L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Un Arsenale a passo di danza

di Alberto Ponti

Juraj Valčuha e l’Orchestra del Regio registrano il tutto esaurito in una serata dedicata a musiche per il balletto

TORINO, 15 luglio 2022 - Il premio per l’originalità se lo aggiudica un distinto signore, non più giovane, delle prime file, intento prima del concerto a dispensare consigli di ascolto a due coetanee che prenderanno poi posto poco più in là. Al termine della prima parte, quando ancora scrosciano gli applausi, le raggiunge fulmineo rivelando un’agilità inaspettata per l’età. Poche parole ma memorabili: ‘Bernstein… Non ce la facevo più! Un compositore così noioso!’. Erano appena state eseguite le Danze sinfoniche da West Side Story.

In fondo le calde serate estive del Regio Opera Festival 2022, nel sempre spettacolare cortile del Palazzo dell’Arsenale di Torino, sono anche questo. Una via di mezzo tra i Proms e un Waldbühne, con un pubblico trasversale e composito, dove trovano posto fianco a fianco il melomane appassionato e l’amante della musica in bermuda che predilige lo spazio aperto alla sacralità laica di un teatro o una sala da concerto, la famigliola con bambini e il viveur agée che si lancia in giudizi temerari facendo leva sull’ oscura conoscenza della materia dei suoi interlocutori. I tipi umani non sono infiniti ma la varietà in simili occasioni è garantita.

In tale contesto il programma strizza l’occhiolino ai gusti del grande pubblico, e, visto il pienone con pochissimi posti ancora liberi, la serata di venerdì 15 è stata un successo su tutti i fronti. Ben vengano occasioni come questa . Il musicista, l’ascoltatore professionista o il critico non avranno forse la rivelazione della vita ma magari in qualcun altro dalle orecchie vergini nascerà un amore destinato a durare o scatterà la scintilla per approfondire un certo autore e un certo repertorio.

Sul podio la presenza di Juraj Valčuhaè una garanzia. Ormai navigatore esperto nei mari delle orchestre di mezzo mondo, da Napoli a Houston passando per Berlino, il maestro slovacco impagina quattro titoli imperniati sul rapporto tra musica e danza.

Si inizia con Nino Rota e la suite tratta dal balletto La strada (1966) a sua volta basato sulla colonna sonora della celebre pellicola felliniana. Rota è come un buon vino che acquista sapore col passare degli anni. Sotto l’amabilità delle sue melodie si nasconde in realtà una poetica complessa, che coniuga la spontaneità e originalità del discorso con una mole impressionante di sottili rimandi alla storia della musica occidentale. Ascoltando La strada si rimane colpiti da echi da Bach a Stravinskij, senza che ciò abbia nulla di forzato. In fondo, Rota, allo stesso modo di un Čajkovskij è un autore che si riconosce al primo colpo. La lettura del pezzo da parte di Valčuha con l’Orchestra del Teatro Regio è entusiasmante: da un lato ci troviamo di fronte a un interprete sensibile e attento nell’amalgamare i passi solistici (su tutti il violino di Cecilia Laca e la tromba di Ivano Buat) con la scrittura sinfonica di notevole brillantezza e verve , dall’altro lo stesso Valčuha trasmette la giusta profondità ai passi drammatici che pure non mancano. Nel connubio di dolore e farsa, eterna metafora della nostra italiana concezione del mondo, risiedono forse gli esiti migliori dello stile di un compositore che meriterebbe maggior diffusione anche per le sue opere più ampie e ambiziose.

Convenzionale e meno graffiante appare la direzione delle Danze Sinfoniche (1960) da West Side Story di Leonard Bernstein. Valčuha e i musicisti del Regio tengono le fila di una partitura complessa e virtuosistica ma il risultato finale, nei rutilanti Mambo e Rumble come nelle effusioni cantabili di Somewhere e del Finale, non si spinge oltre una correttezza gradevole e oleografica a scapito dell’inventiva di Bernstein che, lungi dall’essere ‘noioso’ come qualcuno vorrebbe, richiederebbe ben altro.

Altrettanto si potrebbe affermare circa i tre pezzi dalla Suite n. 2 da Romeo e Giulietta (1936) di Sergej Prokof’ev dove, pur nella stringatezza di una selezione quasi aforistica che obbliga il maestro a saltare a piè pari interi blocchi del lavoro, il contrasto fra sonorità è a tratti eccessivo.

Del Boléro (1928) raveliano di chiusura non si può che dire tutto il bene possibile. Gli arabeschi timbrici che costituiscono da capo a fondo il succo del brano sono disvelati dalla bacchetta di Valčuha con conturbante sfavillio coloristico. Il ritmo è implacabile al punto giusto. Il progressivo e colossale crescendo è condotto con mano ferma e cura del fraseggio. Pubblico entusiasta e lunghi applausi per i protagonisti nella splendida cornice barocca di Palazzo Arsenale.


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