Correndo per Siviglia
di Roberta Pedrotti
La ripresa del fortunato allestimento di Pierluigi Pizzi del Barbiere di Siviglia ha come punti di forza l'esperienza di Michele Pertusi e Carlo Lepore, ma sconta la bacchetta forsennata di Lorenzo Passerini.
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PESARO, 10 agosto 2024 - Per festeggiare il quarantacinquesimo compleanno del Rossini Opera Festival e l'anno di Pesaro capitale italiana della cultura il cartellone si arricchisce e sono quattro le produzioni operistiche principali invece delle solite tre. La scelta è ben ponderata: due buffe e due serie, per le prime la più sfortunata e quella più celebre, per le seconde due titoli del 1819 diversissimi per stile e carattere, fra le buffe la prima opera a entrare stabilmente nel repertorio senza mai uscirne e fra le serie la grande assente dai cartelloni per quasi due secoli. Insomma, un bel poker d'assi per offrire in quattro giorni una panoramica significativa del teatro rossiniano. Bisogna, però, anche considerare che la presenza in seno al Festival di un titolo iperesposto in tutti i cartelloni mondiali qual è Il barbiere di Siviglia richiederebbe crismi d'eccezionalità che qui non è stato facile ravvisare.
La compagnia di canto tende a rispecchiare i rapporti anagrafici del libretto e per i personaggi più maturi abbiamo artisti di più lungo corso, mentre i giovani sono affidati a nomi venuti alla ribalta più di recente. Cosa potremmo aggiungere ora alle lodi già spese nel tempo per Michele Pertusi? Il suo Don Basilio è sempre un cameo d'alta classe che s'impone ad ogni frase (nel secondo atto basta il suo “Servitor di tutti quanti” a dare una positiva scossa). Parimenti, Carlo Lepore può definirsi il Bartolo di riferimento per qualità e assiduità e non c'è recitativo che non sia soppesato con abile intenzione attoriale. Già Berta a Pesaro nel 1997, anche Patrizia Bicciré può vantare con la sua parte una lunga confidenza, né è già da meno il mercuriale Fiorello (e Uffiziale) di William Corrò. Una serie di certezze che non concede molto spazio a sorprese al di là del piacere di ritrovare amati artisti.
La nuova generazione, invece, schiera qualche perplessità, in primis nel tenore Jack Swanson, gradevole nel registro centro grave, attento nella prima parte del rondò ad articolare come è scritta la coloratura sulle parole “di tanta crudeltà” (passaggio che anche Flórez usa semplificare), ma troppo spesso messo in difficoltà da terzine e altri passaggi d'agilità che perdono appoggio e nitore, da tentativi di sfumare che sfociano nel falsetto, da acuti tecnicamente non risolti. Pochi mesi fa, a Parma (leggi la recensione), avevano dato adito a perplessità nelle parti di Figaro e Rosina Andrzej Filończyk e Maria Kataeva. Oggi le cose vanno molto meglio, lasciando intendere che l'idea di essere a Pesaro abbia destato opportuni scrupoli nella cura della linea di canto. Si tratta di due voci d'indubbio impatto teatrale e di temperamenti spavaldi che corrono il rischio di trascendere e, al pari del tenore, non sono aiutati dalle scelte del podio, di fronte alle quali perlomeno i più esperti appaiono maggiormente corazzati.
Sessantun anni separano la nascita del regista da quella del direttore, ma sappiamo bene, ormai, che Pierluigi Pizzi combina i suoi decenni d'esperienza con lo spirito e l'energia di un ragazzino. Il suo allestimento del Barbiere non sembra poter invecchiare nell'impianto, con la pura eleganza e leggerezza della scena e dei costumi, mentre il gioco teatrale non sempre ritrova nelle riprese la freschezza della prima del 2018 (leggi la recensione), con un cast felicissimo per corrispondenza fra qualità musicali e fisiche e l'ispirata concertazione di Yves Abel (nel 2020, solo per lo streaming, di Michele Spotti, leggi la recensione) a plasmarne il ritmo. Oggi, invece è proprio il passo teatrale a faticare, spinto al parossismo della velocità da Lorenzo Passerini. Questi spinge subito il pedale dell'acceleratore come se fosse la chiave dell'energia rossiniana. Non è così, sia perché il carattere della musica non si misura in tacche di metronomo, sia perché questa perpetua corsa a perdifiato, con rare ed eccessive stasi, ottiene proprio l'effetto contrario di una monotonia greve, priva di respiro, colori e fraseggio, in cui non c'è tempo per curare i dettagli e tutto si riduce a un ritmo convulso che non giova né alle voci né all'orchestra (onore alla Sinfonica G. Rossini, che fa il possibile per reggere i tempi di Passerini). Benché la velocità dal barocco al Belcanto sembri andare assai di moda, non è la formula del successo e quando si ritiene di avvicinarsi ai limiti bisognerebbe farne percepire il senso in un discorso più sfumato e articolato, come hanno dimostrato nelle sere precedenti Mariotti e Spotti, non esenti da accelerazioni anche estreme ma con ben altro costrutto.
Alla fine gli applausi giungono comunque generosi per tutti (citiamo anche l'Ambrogio di Armando Ceccon e il coro del Teatro Ventidio Basso preparato da Giovanni Farina): gli elementi di valore non sono mancati, a partire da Pertusi e Lepore, e per il resto c'è la forza intrinseca di un'opera che ha resistito imperterrita nei cartelloni per oltre duecento anni.