L’Ape musicale

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...la musica

di Andrea Malvano

Che molto del dramma di Wozzeck avvenga lì sotto, nella fossa dell’orchestra, ancor prima che sul palcoscenico, si intuisce anche solo sfogliando la partitura.
Berg sceglie di suddividere l’opera in quindici scene, che rimandano esplicitamente alle strutture formali della grande tradizione strumentale. Verrebbe spontaneo pensare alla musica che invadeva la Vienna delle luccicanti sale da concerto, dei salotti altolocati in cui il Settecento scopriva i fiori più belli del repertorio cameristico. Ma la scrittura di Wozzeck abita in un altro emisfero, quello in cui il passato riappare tra le macerie di un inconscio collettivo che non lascia più spazio alla riflessione razionale e oggettiva. Berg non vuole riprendere con distacco neoclassico le strutture della forma sonata o dell’antico contrappunto; la sua intenzione è quella di individuare nei retaggi della tradizione le radici di una scrittura musicale condivisa da un’intera generazione di compositori: le intime rappresentazioni di un pensiero collettivo stratificato nel tempo. Della Vienna asburgica resta solo più l’anima: Berg la rievoca, la osserva con l’angoscia del tempo moderno, e ne trae suggestioni destinate a rimanere codificate negli strati più inconsapevoli del suo linguaggio musicale. Il primo atto, definito dall’autore “Esposizione”, è formato da cinque pezzi caratteristici: ogni sezione introduce un personaggio nuovo, presentando Wozzeck a confronto con tutti gli attori del dramma. L’apertura è affidata a una suite: Berg costruisce una successione di danze (preludio, pavana, cadenza, giga, cadenza, gavotta, aria, ripresa), alludendo a una delle più diffuse forme strumentali settecentesche. A quell’orizzonte stilistico rimandano l’orchestrazione cameristica, che nelle due cadenze lascia addirittura spazio a interventi solistici (prima la viola, poi il controfagotto), e l’uso di tempi storicamente legati ai movimenti di danza. Il Capitano si muove su un registro isterico e nervoso, come se fosse perennemente in bilico tra la compostezza del suo ruolo e un’irrequietudine esistenziale che nemmeno una divisa riesce ad arginare; Wozzeck, invece, esprime quel desiderio di canto che lo accompagna per tutta l’opera, quel lirismo sistematicamente frustrato che lo rende il più umano di tutti i personaggi. Un denso tessuto di intrecci tematici percorre il loro dialogo, isolando alcune cellule melodiche destinate a divenire ricorrenti nel corso delle scene successive: una luce abbagliante evidenzia l’intervallo di settima maggiore che compare in corrispondenza del «Wir arme Leut» («Noi povera gente») intonato da Wozzeck.
Tre accordi dal sapore inquietante stanno alla base della rapsodia successiva. Andres compare in tutta la sua ingenua baldanza, accompagnato da un fiero tema di marcia: la rassicurante bandiera dietro cui si nasconde chi non ha la sensibilità per porsi interrogativi problematici. Wozzeck dialoga in Sprechgesang, quella tecnica di emissione delle note a metà tra il canto e la recitazione che Arnold Schönberg aveva introdotto a partire dai Gurrelieder. La suaumanità emerge anche da questo aspetto vocale: un declamato che rifiuta ogni forma di artificio, proprio come se volesse alludere alla lingua parlata dalla “povera gente”.
Marie entra in scena sulle note di una marcia militare: una banda interna, dietro le quinte, disegna in lontananza un tema marziale. La sua è una vocalità lirica: melodie intense, sistematicamente soffocate dalla violenza dei personaggi circostanti.
La dimensione irreale del suo universo emotivo le consente di abbandonarsi all’ingenuità di una ninnananna, cullata da un ritmo di siciliana che sembra riesumato da una raccolta clavicembalistica del Settecento. Il suo tema (laa-fa-mi), schiacciato in un intervallo di quarta diminuita, è lo specchio di una personalità imprigionata tra le mura dell’indifferenza collettiva.
Un ulteriore risvolto del registro vocale prende forma con l’apparizione del Dottore: nessuna incertezza, timbro crudo, tagliente, analitico. Il Dottore osserva Wozzeck con distacco e il suo canto procede con freddezza, senza concedersi nessuno slancio lirico. A questo profilo analitico Berg affianca la passacaglia, uno dei procedimenti formali più rigorosi di tutta la tradizione musicale: un tema formato da dodici suoni (particolarmente interessante, visto che la dodecafonia all’epoca della stesura dell’opera non era ancora stata codificata da Schönberg) dà vita a ventuno brevi variazioni, ognuna delle quali è identificata da una precisa fisionomia timbrica. Ma anche in questo caso il passato si adagia su uno strato di sottile inconsapevolezza: le variazioni si succedono con estrema fluidità, rendendo impossibile, all’ascolto, individuare le articolazioni della struttura formale.
Chiude il primo atto un rondò: un tema aspro e grottesco, disegnato da due oboi accoppiati, si ripresenta più volte nel corso della scena, sottolineando la cruda insensibilità del Tamburmaggiore. Per la prima volta Berg abbandona la strumentazione cameristica, per raffigurare con il timbro roboante della grande orchestra l’incontrollabile violenza che domina i
due personaggi.
Il dialogo tra Marie e Wozzeck che apre il secondo atto (Peripezia) rievoca lo schema della forma sonata: un’esposizione composta da tre gruppi tematici, due riprese e uno sviluppo, costituisce il primo dei cinque movimenti di sinfonia proposti da Berg nel secondo atto. La struttura-simbolo dell’antica dialettica tra libertà dell’invenzione e necessità della forma cerca invano corrispondenze con una tensione drammatica che non può trovare una risoluzione: Marie e Wozzeck procedono dritti verso la catastrofe; il loro dialogo è l’emblema di un’incomunicabilità esistenziale. Solo la riapparizione del motivo Wir arme Leut, al culmine dello sviluppo, ha il potere di annichilire qualunque dialettica: la sua epifania è sottolineata da un accordo di do maggiore sussurrato dagli archi, che suona come una coltellata in un contesto sistematicamente atonale. Niente di più straniante: una cellula anomala inserita in un organismo dissonante ci ricorda il destino di Marie e Wozzeck, costretti a vivere in un mondo che non è il loro.
Alla forma più seriosa di tutta la tradizione musicale Berg affianca una delle scene più grottesche di tutta l’opera. Il Dottore, il Capitano e Wozzeck si stuzzicano con battute lancinanti, e la musica scivola in una ruvida fuga, basata su tre distinti soggetti.
La scrittura polifonica è piuttosto rigorosa, ma Berg cerca nel contrappunto uno strumento del dramma: è come se la fuga, inghiottita dalla tessitura strumentale, si trasformasse in un’immagine subcosciente, sforzandosi invano di prendere una forma precisa nella mente dell’ascoltatore.
Un groviglio di interventi cameristici intesse il successivo Largo: Marie e Wozzeck tentano inutilmente di comunicare, ma sono entrambi sopraffatti dalla violenza.
Berg riutilizza l’organico usato dal suo maestro Arnold Schönberg nella Kammersymphonie, con l’intenzione di mettere in scena un dialogo profondamente drammatico tra ensemble cameristico e intera orchestra. Ne risulta un crocevia di tensioni, che trovano uno sfogo nelle parole «Der Mensch ist ein Abgrund» («L’uomo è un abisso»), cui segue un vertiginoso disegno dell’intera orchestra, spento da un agghiacciante colpo di timpani e gran cassa.
Lo spettro dell’assassinio si è ormai pienamente materializzato; e il successivo ribaltamento in una chiassosa scena all’osteria (lo Scherzo) ne accentua i tratti inquietanti. C’è tutto quello che serve per creare un clima spensierato: suadenti ritmi di Ländler, un grazioso valzer suonato da un’orchestrina sulla scena, un coro di soldati che puzza di fumo e di alcool, la serenata di un incauto cantore alle prese con la sua chitarra, la predica tragicomica di un garzone con manie di grandezza. Eppure, proprio come accade negli Scherzi delle Sinfonie di Mahler, niente suona più sinistro di quei suoni di festa. I due organici (sul palco e nella fossa) procedono parallelamente, realizzando una inquietante sovrapposizione di stati emotivi contrastanti (anche Mozart sembra svolazzare su questa scena, rievocando il finale del primo atto di Don Giovanni). L’apparizione del Pazzo ne è l’inevitabile conseguenza, e il silenzio di tutta l’orchestra alla parola “Blut” (Sangue) è più spaventoso di un assordante urlo a pieno organico.
Come il primo atto, anche il secondo si chiude con un atto di violenza del Tamburmaggiore (Rondò marziale). Questa volta a lottare non è più Marie, ma Wozzeck, che tra gli stanchi sbadigli di un coro di soldati in caserma, sfoga la sua rabbia in una vana zuffa tra ubriachi. Ma quando i rumori e la confusione svaniscono nell’ombra, piantato nella memoria del fruitore resta solo l’impatto in pianissimo tra le note cantate dal coro maschile (fa, sola, sol naturale) e il verso spettrale del clarinetto basso (sol #). Difficile immaginare un presagio di sangue più raccapricciante.
È quel suono a rimanere vivo anche quando tutto si spegne in una calma di ghiaccio: 4 battute di pausa in 2/4 che si specchiano fedelmente nelle 2 battute di silenzio in 4/4 su cui si apre il terzo atto.Già dall’apertura silenziosamente a specchio, il terzo atto (la Catastrofe) si presenta come un’immagine rovesciata del secondo. La gaudente sicurezza della classe vincente si ribalta nella spaventosa tragedia della povera gente. Berg, dopo aver affrontato la volgare superficialità del mondo, si concentra su Wozzeck e Marie, sul loro dramma esistenziale; e lo fa scrivendo sei invenzioni musicali, basate su altrettanti soggetti. Si comincia con un’invenzione su un tema: Marie si confronta con la sua problematica spiritualità, e la musica ricorre alla polifonia, da sempre lo strumento più sfruttato dal repertorio sacro. Ma ormai è troppo tardi per una riflessione serena sul trascendente; sulla scena si allungano le ombre della tragedia nelle gravi punteggiature del clarinetto basso, negli inquietanti trilli del corno e nelle contorte melodie degli archi.
Wozzeck non ha più scelta: deve sfogare su se stesso tutta la violenza che il mondo lo ha costretto a reprimere; e la prima vittima deve essere Marie, l’emblema di quella purezza che si annida anche nei sotterranei della sua anima. E così la musica: nessuna scelta, ma una sola nota (un si), che funge da pedale per tutta la scena, continuando a riemergere come un delirio ricorrente. Alla rapidità convulsa dell’assassinio segue una riflessione orrenda: un roboante crescendo dell’intera orchestra trasforma la nota “si” da presagio a rappresentazione dell’assassinio. E anche qui, come nel secondo atto, il successivo ribaltamento in una scena all’osteria non fa che caricare le tinte mostruose del crimine appena consumato. Il riverbero dell’intera orchestra non si è ancora estinto, quando un pianino verticale attacca la sua polka da birreria. Il colpo di scena introduce un’invenzione su una figurazione ritmica, che circola continuamente in orchestra; ma il vero elemento raggelante appare in corrispondenza della rabbiosa canzone di Wozzeck, che si apre con le stesse note della ninnananna cantata da Marie nel primo atto.
Wozzeck annega nello stesso sangue di cui si è sporcato le mani. A dipingere la sua fine è un’invenzione su un accordo di sei note, che si spegne in un cromatismo ascendente degli archi. Ma, dopo la scomparsa di Wozzeck, il presente non ha più alcun interesse; e l’unica soluzione è un’invenzione sulla tonalità di re minore, che parla la lingua di Mahler. Berg si volta indietro a osservare il linguaggio del passato; ma questa volta non lo fa con l’intenzione di trattenere un ricordo soggiacente; la nostalgia del decadentismo dipinge il rammarico di un’intera generazione, che vede il suo volto riflesso nelle acque in cui annega Wozzeck. Un destino di disadattamento che non si spegne tra il fango di quello stagno, ma che è destinato a continuare, per sempre. Lo conferma il raggelante «Hopp, Hopp» del figlio di Marie, emarginato dai suoi compagni di gioco, nella successiva invenzione, che si chiude su un disegno ripetitivo di flauto e celesta da eseguire “senza ritardando”: proprio come se la storia fosse destinata a ripetersi e a cristallizzarsi nell’eterna cornice di un’angosciante rappresentazione mitica.


 

 

 
 
 

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