L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Yefim Bronfman

L'intelligenza del suono

 di Roberta Pedrotti

Splendido recital di Yefim Bronfman per la stagione cameristica di Musica Insieme. Il pianista russo-israeliano dipana il suo magistero tecnico sempre al servizio di un'acuta e sottile intelligenza musicale, di un gusto sorvegliato e intrigante.

BOLOGNA, 3 aprile 2017 - Non si scompone, non perde la concentrazione nemmeno per un impercettibile istante: eppure ne avrebbe tutto il diritto, Yefim Bronfman, quando un cellulare squilla imperioso proprio nel bel mezzo della Humoreske di Schumann (resta un mistero come vi sia chi consideri una poltrona in platea preferibile al divano di casa per mangiucchiare, conversare, utilizzare facebook e whatsapp). Nulla sembra poter distrarre il pianista russo-israeliano, che attraversa rapido il palco senza troppe cerimonie, attaccando sempre di lancio non appena sfiorato lo sgabello. L’impellenza non fa rima, tuttavia, con irruenza, e la ricchezza del suo tocco e del suo fraseggio è sempre informata dall’eleganza di un ferreo controllo. Il suono, allora, appare rotondo, suadente, ma più strutturato che rigoglioso: è un suono intrinsecamente pianistico, non un pianoforte-orchestra, o un pianoforte-mondo. La linea della mano destra ha una superficie smaltata, luminosa, un aroma piacevole e avvolgente che ben si sposa a un corpo più speziato e pungente, ai chiaroscuri che emergono nel registro medio grave e nella mano sinistra, per esempio nel moto cupo come il franare di una ghiaia sottile che emerge nella Suite op. 14 di Bartòk. Del legame fra il compositore ungherese e le radici popolari della sua terra si dipana, fra le dita di Bronfman, con un lirismo sottile, a tratti sorprendente per l’intelligenza con cui vive peculiarità strutturali che, altrove, si sarebbero viste piuttosto come spigoli e che non vengono tuttavia banalmente annacquate. Un discorso simile si potrebbe fare per i Tre movimenti da Petruska di Stravinskij, che chiudono il programma ufficiale: l’impulso ritmico non è perentorio al punto da divenire prepotente, ma si fa moto perpetuo guizzante e virtuosistico, giostra la sua autorevolezza nel gioco elastico del polso e delle dita, insinuandosi in tutte le variazioni dinamiche, in un’agogica ficcante quanto mai estremizzata, in un’esuberanza mai fine a sé stessa.

La caratura di fraseggiatore di Bronfman, peraltro, era emersa prepotente proprio in quella Humoreske magnetica, a dispetto di qualsivoglia tranello per la concentrazione: qui il dominio del suono è al servizio sorvegliatissimo di prosa e poesia, in una misura espressiva che non pare curarsi dell’immediatezza dei contrasti, per penetrare con esattissima profondità nel cuore della psiche di Schumann, in un equilibrio delicato quanto ferreo, fatto di sottili gradazioni fra ironie, riflessioni, dolori latenti e nascosti.

Nondimeno, il senso del legato, la musicalità colta e innata di Bronfman emergono quando lascia scivolare una nota nell’altra, con traslucida densità, in un Debussy ancora una volta poetico senz’essere diluito in un latteo languore. Contestualizzato nella Suite bergamasque cui appartiene, lo stesso Clair de lune emerge in tutta la sua pudica bellezza come Shakespeare nella sua completezza sottratta alle citazioni da cioccolatino (o da social network). Un Debussy così meditato e antiretorico è una vera gioia.

Con il medesimo fare diretto, di fronte agli applausi copiosi, Bronfman non si fa pregare: più di mille inchini valgono questi altri sette minuti circa di Schumann. Arabesque, questa volta, nuovamente un cesello eloquentissimo in tutte le sfumature ambigue di un animo artistico tanto complesso.


 

 

 
 
 

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