Un genio d’eleganza
di Stefano Ceccarelli
L’Accademia Nazionale di Santa Cecilia accoglie, dopo anni di assenza, il celebre pianista Murray Perahia in un recital dal programma stupendo: la Suite francese n. 6 in mi maggiore BWV 817 di Johann Sebastian Bach, i Quattro Improvvisi op. 142 D. 935 di Franz Schubert, il Rondò in la minore K 511 di Wolfgang Amadeus Mozart e, dulcis in fundo, la Sonata n. 32 in do minore op. 111, l’ultima di Ludwig van Beethoven. Le esecuzioni sono semplicemente magistrali e un’ovazione finale del pubblico romano ringrazia il maestro.
ROMA, 6 marzo 2017 – Dopo ben diciassette anni di assenza, l’americano Murray Perahia torna trionfalmente all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Un pianista d’altri tempi, un vero monumento d’eleganza oggi decisamente retro, un musicista raffinatissimo e pienamente novecentesco, Perahia presenta un programma classicissimo, il cui fulcro emotivo è certamente l’ultima monumentale sonata per pianoforte di Beethoven; programma che spagina divinamente, con sopraffino gusto, con cultura e intelligenza interpretativa quale solo decenni di carriera d’altissimo livello possono sviluppare così in sommo grado in un musicista.
Già brillantemente incise per Deutsche Grammophon, le Suite bachiane, poi soprannominate Francesi per l’ethos dei pezzi lì raccolti, sono pagine ‘pianistiche’ assai note e care a Perahia, che qui suona la n. 6. Esibendo un pianismo semplicemente fantastico, Perahia coniuga brillantemente precisione, pulizia, velocità e speditezza a una profonda musicalità, che fa emergere nitidamente il differente intrinseco carattere di ogni danza. Veramente impressionante l’uniformità sonora e volumetrica che Perahia riesce a mantenere pure ad alte velocità esecutive (paradigmatica, in tal senso, la Corrente). Su tutto vige una profondissima conoscenza dello spartito, che dà vita a ogni respiro di una scrittura geometricamente perfetta.
Con Schubert, Perahia si lancia in un altro autore che conosce alla perfezione: gli Improvvisi op. 142, infatti, li ha magistralmente incisi nel 1984 per la Sony, assieme ai loro fratelli (op. 90). Uno Schubert intimo e delicato, al contempo vibrante e sensuale, soprattutto nei passaggi coloristici e nelle cromature. Un Perahia autentico signore del pianoforte. Nel n. 1 in fa minore si manifestano tutte le caratteristiche sopra menzionate: fantastiche nuance, agogica meditata, atmosfere che sanno di colori d’interno borghesee al contempo romantici, volumi contenuti al mezzoforte, assenza di affettazioni vuotamente retoriche. Perahia riesce a cogliere a livello sonoro l’intimo romanticismo schubertiano, quel «romanticismo “temperato”, che non sonda le profondità dell’animo umano, le zone oscure del dolore e della disperazione e quelle luminose delle gioie ineffabili, e oscilla tra i sentimenti “medi” della malinconia e della serenità, evocando tuttavia all’interno di questo lirismo una gamma amplissima di emozioni, di atmosfere e di sfumature» (M. Mariani, dal bel programma di sala). Del n. 2 in la bemolle maggiore Perahia esalta la pacata nobiltà delle serie di accordi, caldi, e fa prevalere un carattere timbricamente pulito e autentico; com’è poi intimistico, suadente, sublime nel n. 3 in si bemolle maggiore, dove i passaggi, le scale, le fioriture sono di una pulizia impressionante, senza obliare un calore d’intensa musicalità, che fa rivivere quel tratto debitore del Biedermeier, «il gusto tipico di una borghesia soddisfatta di se stessa, della sua aurea mediocritas, del suo benessere, delle sue case accoglienti, della sua vita che scorreva placidamente lungo i binari del buon senso e della rispettabilità» (Mariani). Del n. 4 in fa minore fa emergere il carattere più marcatamente virtuosistico, saltellante, sul velo di colori tipicamente schubertiani. L’esecuzione è magnifica: storica, oserei dire.
Non atteso da programma giunge il Rondò in la minore K. 511 di Mozart, le cui brillantezze esecutive e virtuosistiche sono elegantemente rese dalle fatate mani di Perahia: ancora limpidezza, pulizia, tornitura perfetta del suono risultano le caratteristiche preminenti del suo pianismo.
L’ultima sonata di Beethoven, l’op. 111, la trentaduesima della sua vita, è un monumento di una modernità disarmante. Scritta «piuttosto per la lettura, la meditazione privata», attesta «l’espressione di un progressivo isolamento del compositore dalla sua epoca, per seguire le tracce di una fantasia e di una logica compositiva del tutto indipendenti dai meccanismi della contemporanea produzione e fruizione musicale» (A. Quattrocchi, sempre dal programma di sala). Questo carattere di meditazione privata è splendidamente mantenuto dall’approccio intimistico di Perahia, che forte di una tecnica prodigiosa e di una musicalità impressionante restituisce passaggi di nitida potenza, come il susseguirsi degli accordi seguito da vertiginosi giri, scale e chiaroscurali effetti cromatici, che imperniano tutto il Maestoso. Allegro con brio ed appassionato (I). Ma il vero coup de théâtre sono le variazioni dell’Arietta: Adagio molto semplice e cantabile (II), quello «scenario avveniristico» (Quattrocchi) che sarebbe rimasto sostanzialmente inascoltato fino almeno al ‘900: al jazz, perfino. Qui Perahia si concentra al massimo per far risaltare finanche il più minuto particolare, scoprendo quel dialogo con sé stessi (di Beethoven con sé stesso) che sono le variazioni, talmente ardite da risultare, appunto, incomprensibili al pubblico di suoi contemporanei. Al termine del concerto, Perahia è accolto con una vera e propria standing ovation, che si prolunga anche nella speranza di un bis che, purtroppo, non arriverà mai.