L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

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Gran via-vai di divi al gala rossiniano serale, dove Ádám Fischer ha diretto l’Orchestra del Mozarteum e tenuto per sé gli spazi dell’Ouverture del Guillaume Tell e della Sinfonia della Semiramide: soprattutto lì balza all’orecchio l’antitesi rispetto al gusto italiano e alla lezione di Santa Cecilia, con l’artiglieria di fiati e ottoni sempre metronomicamente fatta brillare sopra gli archi, con fraseggi calcati in modo esasperato e con il fraintendimento di numerosi segni (per esempio i punti coronati, scritti per appoggiarvisi retoricamente, mutati in secche martellate). Lussuosa la lista degli intervenuti: i mezzosoprani Cecilia Bartoli e Vesselina Kasarova; i tenori Javier Camarena, José Carreras e Juan Diego Flórez; i baritoni e bassi Massimo Cavalletti, Carlos Chausson, Alessandro Corbelli, Michele Pertusi e Ruggero Raimondi. E persin fantasiosa quella dei rinunciatari: i soprani Montserrat Caballé e Montserrat Martí; i mezzosoprani Agnes Baltsa e Teresa Berganza; i baritoni e bassi Ildebrando D’Arcangelo, Leo Nucci ed Erwin Schrott. Al momento della somma, poche primedonne, nessun soprano e un certo squilibrio, con tanta improvvisazione e qualche indisciplina (confidando nella leggendaria bonarietà del Cinghiale di Lugo: se la festa fosse stata fatta a Wolfgang Amadé Mozart o Richard Strauss, lo spirito sarebbe stato ben altrimenti compunto).

Rapida rassegna, a partire da un Raimondi logoro e sornione, più che mai ciondolante nel portamento e sarmatico nella dizione, e tuttavia ancora impressionante per imponenza di volume e facilità del registro acuto: «La calunnia è un venticello» dal Barbiere di Siviglia. «Largo al factotum»: ed entra un rossiniano più sedicente che di conclamata fede, Cavalletti, occhieggiando ai frizzi e ai lazzi che la renaissance rossiniana avrebbe già spazzato via da tempo. Bartoli e Flórez si incontrano per la prima volta dal vivo – incredibile dictu –intonando «Tutto è deserto... Amici! ... Un soave non so che» dalla Cenerentola: sono calligrafici entrambi nell’espressione e nelle figurazioni melodiche, ma della più forbita grafia, e sembrano scambiarsi in pubblico segreti di monarchia sul belcanto. Chausson difende anacronisticamente gli abusi del buffo caricato: ammicchi e grevità ovunque, anche se il testo letterario richiederebbe levità e brillantezza. Al polo opposto sta Pertusi, che presenta un pezzo ricercato come «Il mio piano è preparato» dalla Gazza ladra, lo interpreta con tutta l’analisi attoriale del quale è capace e, non compreso da chi grufola tra le perle contentandosi di pane e circensi, incassa solo applausi di stima. Conclude la prima parte del concerto la stretta del Finale I del Barbiere, con Kasarova in Rosina, Camarena in Almaviva, Cavalletti in Figaro, Chausson in Bartolo e Raimondi in Basilio; da vecchia volpe, la Bartoli fa un gesto di cortesia retrocedendo alla parte di Berta, ma acquisisce così anche tutti gli acuti con i quali svettare sulla Rosina di turno.

Seconda parte del concerto ed equivoci stilistici in cornice: la Kasarova, baluardo della rossinianità d’Oltralpe, si esibisce nella sortita d’Arsace dalla Semiramide, «Eccomi alfine in Babilonia ... Ah! quel giorno ognor rammento». Il canto ha splendido velluto, ma la coloratura è sciolta in impertinenti inégalités anziché sgranata nel suo giusto ritmo, mentre la parte en travesti diviene pretesto per un grottesco atteggiarsi maschilmente a ogni costo, tra mille borbottii viriloidi. Nel giusto stile torna invece, con la naturalezza dell’indigena rossiniana, la Bartoli alle prese con la Danza e con il duetto «Per piacere alla signora» dal Turco in Italia. Soprattutto in quest’ultimo, l’accoppiata con Alessandro Corbelli, principe dei buffi italiani per eleganza attoriale e tecnica vocale, dà conto di quale sia la giusta via interpretativa delle opere comiche: nessuna pagliacciata sovrapposta forzatamente al testo, del genere che tanto piace al pubblico non italofono, ma tanta allusione arguta, gioco intorno alla parola, canto rifinito come lo si vorrebbe in un Tancredi o in un Maometto II; si toglie anziché aggiungere: quel che rimane è l’anima di Rossini, e diviene esplosivo allo stato puro.

C’è poi il caso di cronaca: Camarena, interprete della parte di Don Ramiro nella Cenerentola del Festival, non brilla per originalità e presenta anche in concerto l’aria dello stesso personaggio, «Sì, ritrovarla io giuro». La canta tuttavia con tale malìa timbrica, tale duttile modulazione, tale facilità estensiva e tale sfacciataggine virtuosistica da lasciare di stucco il pubblico, da farlo scattare in piedi e da dover concedere a furor di popolo il bis della cabaletta. Una consacrazione e – se si vuol cercare la correlazione tra due fatti – muso lungo di Flórez all’uscita degli artisti. La serata termina in estatica malinconia di fronte a Carreras e al suo ritorno, dopo oltre quarant’anni dalla pionieristica incisione Vanguard, all’aria di Don Giocondo dalla Pietra del paragone, «Oh, come il fosco impetuoso nembo ... Quell’alme pupille»: canto faticoso, emissione esausta, smalto frusto; immagine incanutita, assorta, intimidita; eppure, manco a dirlo, si resta ancora fono-archeologicamente incantati di fronte alle sublimi rovine di uno tra i più bei timbri tenorili mai ascoltati, nella stessa sede dove ancora aleggia l’aura del mentore Karajan. Esperienze tali da trasportare in un presente parallelo, e da non farci più riconoscere il nostro al ritorno sulla terra.


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