L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Indice articoli

Turandot a Brescia

Note di regia di Giuseppe Frigeni

TURANDOT TRA TRADIZIONE E RIVISITAZIONE

Nelle opere di Puccini, la bellezza accattivante della musica induce troppo spesso a privilegiarne esclusivamente l’aspetto melodico a scapito dell’armonia, così ricca di scale esatonali, modalismi, politonalità, influenze orientali e certamente non ignara delle avventure avanguardiste dell’inizio del secolo (Debussy, Ravel, Stravinskij, Strauss, Prokofiev…). Ne deriva spesso una lettura scenica discorsiva edulcorata e sentimentale, piuttosto che allusiva ed evocativa. Turandot è una delle opere di repertorio pucciniano più famose e come tale iscritta definitivamente nel patrimonio lirico. In quanto opera di tradizione è esposta a diverse proposte registiche e interpretative che non possono comunque esaurirne le potenzialità. Con Turandot il mio intento è stato quello di dar forma a queste allusioni, a queste pieghe del tessuto armonico.

In questo allestimento di Turandot, ripreso da quello realizzato nel 2003 al Teatro Comunale di Modena, (mio primo lavoro in Italia), ho lavorato in una prima fase esclusivamente sul materiale musicale, per accoglierne delle impressioni visive, spaziali e dinamiche. Impressioni che ho concretizzato poi in spazi austeri, colori scuri, misteriosi, e in dinamiche coreografiche contrastate. Ho cercato di riunire degli elementi scenici e visivi non invadenti, che potessero far risuonare le evocazioni musicali piuttosto che illustrarle: trasparenze ed effetti di controluce, scorrimenti e slittamenti di piani e dimensioni, contrasti dinamici o ritualistiche, atmosfere sospese. Pur tenendo presente la dimensione orientale del contesto ho privilegiato l’astrazione, evitando la ridondanza “esotica” e le “cineserie salottiere”.

Luci, movimenti scenici o coreografici, costumi e posizioni sono elementi essenziali del lavoro scenico che considero interdipendenti delle scelte registiche e drammaturgiche e partecipano in sinergia alla percezione della musica piuttosto che alla sua cosmesi.

Sul piano strettamente drammaturgico il personaggio di Turandot si è rivelato come una figura più complessa e fragile che algida e crudele: è una donna che rivela una personalità umiliata e disperata, dalla frigidità psicotica, traversata da un orgoglio ferito e un bisogno di affetto disinteressato e sincero. Non ho voluto rappresentare Turandot come un mostro di freddezza, una macchina di morte: la crudeltà è contestuale al potere ed è instaurata da un sistema profondamente arcaico e maschilista, sostenuto dal compiacimento quasi erotico dalle masse, pronte a amplificare con esiti paradossalmente contradditori le emozioni più istintive e le reazioni più primarie, tra odio e amore, accuse e perdoni.

Ho cercato di sottolineare con Timur la figura di una saggezza arcaica, di grande nobiltà umana, testimone impotente dell’evoluzione ambiziosa e cinica del figlio. L’altro padre, Altoum rappresenta invece la saggezza istituzionale, impolverata dal peso di una tradizione maschile millenaria e museale, come lo sono i ministri quasi statuari che lo accompagnano.

Liù rappresenta in un certo senso l’alter-ego di Turandot, l’altra possibilità di accedere all’amore, sacrificale e nevrotico. Le due donne sono molto più complementari che nemiche. Entrambe vivono in conflitto con Calaf, con soluzioni diverse e disperate, di estremo sacrificio per Liù o distanza difensiva per Turandot.

Calaf è un uomo divorato dall’ambizione e dal potere, fiero di una virilità conquistatrice e competitiva. La dimensione sentimentale è solo a tratti sfiorata, la fascinazione dell’interdizione e la seduzione ne sono piuttosto il motore, non l’amore. Il desiderio profondo è quello di accedere al potere, di riconquistare un’autorità umiliata. Non è l’eroe che sfida per amore.

Le sue parole nell’aria Non piangere Liù esprimono in filigrana un paternalismo e un’arroganza che mal si adegua alla dichiarazione sincera e umile di Liù.

Il bacio finale (mancato) sarà il segno di un tradimento, che distruggerà con cinico sdegno quel barlume d’illusione risvegliato in Turandot, conducendola ad un altro tipo di morte.

Infine le tre maschere sono figure della derisione tragico-comica, gli intrattenitori divertenti del potere, i giullari servili, sensibili ma fondamentalmente impotenti.


 

 

 
 
 

Utilizziamo i cookie sul nostro sito Web. Alcuni di essi sono essenziali per il funzionamento del sito, mentre altri ci aiutano a migliorare questo sito e l'esperienza dell'utente (cookie di tracciamento). Puoi decidere tu stesso se consentire o meno i cookie. Ti preghiamo di notare che se li rifiuti, potresti non essere in grado di utilizzare tutte le funzionalità del sito.