L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il valore della musica

di Roberta Pedrotti

I vincitori del primo concorso Tebaldi Gigli Corelli si esibiscono a Pesaro in un galà che permette di apprezzare le qualità dei premiati e soprattutto della prima classificata Ekaterine Buachidze. Valore aggiunto non secondario è la presenza dell'Orchestra Filarmonica Marchigiana diretta in maniera esemplare da Alessandro Bonato.

PESARO, 17 marzo 2024 - È Ekaterine Buachidze a sbaragliare tutti. A soli ventun'anni, il mezzosoprano georgiano – ma formato anche nella Fabbrica dell'Opera di Roma – è una di quelle artiste che subito fanno capire di essere delle fuoriclasse: il portamento con cui guadagna il palco, la qualità della voce, la musicalità e l'intenzione sono quelli di chi ha un grande futuro davanti a sé. Sembrano frasi fatte, ma per chi abbia seguito anche solo una delle fasi del primo concorso Tebaldi Gigli Corelli non c'è dubbio. Erano centosessanta i candidati alla manifestazione che, eletta la trinità eponima del soprano pesarese e dei tenori di Recanati e Ancona, sembra voler miracolosamente riunire e coordinare le istituzioni musicali di una regione, le Marche, da sempre ricchissima di teatri e di voci. Il dominio pontificio su un territorio rurale ha favorito senz'altro la formazione di illustri castrati, come il Cusanino, Crescentini, Pacchiarotti e Mancini; da lì si arriva ai giorni nostri, passando anche da un recente passato che, oltre ai tre numi tutelari del concorso, poteva contare pure su nomi fra cui Anita Cerquetti da Montecosaro e il sommo Sesto Bruscantini da Civitanova.

Anche nel nome di questa cospicua eredità, della quale già si individua qualche potenziale prosecutore, si è radunata una giuria presieduta dal sovrintendente della Scala Dominique Meyer e composta dai rappresentanti di festival e istituzioni liriche locali: Ernesto Palacio, sovrintendente del Rossini Opera Festival; Enrico Lombardi in rappresentanza della Fondazione Rete Lirica delle Marche; Vincenzo de Vivo, direttore artistico della Fondazione Teatro delle Muse; Paolo Gavazzeni, direttore artistico dell’Associazione Arena Sferisterio; Riccardo Serenelli, direttore artistico Associazione VillaInCanto – Gigli Opera Festival; Gianni Tangucci, per la Fondazione Pergolesi Spontini e Ludovico Bramanti, docente del Conservatorio Rossini.

Non hanno dubbi, è chiaro, nel decretare il primo premio assoluto per Buachidze, che si esibisce così in apertura e chiusura del concerto dei vincitori domenica 17 marzo, evento a ingresso gratuito nel Teatro Rossini di Pesaro. Si presenta con la sortita di Adalgisa, la pagina che nella parte meglio si addice a un mezzosoprano, e subito colpisce per la morbidezza dell'emissione, per una naturale e piacevole brunitura che ben asseconda la predisposizione a un fraseggio sensibile e ben articolato. Il gran finale è con il rondò di Cenerentola e dopo il trepido soliloquio iniziale abbiamo l'espressione nobile della tenerezza e lo scintillìo della coloratura trionfante: Buachidze dimostra non solo un buon controllo della scrittura rossiniana, ma anche un innato buon gusto, e un'autorevolezza naturale, oltre a un'ammirevole omogeneità e facilità nell'estensione. Quel che manca è solo quello che il tempo non può ancora averle dato: l'esperienza, la ricerca infinita che si sviluppa nell'arco di una carriera, un pizzico di familiarità in più con la lingua italiana (già assai buona). Di certo, le premesse per nutrire le migliori speranze ci sono tutte.

Con lei sul podio troviamo due ex aequo: al terzo posto il tenore Hyun-Seo Park, che nella “Gelida manina” mette in luce una luminosa voce lirica, e il soprano Mor Moran, vocalità limpida e interpretazione assai sensibile in “Ah, non credea mirarti” e relativa cabaletta; il secondo posto è condiviso invece dal basso baritono Christian Pursell - che pare aver molto colpito nelle fasi precedenti per le sue doti di agilità, mentre l'arguzia di Leporello nell'aria del Catalogo oggi fa notare che debba ancora meglio approfondire le sfumature della lingua di Da Ponte - e dal soprano Yerang Park, che unisce un'ottima preparazione tecnica a un'interpretazione calibrata e consapevole nella pazzia di Lucia di Lammermoor.

Gli altri finalisti erano il tenore Gyungmin Daniel Gwon, il baritono Hwapyeong Gwon, il soprano Anastasia Michailidi, il baritono Sung Hwan Park, il basso baritono Valerio Morelli.

Valore aggiunto di questo Galà dei premiati è stato senz'altro la presenza dell'Orchestra Filarmonica Marchigiana diretta da Alessandro Bonato in una sorta di gradita coda operistica della serie di concerti dei giorni precedenti [leggi la recensione]. Quando si conclude un concorso, la presenza dell'orchestra sottolinea sempre l'importanza dell'evento, ma comporta anche dei rischi per l'inevitabile minimo preavviso nella definizione del programma, la scarsità di prove, l'incontro in tempi stretti fra direttori e cantanti con limitata esperienza e molta emozione. Qui, invece, si sono giocate le carte giuste per non avere solo una vetrina di giovani voci, ma un concerto di alto livello. Tre sono stati i momenti che hanno visto Bonato e l'orchestra protagonisti, e sono stati tutti eccellenti.

La Sinfonia di Nabucco è ormai un cavallo di battaglia del direttore veronese, che intende alla perfezione la nobiltà del sentire verdiano compenetrata nella sua urgenza drammatica, che risulta travolgente proprio perché alla frase è sempre concesso il giusto tempo e respiro per esprimersi con accenti mordenti, nostalgici o solenni, sempre vivi. L'intermezzo di Manon Lescaut è un graditissimo omaggio al centenario pucciniano, di cui non teme di esprimere il groviglio passionale, le ferite sanguinanti, la spossatezza disperata, un senso di tenera dolcezza. Non li teme, perché li domina: non cade vittima della volontà di dover dimostrare alcunché, di dover sbandierare il pathos o viceversa scarnificarlo per un partito preso. Anche qui, la sensibilità per un andamento dinamico e agogico modellato sul testo, la nobile sincerità e il buon gusto fanno sì che tutta la gamma di sfumature e contrasti possa raccogliersi in un'apparente semplicità fatta, invece, di abili ritenuti, piccoli rubati, di una tensione tutta interiore, tesa come un arco e pure poeticamente sfumata. Essendo, però, a Pesaro, il posto d'onore spetta alla sinfonia della Gazza ladra, che, guardacaso, segnò proprio il debutto di Bonato nel cartellone estivo del Rof nel 2019 [leggi la recensione]. Una delle ouverture più popolari al mondo, garanzia di successo e facile effetto, ci appare sottratta a ogni cliché, come ascoltata per la prima volta e non solo per la guizzante definizione dei temi, per l'abilità nel suggerire i ritmi di danza, di calibrare il crescendo e giostrare ad arte le piccole variazioni, le pause e i rimbalzi delle frasi fra timbri diversi. Ci appare nuova e ammaliante perché tutto questo anima il meccanismo esaltandolo e dà della sinfonia l'esatta misura non di brillante passatempo, bensì di parte integrante di quel grande capolavoro che è La gazza ladra nella sua interezza. Basterebbe l'ingresso dei tromboni prima della ripresa finale verso il crescendo per dirci – proprio come la risposta degli ottoni al “vivere ancor vogl'io” di Violetta nel terzo atto della Traviata – che in quest'opera su una protagonista innocente grava una condanna a morte, che in questa pagina già si riverberano situazioni e affetti del dramma a venire. Prendere così sul serio, giustamente, la sinfonia rossiniana nel suo contesto teatrale e storico, peraltro, non significa certo appesantirla in una meditazione seriosa: anzi, la cura del significato di ogni dettaglio la rende più che mai vivida e coinvolgente, non priva di sinuose morbidezze e leggiadra ironia.

La cura prestata alle pagine strumentali non sopravanza, comunque, quella per le pagine cantate, in cui l'orchestra e il direttore non sono passivi accompagnatori ma attivi complici, a ricordare che nell'opera la concertazione deve far proprie le ragioni del canto, ma non annullarsi in totale sottomissione. “Sgombra è la sacra selva” necessita della sintonia fra il raccoglimento di Adalgisa e la solitudine della natura che la circonda, per esempio, e qui senz'altro la trova. Così si può dire di tutte le arie in programma, che non suonano solo come esibizioni isolate, ma come momenti musicali e drammatici compiuti: sia la caleidoscopica rassegna di Leporello o l'allucinato monologo di Lucia (con il flautista Francesco Chirivì che guadagna il proscenio accanto al soprano), sia il pianto tenero di Amina e la sua gioia improvvisa, sia il ricordo delle pene passate e il tripudio pirotecnico di Cenerentola, la bacchetta e l'orchestra sono sempre presenti al testo, al senso di quel che si canta, sostegno partecipe per le voci. In tal senso, perita una menzione particolare la capacità di assimilare il tessuto strumentale al canto di conversazione, ampliandolo senza sovrastarlo nella “Gelida manina”, quando accompagna l'entusiasmo crescente di Rodolfo fino al Do della “speranza”, che arriva allora naturalissimo ed espressivo, per poi richiudersi delicata tornando a “Or che mi conoscete...”. Far musica, e far teatro musicale, può essere il modo migliore per valorizzare i cantanti; talvolta chi pensa sia meglio accompagnare senza preoccuparsi d'altro e lasciar carta bianca alle voci non fa né il loro interesse né tantomeno quello dell'opera. Per fortuna questo primo concorso Tebaldi Gigli Corelli si è concluso affermando proprio che l'importante è far musica insieme, non mettersi in mostra.


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