Aspirare al silenzio
All’inaugurazione della stagione lirica del Teatro La Fenice, Don Carlo è memorabile per la cifra artistica di Myung-Whun Chung più che per quella di Robert Carsen. Nella compagnia di canto Maria Agresta si impone per proprietà stilistica e Alex Esposito dà adito alla più ampia riflessione.
VENEZIA, 7 dicembre 2019 – Con cinque recite dal 24 novembre al 7 dicembre, Don Carlo di Verdi ha inaugurato la stagione lirica del Teatro La Fenice, in un allestimento concepito nel 2016 per l’Opéra di Strasburgo. Scene di Radu Boruzescu, ossia strutture scabre e tenebrose che stringono e opprimono, screziate con virtuosismo dalle luci di Robert Carsen e Peter van Praet. Costumi di Petra Reinhardt, cui va spiegato che nell’abbigliamento ecclesiastico il piviale, la mozzetta e la pianeta non possono essere indossati l’uno sopra l’altro. Regìa, soprattutto, di Carsen stesso. I punti forti della sua lettura hanno sede più nella critica sociale che nell’indagine psicologica: si apprezzano nel quadro dell’autodafé, dove Filippo II indossa abiti pontificali a mo’ di formidabile marionetta della Chiesa, e dove il libero pensiero è zittito nel rogo dei libri e nel colpo alla nuca sui dissidenti; si apprezzano del pari nel gabinetto del re, dove onnipresenti frati gli ingombrano il tavolo con i segni del potere, salvo poi non lasciarvi che un teschio all’ingresso del Grande Inquisitore. Altrove, l’entusiasmo del drammaturgo sabota valore e valori del testo: per esempio quando quel doppiogiochista di Rodrigo viene «fucilato – per finta – ad armi scariche...», recitando la scena di morte commissionatagli dall’Inquisitore, e nel finale riceve da lui la successione al triregno dopo la sbrigativa esecuzione di Filippo II e dell’infante. Le inestricabili relazioni che fanno di Don Carlo un capolavoro di scavo dell’animo umano, senza buoni e senza cattivi, risultano così banalizzate a un complotto, con i criminali da una parte e gli ingenui dall’altra. Quanto detto condiziona in particolare l’esegesi del personaggio di Filippo II, qui ridotto a un’identità meschina, nevrotica, prepotente, borbottante, caricaturale, quando rappresenterebbe invece la tragedia dell’uomo grande costretto ad attuare una volontà aliena dalla propria: tradotto in scala wagneriana, si vede qui Wotan fatto Alberich, Hans Sachs fatto Sixtus Beckmesser, Gurnemanz fatto Klingsor.
Nell’immane parte, da ricevere come un premio, debutta Alex Esposito, con il suo canto timbrato, facile e omogeneo da un capo all’altro della tessitura, con l’intelligenza di non forzare i mezzi nell’imitazione di un maggiore calibro e con una dizione che tiene sempre la parola in primo piano sul corso delle note. Peccato allora che l’idea registica lo inviti, qui e là, a dimenticarsi d’essere un fior di cantante, e a scambiare cioè la misura dell’autorevolezza con l’espediente extramusicale del ringhio, del birignao, dell’istrionico e dell’iperrealistico, secondo uno stereotipo ben noto a chi – come chi scrive e, forse, chi canta o legge – sia cresciuto guardando cartoni animati. Debuttano anche Julian Kim, come Rodrigo più abbondante di volume e smalto che di sottigliezza retorica, e Piero Pretti, come Don Carlo agiato nel registro acuto ma invero monocorde nel porgere. Una benvenuta tradizione di più generose, colorite e opulente risorse vocali penalizza la Principessa Eboli di Veronica Simeoni, intelligente ma affaticata. La regione acuta è divenuta il tallone d’Achille anche di Maria Agresta, che come Elisabetta di Valois vanta però la solidità di quella centrale nonché accento fermo e nobile, e che manda in paradiso con l’infinito, alato fiato onde modula l’ultimo cantabile dell’opera. Complementare a quello di Esposito è il profilo di Marco Spotti come Inquisitore; nel bene e nel meno bene: gli estremi dell’estensione non sono toccati con lo stesso agio; l’emissione è rude, spigolosa, non atta a veicolare sfumature; ma la terribile imponenza del personaggio c’è tutta e, per una volta, risiede in un cantante italiano – con la relativa immediatezza idiomatica – anziché in uno dei tanti di solito fatti venire dall’oriente d’Europa. Un esempio dell’ultimo caso si trova nel brusco Frate di Leonard Bernad, mentre sarà il caso di tenere a mente i nomi di tre giovani i quali, più che promettenti, impreziosiscono il comprimariato: Barbara Massaro come Tebaldo, Matteo Roma come Araldo reale e Gilda Fiume come Voce dal Cielo.
A porre la più rilevante cifra sullo spettacolo è la direzione, memorabile, di Myung-Whun Chung. Essa si affianca con cavalleria al lavoro di Carsen, senza tuttavia cedergli una sola oncia di ragione; segna una tappa di alto significato nel rapporto di direttore musicale effettivo che Chung tiene alla Fenice, dopo le esperienze verdiane di Rigoletto, La traviata, Un ballo in maschera, Macbeth, Simon Boccanegra e Otello; dimostra che il sontuoso Don Carlo del 2017 alla Scala – là presentato nella versione in cinque atti autorizzata nel 1886, con licenza di qualche inserto dalla versione originale del 1867: a Venezia la scelta è invece caduta sulla ben più regolamentare versione in quattro atti del 1884 – era solo un’anticipazione di quanto possibile in laguna. Con l’orchestra e il coro della Fenice, Chung è ormai alla confidenza intima: ne esce un Don Carlo anch’esso nero quanto quello di Carsen, ma dallo spessore descrittivo e psicologico assai più strutturato, mediante un incedere sacrale e dolente, megalitico benché paia aspirare al silenzio, e pulviscoloso nella sepolcrale carica timbrica, come se un velatino tra orchestra e palcoscenico filtri la narrazione e la converta in evocazione. Senz’ombra di calligrafismo, dal violoncello solo, dalla sezione degli ottoni e dalle prime parti dei legni si ascoltano miracoli di toccante espressione e – se si può dire – scenografia musicale. Al primo, muto passaggio in scena di Filippo ed Elisabetta si ha anche la riprova del concertatore erudito, il quale scorpora la fanfare di trombe dall’accompagnamento, mentre tenore e baritono duettano, per segnalare l’ingresso della coppia reale di Spagna: come sapeva fare Carlo Maria Giulini. Non sarà allora un caso il programma del concerto diretto da Chung, alla Fenice, il 5 e 6 dicembre: la Sinfonia n. 9 di Mahler, tra tutte quella dall’eloquio più drammatico e sgretolato, intento com’è al sottile confine fra la vita e la morte; amaramente assecondata nel suo carattere, con un’orchestra veneziana in imperfetto spolvero tecnico ma totale adesione poetica, ha fatto da epilogo ideale a questo Don Carlo.