L'incantesimo della Valchiria
di Luigi Raso
Die Walküre torna al San Carlo per la terza volta nell'allestimento con la regia di Federico Tiezzi, le scene di Giulio Paolini e i costumi di Giovanna Buzzi. Questa volta, dopo Tate e Valčuha sul podio c'è Dan Ettinger e in un cast d'altissimo livello spicca il Siegmund di Jonas Kaufmann.
NAPOLI, 16 aprile 2023 - Gli annali del San Carlo narrano che Die Walküre, tra le opere che compongono Der Ring des Nibelungen, detiene il primato di opera più rappresentata. Primato comprensibile, perché dei quattro drammi del Ringè indubbiamente quello che possiede una maggiore autonomia drammaturgica; nei fatti, del resto, questo allestimento – firmato per la regia da Federico Tiezzi e vincitore nel 2006 di ben due premi Abbiati, per le scenografie di Giulio Paolini e i costumi di Giovanna Buzzi – al Teatro di San Carlo, negli ultimi diciotto anni, è stato proposto ben tre volte: nel 2005, diretta dal compianto Jeffrey Tate, nel 2019 (qui la recensione: https://www.apemusicale.it/joomla/it/recensioni/48-opera/opera2019/7854-napoli-die-walkuere-16-05-2019) e, infine, stasera. Un record che nessuna opera di Wagner al massimo partenopeo può al momento eguagliare. L’augurio è che, prima o poi, Die Walküre (ri)diventi uno dei quattro tasselli della Tetralogia, da troppe decadi assente a Napoli
Ma se il trascorrere del tempo ci ricorda di non aver visto ancora rappresentato integralmente il Ring al San Carlo, al tempo stesso ci fa apprezzare ancora una volta uno degli allestimenti più eleganti che il teatro abbia prodotto nel primo scorcio del nuovo millennio: il tempo, dunque, non sembra aver intaccato l’elegante atemporalità dell’aspetto scenografico, che ancora oggi appare una riuscita fusione tra architettura e scultura.
Le scene di Giulio Paolini, eleganti nel loro minimalismo ed evocatrici di un’atmosfera astratta, fanno da cornice a un dramma borghese che si svolge all’interno della cerchia di una famiglia dell’800. L’impianto dell’artista concettuale (classe 1940) è imperniato su una gabbia cubica che racchiude il frassino/focolare domestico, macigni vulcanici, cornici che a loro volta racchiudono sezioni di sculture classiche e, infine, il catafalco sul quale Wotan fa addormentare Brünnhilde. Le luci, firmate da Gianni Pollini, e in particolare la cura dei colori dei fondali, contribuiscono ad amplificare la connotazione atemporale dell’allestimento, acuendo la plasticità degli elementi scenografici.
Divisi tra rimandi alla moda borghese ottocentesca e alla mitologia della saga di Wotan e dei Nibelunghi, gli eleganti costumi di Giovanna Buzzi confermano l’originaria sintonia con la scenografia e con il disegno registico, firmato da Federico Tiezzi, e ora ripreso da Francesco Torrigiani.
La regia umanizza il dramma che coinvolge dèi, mortali, eroi, donne e uomini: racconta una storia in cui gli dèi si comportano da uomini, con tutto il naturale corredo di passioni, rancori e conflitti; quindi, gestualità misurata, ben calibrata sulla scarna teatralità dell’opera lontana dai richiami della solennità del Walhalla; la Cavalcata delle Valchirie è risolta concentrandosi sul dolore dei caduti piuttosto che sulla celebrazione dell’eroismo: gli eroi sono rappresentati come feriti in battaglia, deposti su un marmo gelido. Si ha la sensazione che la concezione di Federico Tiezzi faccia attenzione a non sovrapporsi all’impianto scenografico, che quasi abbia timore di offuscare i ‘quadri’ di Giulio Paolini: nel loro interno immette una recitazione sobria, asciutta che arriva a realizzare le distanze fisiche dei protagonisti (significativa quella, iniziale, tra Wotan e Brünnhilde al principio del lungo duetto dell’atto III) sul palcoscenico come corredi iconografici, al servizio della scenografia.
Sul versante musicale, dopo Jeffrey Tate che tenne a battesimo questa produzione e Juraj Valčuha che la diresse nel 2019, questa sera compete a Dan Ettinger, direttore musicale del Teatro di San Carlo, la responsabilità dello spettacolo.
Sin dalla tempesta che apre l’atto I la concertazione di Ettinger appare incalzante e travolgente: molto apprezzato il suono ruvido che iniziale, introduzione sonora quanto mai appropriata allo squallore della casa di Sieglinde e Hunding.
Pur non rinunciando talora a sonorità eccessivamente truculente, la direzione Di Ettinger ha il merito di donare fluidità all’opera e di soffermarsi, in qualche punto cruciale, sulle finezze strumentali. Ettinger garantisce sempre un ottimo equilibrio tra palcoscenico e ‘golfo mistico’ (stiam parlando di Wagner, e la locuzione ampollosa è appropriata!), tiene unita un’orchestra in eccellente forma – al netto di alcune incertezze, ricorrenti quanto giustificabili in un’opera del genere, degli ottoni –, dal suono molto fendente, deciso, il quale in quell’effetto speciale che è l’incantesimo del fuoco raggiunge il punto strumentale più alto della rappresentazione.
Ma è soprattutto dal cast che provengono le notizie migliori.
Jonas Kaufmann, ormai di casa al San Carlo e beniamino del suo pubblico, è un Siegmund umanissimo, lacerato, introspettivo. Sfoggia una eccellente forma vocale; ma a far emergere la sua interpretazione è in particolare la sua conclamata attitudine a rendere lirico e intenso il canto wagneriano. Tra gli aspetti che fanno di Jonas Kaufmann un artista contemporaneo dalla rara e profonda intelligenza musicale c’è sicuramente quello di aver incanalato la visione della vocalità wagneriana nel solco di quella liricizzata tracciata più di mezzo secolo fa da Jon Vickers. E stasera si apprezza il Siegmund del tenore bavarese per la raffinatezza del suo canto legato, sfumato, nobile e al tempo stesso umanissimo, pur senza rinunciare a sfoggiare una vocalità piena e virile sulla frase “Wälse! Wälse!”, tenuta con voce piena, timbrata e proiettatissima. L’incipit del duetto conclusivo dell’atto I è una carezza musicale che Siegmund rivolge alla sorella-amante Sieglinde: il prosieguo, un crescendo di intensità, scavo nel fraseggio in una delle pagine più belle dell’intero repertorio wagneriano (e non solo). Ancor più vivi si percepiscono l’intelligenza dell’artista e la visione interpretativa di Siegmund – umana, troppo umana, grondante di irredimibile infelicità – nella sublime scena dell’annuncio di morte di Brünnhilde: qui Jonas Kaufmann è perfetto nel mettere al servizio dell’espressività la sua personalissima – ed eterodossa – tecnica vocale: il suo è un canto è legato, sospeso, oscillante tra smorzature e accenti arroventati. Una meraviglia.
Ma le gioie vocali in questa Walküre non si esauriscono con il divo Jonas Kaufmann.Scopriamole seguendo il rigoroso ordine di locandina.
John Relyea è Hunding, perfetto per peso e caratura vocale, per il colore scuro del timbro e l’espressione torva e accigliata della sua interpretazione.
Christopher Maltman è Wotan, dal bel timbro e, soprattutto, magnifico per la sfaccettata interpretazione del personaggio: grazie a una raffinata tecnica di emissione farcisce la scrittura di mezzevoci, forti disperati, indaga nella profondità il testo. Nel lungo monologo di Wotan dell’atto II – momento cruciale dell’intero Ring, laddove Richard Wagner quasi riassume quanto accaduto prima e preannuncia ciò che accadrà - a giganteggiare è la personalità artistica di Maltman; altrettanto analitico e raffinato cesellatore si dimostra nello struggente “Addio di Wotan” a Brünnhilde. E qui il lavoro di cesello, il magnifico legato, l’acume interpretativo che si sofferma su ogni singola parola, sostenuti dal manto orchestrale che gli stende Dan Ettinger, rendono l’addio di un padre alla figlia prediletta malinconico, intensamente suggestivo e doloroso nella suo processo di umanizzazione.
Ottima per corposità e organizzazione vocale la Siegliende di Vida Miknevičiūtė: oltre che per la solidità, il notevole peso specifico, il bel timbro brunito, il soprano lituano s’impone per il carisma della personalità artistica e per lo scavo interpretativo: la sua è una Sieglinde palpitante, mai del tutto domata dagli eventi.
Più articolato il discorso sulla Brünnhilde di Okka von der Damerau: possedendo una vocalità propriamente più mezzosopranile che sopranile, sconta, sin dal “Hojotoho! Hojotoho!” in apertura dell’atto II, notevoli difficoltà nel registro acuto; tuttavia, all’opposto, vanta un registro centrale e grave ricchi di armonici, sempre a fuoco, possenti per volume e ben proiettati. L’interprete è vibrante, in perfetta sintonia con il Wotan di Christopher Maltman e il Siegmund di Jonas Kaufmann.
Quella di Fricka è parte ingrata: un lungo duetto con il marito Wotan, privo però della qualità musicale di altre pagine di Walküre; tuttavia Varduhi Abrahamyan è molto brava a far emergere il lato della moglie costantemente tradita e offesa, un po’ petulante e severa custode della morale matrimoniale. La sua vocalità tradisce a volte qualche velatura e affaticamento, ma nel complesso l’interpretazione del mezzosoprano armeno è ben delineata e riuscita.
Le restanti otto valchirie (Gerhilde, Ortlinde, Waltraute, Schwertleite, Helmvige, Seigrune, Grimgerde, Rossweisse, rispettivamente Nina-Maria Fischer, Miriam Clark, Margarita Gritskova, Christel Loetzsch, Regine Hangler, Julia Rutigliano, Edna Prochnik, Marie-Luise Dreßen) purtroppo non si distinguono nei loro interventi per la precisione dell’intonazione.
Alla termine dello spettacolo, della durata complessiva prossima alle cinque ore, la sala del Teatro San Carlo, gremita come se in scena vi fossero dati Rigoletto,Tosca o La traviata, tributa un meritatissimo successo a tutti gli artisti, applaudendoli calorosamente e per molti minuti. Die Walküre e “l’incantesimo del fuoco” sono riuscite a inibire persino la consueta e irritante corsa al primo taxi disponibile!