Yuja ex machina
di Antonino Trotta
L’Unione Musicale di Torino chiude in bellezza la ricchissima stagione concertistica, dopo il forfait di Murray Perahia, con un elettrizzante recital pianistico: tra il luccichìo delle paillettes e lo scintillio dei fuori programma, Yuja Wang illumina l’auditorium “Giovanni Agnelli” coi bagliori della sua Russia.
Torino, 24 Maggio 2018 – Solo il vertiginoso tacco a spillo le procura quasi un ruzzolone ma sulla passerella in bianco e nero sfila con la delicatezza di una farfalla e l’agilità di una gazzella. È oggi una stella della pianismo internazionale: la tecnica prodigiosa, la spiccata musicalità, l’inopinata e inopinabile attenzione all’abito costruiscono un personaggio-artista che, senza detrazioni, migra dalla copertina de L’Ape Musicale a quella di Vogue. Con un provvidenziale recital in sostituzione dell’indisposto Murray Perahia, Yuja Wang chiude tra le esplosioni di un pianismo audace e infuocato la splendida stagione concertistica dell’Unione Musicale di Torino. Costante frequentatrice delle sale da concerto torinesi – senza scartabellare si ricorda il concerto di Ravel con l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai nel 2016 e il recital con Leōnidas Kavakos nel 2017 sempre per l’Unione Musicale – la pianista cinese affronta un programma dedicato, con qualche eccezione, all’impervia letteratura pianistica russa.
C’è grande raffinatezza nella selezione di sette tra studi e preludi di Rachmaninov, proposti in apertura del concerto. Yuja Wang esibisce la volontà di una profonda ricerca esplorativa e si dimostra solerte nell’affrescare le chiaroscurali dipinture di quel vigoroso romanticismo nutrito da cangianti inventive melodiche e ritmiche ma illanguidito da nostalgiche atmosfere evocative. L’attenzione al legato, la pulizia di un fraseggio cristallino, l’ampio ventaglio di colori e la plasticità della sfumature dinamiche sono solo alcune delle peculiarità che lampanti emergono dai momenti di maggiori slancio lirico (studi op.33 no. 3, op.39. no.5, op.39 no.4 e il preludio op.32 no.10). La Wang sa valorizzare in queste occasioni la ricchezza dell’intricata scrittura, evidenziando gli intrecci melodici annidati nella partitura e intavolando, senza leziosità alcuna, dei cantabili di evocativa liquidità. Laddove la prassi esecutiva imposta dai grandi pianisti russi richiede esplosioni volumetriche più eroiche, la Wang sa investire su esitazioni espressive per caricare dall’alto gli opulenti accordi, risolvendo con intelligenza qualche difficoltà nel forte atteso in questo repertorio. Nella restante parte della selezione la Wang sfoga la tecnica infallibile che universalmente l’ha consacrata nell’olimpo dei concertisti. Gli accordi, i salti e le ottave si rincorrono con impressionate fluidità nel preludio op.23 no. 5 e nelle marcianti galoppate le note ribattute sono nette e precise. Gli studi op.39 no.1 e op.33 no.6 sono il terreno d’elezione per l’invidiabile capacità tecnica: le mani serpeggiano senza lasciare scampo alle serrate volate che corrono da un estremo all’altro della tastiera. I ritmi puntati e i pronunciati staccati danno poi sostanza a queste pagine animate da un’atavica vitalità.
La sonata no.10 op.70 è senza alcun dubbio l’episodio di massima suggestione sonora nell’intero concerto. Tra pennellate impressioniste che rimandano a Debussy e le ipnotiche sperimentazioni dell’ultimo Scrjabin (tra i suoi coetanei Scrjabin è l’autore che consolida con più lentezza la sua stilistica compositiva delineando una traiettoria evolutiva che dalle forme chopiniane giovanili punta verso gli espedienti dell’epoca contemporanea) Yuja Wang sa dare risalto al pensiero allucinato celato dalle enigmatiche strutture cicliche e dai patologici trilli di questo lavoro dove viene meno il sostegno di una linea melodica evidente. Il nitore del tocco negli arpeggi e negli abbellimenti, la penuria del pedale di risonanza e l’accentazione delle convulsive agogiche sottolineano con efficacia l’ironica inquietudine che pervade l’intera partitura. La stessa complessità ricorre negli studi no.3, no.9 e no.1 di Ligeti, modello di riferimento dello stile contemporaneo occidentale. La soluzione agli insidiosi cromatismi consiste nel pianismo di “coloratura”, nel meccanicismo algido, nel tecnicismo impeccabile e spettacolare per cui spesso quest’artista è ingiustamente declassata a interprete di caratura minore ma che, in questo frangente, sembra apparire come l’unica ancora di salvezza nelle correnti di queste études dalla rischiosa navigabilità.
Chiude il selvaggio programma la sonata no.8 di Prokofiev, dove tutte le forze della Wang convergono per suggellare una esecuzione di grande prestigio. Ruggisce lo spirito demoniaco dell’ultima sonata di guerra. All’introspezione meditativa del secondo movimento (Andante sognando) che nella semplicità della linea melodica suona come una sonatina di Clementi la Wang contrappone le feroci impennate del primo e dell’ultimo movimento (Andante dolce-Allegro e Vivace), dove la scrittura abbonda di ottave spezzate, arpeggi e virtuosismi vari. La Wang sa interpretare con veracità il sardonico materiale della temibile sonata, dispiegando, specialmente nel Vivace, dinamiche di ampio respiro. Le penombre del mefistofelico finale sono rischiarite dallo scintillìo del tocco brillante, seppur con qualche durezza, ma l’acrobatismo soffoca l’istrionica chiusura della sonata. Peccato.
Sullo scadere del programma, due flussi migratori uguali e opposti si innescano all’Auditorium “Giovanni Agnelli” del lingotto: c’è chi va via subito dopo l’esaurimento dell’elenco riportato sulle note di sala (forse atterriti dall’inesorabile scorrere del timer del parcheggio a pagamento) e chi, bramoso e insaziabile, si avvicina al palcoscenico tributando applausi e ovazioni. Incurante dei fuggitivi e delle polverose liturgie, Yuja Wang regala ben sette bis a quelli che dalla poltrona non si schiodano. Tra i numerosi fuori programma, la Wang esegue alcuni dei suoi cavalli di battaglia: le funamboliche Variazioni su un tema della “Carmen” di Bizet arrangiate da Vladimir Horowitz in cui si lancia con un velo di piaggeria, l’appassionata Romanza senza parole op.67 no.2 di Mendelssohn, Margherita all’arcolaio («Gretchen am Spinnrade») di Schubert trascritta da Liszt e la Melodia centrale dell’Orfeo di Gluck tradotta per pianoforte da Sgambati che porgono ancora la possibilità di godere della malleabilità timbrica di questa giovane pianista, e l’irruento Precipitato dalla sonata no.7 di Prokofiev.
All’insegna della generosità si conclude dunque la sessione concertistica 2017-2018 dell’Unione Musicale di Torino, altrettanto generosa nell’offerta musicale di prim’ordine. Non ci resta che attendere con trepidazione il calcio di inizio della prossima stagione.