L’Ape musicale

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Varduhi Abrahamyan

Una storia d’amore e di morte

Intervista a Calixto Bieito

di Pablo Meléndez-Haddad

Pablo Meléndez-Haddad: Che cosa significa per un regista, un “creatore”, tornare dopo tanti anni su un titolo sul quale ha già lavorato?

Calixto Bieito: Ha due significati per me: in primo luogo è un viaggio emozionale nel passato e tra le tante persone e i tanti momenti che mi hanno accompagnato quando si è montata la prima Carmen. L’idea iniziale è stata di un inglese, direttore dell’Opera di Maastricht, ormai scomparso, che si chiamava Renie Wright. A lui dedico questa riproposizione. In secondo luogo, significa riscoprire il proprio modo di lavorare negli anni passati e fare una sorta di bilancio. Ad ogni modo, questo spettacolo mi ha sempre accompagnato perché ha avuto repliche quasi annuali. Non mi piace molto essere definito “creatore”, mi evoca qualcosa di religioso che non m’appartiene.

PMH: Questa proposta della Carmen in che cosa è simile e in che cosa è diversa da quella che ha diretto al Festival di Peralada e che ha fatto il giro di mezza Europa?

CB: Come diceva lei, questa versione della Carmen ha fatto il giro di varie capitali d’Europa per più di dieci anni. Essenzialmente lo spettacolo è lo stesso, ma con un’esperienza sedimentata e l’apporto di molti cantanti che hanno dato alla messa in scena molteplici sfumature e accorgimenti.

PMH: L’opera di Bizet è sopravvissuta in due versioni molto differenti: una fedele alla forma dell’opéra-comique, cioè con i numeri musicali uniti da dialoghi parlati; l’altra con i dialoghi adattati e musicati, trasformati in recitativi da Ernest Guiraud. Quale ha scelto di interpretare? Perché? In questa decisione lei ha avuto un ruolo o è una questione che riguarda il direttore musicale o la direzione artistica? Lei quale delle due preferisce e perché?

CB: La decisione della versione è stata mia ed è quella che si interpreta sempre, con piccolissimi aggiustamenti. Ho tralasciato i dialoghi parlati dell’originale e i recitativi ideati da Guiraud. Ho sempre creduto che quest’opera non ha bisogno né di testo parlato né di recitativi. Il materiale composto da Bizet è già così incisivo, armonioso e chiaro che un testo parlato o dei recitativi forzati rischierebbero di soffocarlo. Quindi ho fatto la versione al 99% solo con la musica di Bizet.

PMH: Come potrebbe definire quegli impulsi vitali della partitura e del libretto che hanno ispirato la sua drammaturgia?

CB: La Carmen è un’opera sulle emozioni di frontiera, sugli abissi dell’amore, sulla distruzione e la autodistruzione fisica e sentimentale. È un’opera in cui la percezione della morte è molto presente. Parafrasa il passo del Libro dei morti di Canetti dove descrive la presenza della morte che in ogni luogo osserva ciascuno di noi1. Queste sensazioni mi hanno fortemente ispirato e credo che continuino a farlo.

PMH: Qual è stata la genesi della sua proposta? A che cosa si è ispirato in particolare?

CB: Ho sempre bisogno di uno spunto visivo: immagini, fotografie (“la ricerca di un’arte plastica” di Valle-Inclán), paesaggi, edifici, sguardi di persone, colori del cielo… Non so, un’infinità di stimoli da sintetizzare in un dramma, come in uno spazio dedicato al gioco. Ricordo che quando ho iniziato a lavorare alla Carmen mi ossessionava l’idea del Sud. Che cos’era il Sud? Così senza pensarci due volte, un giorno decisi di fare un viaggio con tutta la mia équipe artistica. Andammo a Malaga e da lì girammo tutto il sud dell’Andalusia. Non funzionava. Quindi decidemmo di attraversare lo stretto e visitare il Marocco. Era un bel viaggio, ma fu solo alla fine che cominciò a balenarmi un’idea che poi aprì molte porte alla mia immaginazione. A volte uno spazio fisico, un edificio in rovina per esempio, è lo specchio di uno stato d’animo, di un’emozione. Nella frontiera tra Ceuta e il Marocco, nella parte marocchina, c’era un’enorme piazza dove le macchine dei contrabbandieri, tutte Mercedes degli anni Settanta, si fermavano aspettando di concludere i loro affari. Sono rimasto impressionato vedendo quelle macchine e l’energia della frontiera. Crudele, disperata ed esasperata, tremendamente brutale. Come certe relazioni d’amore. Il sud della Carmen non era tanto lontano. È una frontiera disumana, come quasi tutte le frontiere, che una volta attraversata non permette di fare marcia indietro.

PMH: Che messaggio c’è dietro la sua proposta scenica?

CB: Nessuno. È una storia d’amore e di morte. Se preferisce, una storia anonima di violenza di genere tra un soldato e una donna.

PMH: Di quali elementi formali, teatrali e scenografici, si serve per avvicinare quest’opera ottocentesca al pubblico del XXI secolo?

CB: Elementi che ho visto durante il viaggio di cui parlavo prima. Mercedes, aste con bandiere, una cabina telefonica (che storia d’amore sarebbe senza un telefono!), costumi realistici vissuti e soprattutto la naturalezza dei cantanti.

PMH: Considera la Carmen un’opera francese o piuttosto spagnola?

CB: La Carmen è un’opera francese. Ma come le opere di Shakespeare è diventata una pièce universale, “patrimonio dell’umanità”.

PMH: Cosa pensa del libretto? Cosa cambierebbe se fosse un collaboratore del compositore?

CB: Non mi sono posto il problema. Mi sento molto a mio agio con ciò che ha fatto il compositore. Forse ritoccherei le piccole parti che Bizet ha concesso al comico. Non so, si può rivedere anche questo.

PMH: Considera il personaggio di Carmen un mito ispanico?

CB: No. Considero Carmen un mito universale, come lo sono Lulu, Salome o Elettra. Ovviamente con tutte le sue varianti e differenze… Ma io non posso lavorare pensando ai miti. Devo essere concreto, preciso e diretto.

PMH: Come sarebbe la sua Carmen ideale dal punto di vista fisico e attoriale?

CB: Non penso mai ai personaggi dal punto di vista fisico. Carmen può trovarsi dentro moltissime donne di differenti tipologie. In questi anni il suo ruolo lo hanno interpretato tedesche, svedesi, olandesi… Era affascinante vedere ciò che ognuna di loro apportava di nuovo al personaggio. Senza dubbio, è necessario che sappiano cantarlo, con le difficoltà che pone, e interpretarlo con flessibilità, dinamismo, carisma e forza interiore.

PMH: Quali sono i requisiti essenziali che la sua proposta richiede all’interprete protagonista?

CB: Generosità, apertura al rischio emotivo, versatilità fisica, immaginazione e desiderio di disporre della propria libertà in scena, dove tutto è possibile.

PMH: Come vede Don José? È un uomo innamorato, o piuttosto un amante acceso di passione per Carmen?

CB: È un uomo innamorato che trasforma il suo amore in un’ossessione malata che lo porta al crimine e alla distruzione. Si trasforma in un delinquente. La Carmen, tra le tante altre cose, è la prima opera che affronta la tematica della violenza contro le donne.

PMH: Quali sono i passaggi musicali che preferisce di quest’opera?

CB: Il quarto atto. Il Coro, Escamillo e lo straordinario duetto finale dove si condensa tutta l’opera.

PMH: Perché, secondo lei, al suo debutto la Carmen è stata un fiasco e oggi, invece, è una delle opere più famose e universali?

CB: Non lo so… Molte grandi opere e grandi autori alle prime hanno fallito (c’è anche chi ha avuto successo, come Strauss). Sicuramente una caratteristica di tutti i tempi negli agenti che ruotano intorno all’arte (pubblico e stampa) è la paura di fronte ai cambiamenti, alle novità, a ciò che non si può comprendere in maniera immediata. Questo ha ostacolato la strada a molti artisti e a molte opere d’arte.

1 «Il morire è dunque una lotta: […] una lotta tutta particolare. È una battaglia sempre perduta, indipendentemente dal coraggio con cui la si conduce. […] Peculiarità di questo particolare tipo di lotta fra morti e vivi è il suo carattere intermittente. Non si sa mai quando accadrà nuovamente qualcosa. Forse non accadrà nulla per molto tempo. Ma non vi si può contare. Ogni nuovo colpo giunge improvvisamente dalle tenebre. Non c’è alcuna dichiarazione di guerra. Dopo una sola morte, tutto potrebbe essere finito. Ma potrebbe anche continuare a lungo, come nei contagi e nelle epidemie. Si è sempre in ritirata, e non è mai davvero la fine». Elias Canetti, Massa e potere, Bompiani, Milano 1988, p. 80. [NdR]

 

 


 

 

 
 
 

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