L’Italia prima della crisi
di Antonino Trotta
La stagione dell’Associazione Lingotto Musica si chiude all’insegna di un’italianità abbacinante: Riccardo Muti e l’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini sono protagonisti dello strepitoso concerto dedicato al sinfonismo italiano del secondo Ottocento.
Torino, 30 Maggio 2018 – Se nel resto dell’Europa la fecondità del secolo conduce a una ricerca esplorativa che investiga su modalità e architetture di ampia scala, in Italia l’Ottocento è indissolubilmente legato all’egemonia del melodramma nel panorama musicale. Dal belcanto al verismo passando per Verdi, l’oasi peninsulare del dramma cantato sembra seguire un percorso unitario fortemente idiomatico, solo a tratti incline agli altisonanti suggerimenti d’oltralpe. Prima della crisi del sistema tonale, dunque, l’Opera italiana alleva in grembo i tratti di una fisionomia nazionale di cui essa è diventata altare oltre che manifesto. Altare, anzi palcoscenico, sui cui Riccardo Muti e l’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini celebrano, nell’ultimo concerto dell’eccellente stagione intavolata dall’Associazione Lingotto Musica, l’abbacinante italianità attraverso una didascalica silloge operistica che spazzola gli stilemi della seconda metà del secolo.
Nella prima parte del concerto l’impressionante intesa tra il direttore e i complessi dell’orchestra – la Luigi Cherubini è la sua magnifica creatura – è strutturale all’eloquio forbito, intenso, raffinato, magistralmente ricamato nel flessuoso velluto di queste pagine dall’indescrivibile bellezza. Riccardo Muti accarezza il languore del materiale sinfonico e asseconda l’ispirazione di una poetica interpretativa che non si abbandona all’esclusiva esaltazione del melodista ma prende vita dal cuore di un discorso ben più approfondito. Il maestro partenopeo individua la perfetta quadratura sonora tra le varie sezioni, tornisce l’ineccepibile manto orchestrale con colori e sfumature tizianesche, regola alla perfezione gli ingressi strumentali (splendidi i perentori arpeggi in filigrana nell’intermezzo da Cavalleria Rusticana), indirizza gli archi verso la punta o il tallone per ottenere varietà timbriche che convolano con le spiccate intenzioni drammatiche. L’interminabile respiro delle frasi legate, la tensione nelle ampie campate, l’attenta calibrazione delle pause, l’eleganza nell’accentazione istrionica che cresce ed evolve nell’ottica di una profonda consapevolezza teatrale fanno degli intermezzi da Pagliacci, Cavalleria, Manon Lescaut e Fedora episodi emozionali dall’incommensurabile intensità. Laddove vengono meno le suggestioni del contesto – nei due pezzi autonomi del programma, la Contemplazione di Catalani e il Notturno op.70 no.1 di Martucci – Muti sa profondere la stessa vibrante passionalità all’orchestra che si liquefa negli incorporei cantabili di siffatti squarci paradisiaci.
Nei Ballabili e la Sinfonia da I vespri siciliani si ritrovano e si riscoprono lo sguardo oggettivo e la bacchetta ossequiosa di una lettura ermeneutica ma non priva di autentica personalità. Del resto Verdi stesso, in una lettera a Giulio Ricordi, scrive «[…] il male sta che non si eseguisce mai quello che è scritto; […] Io non ammetto, né ai Cantanti, né ai Direttori la facoltà di creare». Muti non si sarà avvalso della facoltà di creare ma i bagliori dell’interprete sopraffino sono indiscutibili e il dettato verdiano è proposto nel nitore della sua scrittura limpida, lineare, coincisa ma densa di segni. L’orchestra è ora leggiadra, luminosa, dal colore argentino, vivida nell’articolazione degli scintillanti argomenti danzanti. Non viene meno la variegata cesellatura dinamica, incastonata in una scansione più rigorosa del tempo che si piega solamente alle prescrizioni agogiche, acuite nella resa delle guizzanti ritmicità dei ballabili. Tra piroette e arabeschi che spingono al limite le possibilità coreografiche e descrittive delle musica brilla la sezione dei fiati, in particolare modo flauti e oboi dei quali si loda la pulizia nel fraseggio e nella sgranatura delle volate. La Cherubini riacquista poi più corpo nella Sinfonia conclusiva, dove la cura del dettaglio tipica di Muti non si perde nell’impetuosità dilagante dell’ouverture: dopo il lugubre, mesto Largo iniziale immerso in un suono pastoso e avvolgente, un lungo climax conduce all’assertivo Prestissimo, quando direttore e orchestra esplodono in un finale epico dalla potenza finora inaudita. Il pubblico, travolto, corona con scroscianti applausi un vero trionfo.
Al termine del concerto il maestro Muti non esegue alcun bis ma conceda il folto pubblico – l’auditorium “Giovanni Agnelli” del Lingotto era pressoché tutto esaurito – con poche ma affilatissime parole. «In questo momento molto particolare, nel nostro paese, questa è l’Italia buona. […] questi ragazzi, bravissimi, che hanno superato i loro esami con lode, meritano il successo in un’Italia che ha ancora i teatri chiusi e che ha chiuso le orchestre», sottolineando in seguito anche il disinteresse delle istituzioni per queste realtà che anche all’estero sublimano la cultura italiana, oggi più che mai minacciata da una prospettiva contraddittoria e inconsistente. Il maestro Muti lascia all’Orchestra del Teatro Regio la bravissima flautista Sara Tenaglia, alla quale rivolgiamo gli auguri di una florida carriera. Questa è l’Italia buona, l’Italia che piace, l’Italia che non dovrebbe conoscere mai crisi.