Hommage à Ravel
di Giuseppe Guggino
Non è un omaggio a Ravel particolarmente riuscito questo concerto di chiusura della stagione sinfonica del Teatro Massimo di Palermo. Eccezion fatta per una lettura pianistica estremamente intrigante del Concerto in sol proposta da Roberto Cominati che si conferma artista di prim’ordine certamente per il repertorio francese tra Otto e Novecento.
Palermo, 7 dicembre 2017 - Che non sarebbe stata una serata memorabile lo si intuisce immediatamente dalla Pavane in apertura di questo concerto interamente dedicato a Ravel. Non tanto e non solo per lo scrocco d’inizio del corno, che è cosa che può accadere, ma per la sensazione di incertezza, di smarrimento che si sostituisce pressoché integralmente alla poesia di cui il pezzo dovrebbe essere intriso. Ma si tratta di uno smarrimento trascurabile, almeno se lo si paragona a quello avvertito nel Concerto in sol, in cui innumerevoli attacchi sporchi si contrappongono – un po’ dispettosamente – all’ammirevole precisione del solista. Pare essere la cifra distintiva di Roberto Cominati, infatti, quella di sorprendere per una perfezione sbalorditiva, quasi eccessiva, rivelatrice di un controllo tecnico indubbiamente ragguardevole. In questa occasione, sapendosi estraniare dal baillame di fondo (cosa quanto mai encomiabile, vista anche l’invasività delle sonorità), riesce autonomamente a tratteggiare un Ravel letto in un’intrigante prospettiva debussiana; ecco attenuate quindi le contaminazioni jazzistiche del primo tempo, esaltata la liquidità lunare vaghissima della mano destra a suddivisione binaria (senza far troppo prevalere la suddivisione ternaria collidente della sinistra) ed eliminata ogni guasconeria toccatistica non calcando i ribattuti percussivi del terzo tempo. Una chiave di lettura poco appariscente, quindi, pur sempre salutata da applausi convinti, che ha il pregio di illuminare inusitatamente una pagina arcinota del repertorio; un po’ come con il bis, una trascrizione händeliana di Moszkowsky, offre una delicatissima méditation su "Lascia ch’io pianga" dal Rinaldo.
Le cose migliorano in Orchestra nella seconda parte, evidentemente più rodata, dove non faticano ad emergere i soli dei fiati nella suite dal balletto Ma mère l’Oye.
Con Bolero, infine, Gabriele Ferro, corroborato dai due tamburi, pare riuscire a ristabilire la piena quadratura dello sterminato dispiegamento d’organico, il cui impatto è sufficiente a guadagnare facilmente il plauso della sala in una serata – Cominati a parte – francamente piuttosto immeritevole d’entusiasmi.