L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

La vita è sogno

di Roberta Pedrotti

Il Teatro Massimo di Palermo apre la stagione con uno spettacolo ideato da Omer Meir Wellber e Johannes Erath: Il crepuscolo dei sogni, un'opera d'arte totale dai molteplici significati, un capolavoro che esprime il senso dell'arte e della creazione, colto intelligente e di travolgente impatto emotivo. D'altissimo livello le prove di tutti gli interpreti, a partire dai solisti Carmen Giannattasio, Markus Werba e Alexandros Stravakakis, fino alla componente video e alla regia sonora che danno senso artistico allo streaming come elemento drammaturgico.

Palermo, 26 gennaio 2021 - Uno spettacolo dopo l'altro dietro lo schermo, senza il tempo e lo spazio del teatro, senza scegliere cosa guardare, senza percepire le luci e le voci con i nostri sensi, senza filtri, chiedendoci se quel che vediamo e sentiamo è veramente fedele, se mai esiste una fedeltà alla percezione unica e irripetibile dietro lo schermo. E quando la porta ci può essere aperta per ragioni professionali – ma non è detto che in coscienza il teatro possa essere raggiungibile senza forzare troppe norme – resta la sensazione spettrale del teatro vuoto, accessibile a pochi invisibili non per privilegio ma per responsabilità (ovviamente, per chi ne abbia coscienza). Eppure si va avanti così, anche con belle sorprese, per non spegnere la fiamma, per quegli artisti che ancora danno se stessi senza sapere nemmeno se ci siamo, al di là dello schermo. Si va avanti, perché l'arte, comunque sia, va avanti.

Infatti capita che succeda qualcosa che accende perfino il pensiero che pare più assurdo: questa sera, davanti allo schermo, collegata con il Teatro Massimo di Palermo, ho pensato che ero contenta. Contenta di vivere questo momento. Non perché, è chiaro, possa far piacere partecipare a una tragedia, ma perché nella tragedia si vedono accendere delle luci, delle reazioni, si vede creare. Perché esplode il senso vero dell'arte, perché dobbiamo pensare, non possiamo adagiarci in certezze rassicuranti.

Fin da subito Omer Meir Wellber e Johannes Erath ci costringono a pensare. Per questa apertura di stagione avevano in serbo Evgenij Onegin, ma l'opera di Cajkovskij è congelata in attesa di tempi migliori, il protagonista, la Tat'jana, il Gremin designati, con il direttore, il regista, l'orchestra e il corpo di ballo danno vita ad altro, alla voce del tempo vissuto ora e negli ultimi mesi, ma forse anche a qualcosa di più che questo tempo porta allo scoperto. È un percorso fatto di musica, ma non è una passerella, un galà drammatizzato o un pastiche: nel Crepuscolo dei sogni la musica si fa teatro e si fa racconto molteplice, amplificato da mille sottili relazioni. Solo il giorno prima, presentando il suo romanzo, Wellber aveva parlato dell'ambiguità dell'espressione che contiene in sé il vero e il non vero, diverse sfaccettature che si contrappongono all'univocità del totalitarismo. Così, nel Crepuscolo dei sogni l'azione si libera raccontando solitudini, elaborazioni del lutto, negazioni, violenze, ricerche, danze sfrenate, alienazione e angoscia, ma lo fa prendendo forma da un fluire di brani diversissimi che pure si agganciano l'un l'altro con sorprendente naturalezza, o con callidae incturae, o con reinvenzioni che sanno di riscoperta. Esattamente secondo il meccanismo dei ricordi in Storia vera e non vera di Chaim Birkner: la drammaturgia di Erath svela un'affinità e uno stretto lavoro di squadra fra i due artefici, sicché, davvero il suono si fa teatro, perfino quando la fisarmonica di Wellber passa dal preludio del terzo atto della Traviata al lamento della Didone di Purcell. Purcell suonato alla fisarmonica e cantato senza ricercare emissioni barocche da un soprano – Carmen Giannattasio – aduso soprattutto al repertorio ottocentesco? Certamente. E funziona benissimo, anzi è dannatamente giusto così, perché di punto in bianco sentiamo Purcell con Rossini, con Wagner, con Boito, con Beethoven parte di un unico pensiero. Sono frammenti, ricordi, parte di un patrimonio tanto prezioso da travalicare la contestualizzazione e diventare vocabolario universale, significante inafferrabile di molteplici significati. Sono l'idioma con cui un uomo e una donna improvvisamente rinchiusi in un vuoto claustrofobico vivono le loro storie, sono pubblico e artisti, persone cui una coltre di strana neve nega l'immenso specchio che sarà il teatro, mentre vecchi schermi televisivi sembrano l'unico, inquietante e ipnotico, occhio esterno. Dal tentativo di ricollegare i fili e riaccendere la sala scocca un cinico Mefistofele (Alexandros Stravakakis), “spirito che nega”, o tessitore di calunnie, infine prostrato dall'orrore delle pestilenze, del popolo sofferente, degli affetti familiari feriti con il monologo di Boris Godunov. Invece, il tentatore di Faust ha nel frattempo preso le sembianze di Omer Meir Wellber, che scende dal podio e innesca una frenetica danza ebraica intonando in yiddisch Velkhes Meydl S’nemt A Bokher della cantautrice israeliana politicamente impegnata Chava Alberstein. L'abile convulsione del montaggio video di Bibi Abel condensa immagini di questo strano sogno che racconta la vita e il teatro in una forma appositamente pensata per lo schermo, in cui anche il sound design e la regia sonora di Manfredi Clemente hanno parte preponderante. Ognuno indossa più pelli, i cantanti sono eccellenti attori e passano disinvolti con l'orchestra dal barocco a Verdi, da Schubert a Korngold, il direttore sale sul podio, siede al piano, imbraccia la fisarmonica, danza, canta. E, quando canta, veste come Don Basilio, come una metamorfosi dello spirito proteiforme e insidioso incarnato dal basso, con un lungo, estroso mantello che sembra richiamare arredi teatrali.

Nel disegno di Johannes Erath – drammaturgo, regista, scenografo, costumista, ideatore di luci che sono elemento fisico e attore a loro volta – ogni dettaglio porta in sé significati sempre coerenti nelle loro feconde relazioni. I sogni, d'altra parte, non sono che una manifestazione della psiche che rivelano e nascondono nelle loro immagini, e il crepuscolo, con la sua dolce malinconia, è anche un momento di confine: non è giorno, non è notte, non è luce, non è oscurità, non è sonno, né veglia, ragione, istinto. Il Crepuscolo dei sogni si esprime con un linguaggo onirico che si fa arte: l'aria del gelo dal King Arthur di Purcell affidata a Markus Werba si scalda e si illumina scivolando nel coro dei prigionieri di Fidelio, ma dall'istante di pace scaturisce il grido di “Amami Alfredo”; il “colpo di cannone” rossiniano diventa il Dies irae di Verdi con il Corpo di Ballo e la coreografia di Davide Bombana... Alla fine, dalla trasfigurazione del Mefistofele di Boito, da “Spunta l'aurora pallida” che si espande nel grandioso finale del Prologo in Cielo (un Cielo che è Teatro, con il coro nei palchi, Werba e Giannattasio eleganti spettatori), si torna all'origine. La platea vuota, un uomo e una donna sulle poltrone estirpate dalla sala al salotto e ancora in sala, davanti a uno schermo ma anche all'orchestra in carne ed ossa. E la fisarmonica non accompagna più il lamento nella morente Didone abbandonata, bensì quell'insuperata espressione di Eros che è “Pur ti miro, pur ti godo” dall'Incoronazione di Poppea. Gli sguardi tornano a incontrarsi davvero, lo specchio del teatro è libero e lucente, le luci possono lentamente, dolcemente abbassarsi.


 

 

 
 
 

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