroso dalla Cenerentola di Prokof’ev, dolcissimo, incantanto, si scioglie infine nella materia di cui son fatti i sogni, coronato dagli applausi turbinosi di un pubblico folto, attento, rapito.
foto Roberto Ricci