Il mare, il marmo, la polvere
di Luigi Raso
Nell'allestimento ormai datato di Sylvano Bussotti, Simon Boccanegra torna in scena al San Carlo di Napoli. Corretta ma rinunciataria la bacchetta di Stefano Ranzani, mentre nel cast, a fronte di una prova non entusiasmante di Ambrogio Maestri, si distingue il Gabriele Adorno di Saimir Pirgu.
NAPOLI, 12 ottobre 2017 - C’è tanto mare nel Simon Boccanegra, quanto fuoco nel Trovatore. I due melodrammi, oltre alla trama a dir poco arzigogolata e in parte inverosimile, hanno altro in comune: entrambi derivano dalla penna del modesto drammaturgo spagnolo Antonio García Gutiérrez (1813 – 1884), il cui ricordo sopravvive proprio grazie alle opere di Verdi tratte dai suoi drammi.
Di mare, nel Simon Boccanegra, ce n’è effettivamente molto, in scena e in musica; è una presenza costante, silenziosa, che avvolge passato e presente della vicenda. E proprio sull’elemento marino è imperniato l’allestimento del 1979 del Teatro Regio di Torino - Sylvano Bussotti firma regia, scene e costumi - e ripreso in questa riproposizione al San Carlo da Paolo Vettori, con le luci di Fabio Rossi. Un allestimento nel segno della tradizione, con tutti i pregi e tutti i difetti che le sono propri, e che oggi appare irrimediabilmente datato, molto lontano dalla concezione contemporanea di teatro in musica.
Immediatamente lo spettatore è catapultato nella Genova del XIV secolo: vi sono espressi richiami alle cromie marmoree e alle architetture della Superba, alla Lanterna e al mare ligure. Una messinscena elegante, rispettosa del libretto, ma priva di idee e azione teatrale, che mostra difficoltà di manovra delle masse in palcoscenico e che relega, a causa della sua staticità, troppo spesso il coro a una funzione più da oratorio che da melodramma.
Nel finale del Prologo, laddove Verdi, con la concisione teatrale che lo contraddistingue, dipinge in pochi istanti con pennellate rapide, dal tratto deciso e incisivo, la perfidia e la sete di vendetta di Fiesco (“T’inoltra e stringi gelida salma….l’ora suonò del tuo castigo!”), il dramma intimo di Simone (la scoperta della morte della donna amata) e il contestuale trionfo pubblico (l’elezione allo scranno dogale), il coro è fermo in scena, passivo, partecipa svogliatamente al tripudio per l’elezione del neo doge.
Simile immobilismo anche nel quadro del Consiglio, benché la bellezza delle scene e dei costumi avrebbero consentito di delineare un momento di ben altra incisività e potenza visiva per uno dei vertici teatrali del Verdi “politico”.
Di teatralità ce n’è davvero poca anche nei duetti e terzetti, travagliati e complessi come in poche opere, che scolpiscono monumenti ai drammi e alle (poche) gioie intime di cui è disseminata la tortuosa vicenda.
Nel Boccanegra, abbiamo detto, c’è tanto mare, soprattutto nella musica: quello, lontano nel ricordo, del lido di Pisa dove cresceva Maria/Amelia, quello del meriggiare che fa da sfondo all’amore tra Amelia e Gabriele e, infine, quella “marina brezza”, dispensatrice di refoli consolatori, invocata da Simone nell’atto III ed evocata da Verdi con impressioni sonore dalla raffinata armonia e orchestrazione, quasi anticipatrici delle ondate sonore di La Mer di Claude Debussy (1905).
La direzione di Stefano Ranzani procede con passo corretto, assicurando unitarietà alla resa musicale, coesione tra palcoscenico e orchestra, tuttavia appare eccessivamente rinunciataria nel sottolineare le raffinatezze timbriche presenti in partitura, poco incline a conferire drammaticità ed emozione al duetto tra Simone e Amelia Grimaldi (“Figlia!... a tal nome palpito ”); è condotto con poca empatia il duetto finale tra Fiesco e Simone, epico scontro/confronto tra uomini ormai anziani che si ritrovano inesorabilmente sconfitti dalla vita.
Il coro diretto da Marco Faelli - al quale è affidata una funzione drammaturgica rilevante, pur in assenza di un’articolata e autonoma pagina corale -, al netto dello scarso dinamismo imputabile a scelte registiche, è preciso nelle entrate e assicura corposità sonora nella concitata scena del Consiglio e nella terribile declamazione della maledizione.
L’aspetto vocale della produzione è imperniato sul Simone di Ambrogio Maestri: la voce ha il consueto colore interessante, buon volume, ma il baritono è apparso in grande difficoltà nel canto legato, nei suoni smorzati, che troppo spesso sono risultati stimbrati. Dal punto di vista umano e psicologico, la figura del doge genovese è apparsa solo abbozzata, coinvolgendo solo raramente lo spettatore.
John Relyea è un Fiesco truce, dalla voce molto scura, a tratti cavernosa, che però riesce ad addolcire nel duetto finale, fornendo un’efficace, composta e altera interpretazione del patrizio genovese.
L’Amelia di Myrtò Papatanasiu è credibile scenicamente e appropriata vocalmente, grazie al suo timbro corposo, brunito nel registro basso e ben squillante in alto.
Una vocalità generosa, timbro luminoso, ottima emissione e passionalità mai scomposta fanno del Gabriele Adorno di Saimir Pirgu - debuttante nel ruolo - l’elemento di maggior interesse di questa produzione. Il tenore albanese, a distanza di qualche mese dal successo personale nell’ultima Lucia sancarliana, conferma le sue qualità e riscuote un convinto apprezzamento dal pubblico. Molto suggestivo il suo contrasto tra il veemente “O inferno! Amelia qui! L'ama il vegliardo!... E il furor che m'accende M'è conteso sfogar!” e il successivo, languido, “Cielo pietoso rendila”, cantato con linea elegante, con voce sempre appoggiata sul fiato.
Convincente la prova del Paolo Albiani di Gianfranco Montresor, che con voce sicura dà corpo a un personaggio dalla subdola perfidia, anticipatore dello strisciante e mefistofelico Jago del successivo Otello.
Buone la parti secondarie, con Alessandro Abis nei panni di Pietro, Antonello Ceron in quelli del Capitano dei balestrieri e di Milena Josipovic quale ancella di Amelia.
Al termine dello spettacolo il pubblico, alquanto esiguo, è misurato nell’apprezzare uno spettacolo che desta più di qualche perplessità, per il versante scenico e per la complessiva resa musicale, sulla sua riuscita.
foto Luciano Romano