I grandi contemporanei
di Alberto Ponti
Nella visione del direttore designato dei Berliner due capolavori come la Sinfonia Eroica e Ein Heldenleben, depurati da ogni retorica, si impongono per la materia viva e attuale del contenuto musicale
TORINO, 26 aprile 2019 - Che sia una serata speciale lo si capisce subito. Tra habitué dell'auditorium di via Rossini e facce nuove, la presenza di Kirill Petrenko alla testa dell'orchestra italiana che lo ha visto finora più volte ospite è un evento atteso non solo sotto la Mole. Il mio vicino, vero fan del maestro russo-austriaco, lo segue spesso anche oltre confine: “La scorsa settimana ero a Baden-Baden. Ha eseguito la Quinta di Cajkovskij. Mi creda, con lui i Berliner Philarmoniker suonano in un altro modo. Domani sera sarò di nuovo qui a risentire per intero il concerto”. In una sala calorosissima e affollata ma non esaurita (chi ci vorrà allora per riempirla, se si eccettuano Martha Argerich e Arturo Brachetti?), il direttore è già accolto con un'ovazione prima ancora di salire sul podio. Perché Petrenko, con buona pace di altri eccelsi colleghi, non lascia mai indifferenti: c'è nel suo modo di affrontare qualsiasi repertorio una scintilla, un quid di personale e inconfondibile che è privilegio di pochissimi e alla fine scava un solco nei confronti della maggior parte delle interpretazioni altrui. Egli conosce perfettamente ciò che vuole ottenere: nella gestualità sciolta e avvolgente non compare alcuna forzatura ma il controllo sull'orchestra è impressionante. Non può darsi pagina più nota della Sinfonia in mi bemolle maggiore op. 55 Eroica (1802-04) di Ludwig van Beethoven (1770-1827), eppure il suo ascolto è stato in grado di risvegliare emozioni che si credevano perdute da tempo, relegate alle prime scoperte dell'adolescenza e della giovinezza, all'epoca degli innamoramenti musicali totali e folgoranti. La magia che riesce a compiere Petrenko è quella di imprimere alle partiture un'intensità vivente e animata. Di fronte alla sua Eroica è inutile compiere esplorazioni e confronti nelle profondità della nostra memoria: gli scatti di un Toscanini, lo smalto di un Bernstein, la monumentalità di un Furtwängler. Nulla in lui richiama tentazioni da divo, a parlare è sempre il compositore, lontano dagli stereotipi ingessati del titanismo napoleonico, un Beethoven fremente, gioioso o rabbioso come un contemporaneo toccato nelle corde del sentire più autentico. I due accordi in staccato che aprono l'Allegro con brio dissolvono in cenere oltre duecento anni di distanza, siamo di fronte a un uomo come noi, a un audace discorso sorprendente in attualità come se fosse appena scritto. E' una Terza incalzante ma non frenetica, dalle molteplici vibrazioni dinamiche, accoppiate a una scioltezza naturale nell'accostare i contrasti più accesi senza mai stravolgere l'equilibrio miracoloso dell'insieme. Tra i tanti elementi che si potrebbero citare, la coda del primo movimento rivela all'istante una lettura di livello superiore. Soffermiamoci in breve su ciò che avviene in partitura: tra le figurazioni slanciate ascendenti e discendenti dei legni, marcate crescendo e sforzando, le sincopi dei violini e il tema principale ai bassi si inserisce, tipico sfraghis beethoveniano ripetuto per nove battute alle trombe e ai timpani, dapprima piano e poi anch'esso crescendo, una terzina di crome sull'ultimo terzo seguita da una semiminima in battere e da una pausa sul secondo terzo di ogni misura. E' il segnale inequivocabile che l'immenso primo tempo si avvia alla conclusione ma di norma fatica a essere percepito da subito nel tumulto orchestrale oppure, se evidenziato con troppa foga, produce l'effetto di un accompagnamento monotono e uniforme. Nell'esecuzione torinese l'entrata delle trombe ha invece un sapore cristallino e penetrante che va prendendo forza fino all'apoteosi con una forza irresistibile che non mette in ombra nessun altra linea strumentale. Copiose delizie incantano nel prosieguo, in una visione dall'alto capace di conciliare le ragioni della forma con la bellezza dell'impressione emotiva, ravvivata da sguardi continui e illuminanti su singoli dettagli : la voce dei contrabbassi all'esordio della Marcia funebre, il pulviscolo di suono da cui scaturisce lo Scherzo, la folata impetuosa che introduce il Presto al termine dell'opera.
Anche il Richard Strauss (1864-1949) di Ein Heldenleben op. 40 (1898) pare, sotto la bacchetta di Petrenko, permeato di uno spirito affatto contemporaneo. Dimentichiamoci le etichette facili, l'edonista puro che si diverte a stupire con i prodigi di un'orchestrazione onnipotente, l'intento autobiografico e autocelebrativo di colui che a poco più di trent'anni avverte di essere l'ultimo frutto, sebbene già contaminato di irrequietezze decadentiste, della tradizione romantica tedesca. Il grande poema sinfonico diventa un formidabile banco di prova per saggiare le risorse di una scrittura destinata a tratti a esplodere con asprezze novecentesche o ripiegarsi, con ironia e rimpianto, sul mondo di ieri, irrimediabilmente perduto nel momento in cui viene evocato. La futura guida stabile dei Berliner (a partire dal prossimo agosto) regala quaranta minuti di magistero interpretativo, passando attraverso tutte le sfumature di un brano di enorme complessità tecnica. Poco importa che l'Orchestra Sinfonica Nazionale sia perfettibile in pochi passaggi, soprattutto nel settore degli ottoni: ogni strumento, a cominciare dal primo violino Roberto Ranfaldi, autore di un memorabile assolo nell'episodio Des Helden Gefährtin (La compagna dell'eroe), giù giù fino alle percussioni offre il proprio massimo, con un piglio che lo porta, sotto una direzione carismatica e magnetica, a gettare il cuore e la mente oltre l'ostacolo. La chiara percezione degli intrecci timbrici e armonici, i climax condotti ad altezze straordinarie di icasticità, il rilievo dato alle pause (spesso sottovalutate in Strauss) hanno come risultato esiti assoluti. La pienezza del ritratto dell'eroe, con i fiammeggianti corni all'unisono, la terribile battaglia sono concertate con una capacità di trarre il meglio da un gruppo di oltre cento musicisti. Ma lo scorrere senza enfasi, godendo del fascino di ciascuna nota, conciliando rasserenante sicurezza di sé e filosofica metriotes, dei due quadri finali Das Helden Friedenswerke (Le opere di pace dell'eroe) e Das Helden Weltflucht und Vollendung (Ritiro dal mondo dell'eroe e compimento) sono una prerogativa solo dei direttori che sanno essere artisti di prim'ordine. L'entusiasmo della sala vorrebbe protrarsi all'infinito.