Polvere nuova
di Sergio Albertini
Ernani torna in scena a Cagliari dopo sessantanove anni: ogni nuova produzione è una festa di per sé, ma la componente musicale presenta luci e ombre, la regia nasce già pesantemente datata e la prima è accompagnata da rimostranze sindacali.
CAGLIARI, 9 aprile 2022 - Si è letto sulla stampa locale, e sui social, che l'opera in scena al Lirico di Cagliari è “preziosa rarità musicale “. Io non so da dove vengono attinte certe informazioni. Basterebbe fare una neppure troppo faticosa ricerca per scoprire che Ernani tra il 2017 e il 2022 è stato eseguito a Piacenza, Reggio Emilia, Palermo (in piena pandemia, marzo 2021), Pozzuolo del Friuli Ferrara, Parma, alla Scala, Roma (2013, con Muti, e ancora prossimamente nel giugno 2022), ma anche a Lisbona 2021, Parigi 2019, a Heidenheim 2019, Marsiglia 2018, Tolosa 2017, Salisburgo 2015, al Met di New York 2012 – e mi fermo per non apparire eccessivamente pedante. Vi sembrano dati che si riferiscono a qualcosa di “raro” ? Lo è forse, e certamente, per Cagliari, dove manca da sessantanove anni (quegli applausi fuori tempo ne sono stati prova); non possiedo cronologie storiche del teatro cagliaritano, ma credo che Ernani si trovi in buona compagnia con The Rake's Progress, con opere di Haendel e Korngold, con Anna Bolena e Rusalka, con Zandonai e Mercadante. Di autentiche rarità, insomma. Succede. E non è il caso di urlare sempre al miracolo o al grande evento.
L'ultima volta a Cagliari fu il 1953, con quelle voci che allora rappresentavano, tra le tante, il meglio del Verdi ai tempi considerato, sì, minore. Caterina Mancini ed Aldo Protti, in particolare. Tre generazioni, forse quattro, a Cagliari dal vivo non hanno mai ascoltato e visto Ernani. Spettacolo su cui aleggiava una sorta di inquietudine se, a pochi giorni dalla prima, i lavoratori dell'Ente Lirico attaccavano la direzione aziendale con un documento della RSU nel quale (a firma dei rappresentanti Ignazio Sibiriu, Riccardo Porcu, Giampaolo Ledda e Gianluigi Sarigu) si facevano notare “le diverse criticità riscontrate in questo allestimento che si appresta a debuttare tra pochi giorni. Nel corso della prima prova generale tenutasi sabato 2 aprile gli artisti del coro hanno evidenziato un grande disagio determinato dall’approssimazione con la quale si sono organizzati gli ingressi e le uscite dalla scena. Gli abiti di scena, per lo più incompleti, che hanno causato un grande impedimento nei movimenti, la scena costituita da un’inquadratura completamente nera pure nella pavimentazione, i numerosi scalini che dividono i diversi livelli, i ridottissimi spazi destinati all’uscita in quinta che hanno nel corso dello svolgimento della prova generale causato un pericoloso assembramento, sono solo alcuni dei problemi segnalati. Si evidenzia inoltre che nel corso della prova stessa, diverse persone hanno avuto un malore in scena.”
Restando senza risposta come mai una prova generale sia fatta il 2 aprile e la prima il 9 aprile (ma basta una ricerca su google per scoprire che il 7 e l'8 aprile il Teatro era stato messo a disposizione per il Congresso nazionale di Acri, l’Associazione di Fondazioni e Casse di risparmio), a mio avviso, un nuovo allestimento è comunque, di questi tempi, sempre una festa, e sottolinea gli sforzi e la volontà di un teatro di offrire qualcosa di nuovo. O quasi. Perché ci sono regie che nascono vecchie, in spettacoli nuovi. Ne riparleremo.
Innanzitutto, si parte con un ottimo programma di sala, con interessanti saggi e preziosa iconografia. E due interviste, al direttore d'orchestra e al regista. Il primo, Giuseppe Finzi (al suo attivo, tra l'altro, la carica di resident conductor alla San Francisco Opera e la prima europea di La ciociara di Marco Tutino proprio al Lirico di Cagliari), dichiara che “la filologia musicale (…) ha il compito di ricavare l'equilibrio originale della partitura. Di ricostruire, nei limiti del possibile, le intenzioni dell'autore”. Ora, l'edizione critica della partitura (quella approntata da Claudio Gallico, University of Chicago Press-Ricordi, 1985, la stessa che sembra essere indicata nel programma di sala cagliaritano) si riferisce alla messinscena della prima veneziana, alla Fenice, del 1844 (non vorrei sbagliare, ma credo che in quell'epoca non esistesse ancora il golfo mistico e che l'orchestra fosse sistemata sul piano della platea). Nell'edizione cagliaritana si ascolta la cabaletta “Infin che un brando vindice”, affidata a Silva, di carattere marziale. Ora, questa cabaletta (che fu scritta da Verdi per il basso Ignazio Marini per una ripresa catalana di Oberto) fu aggiunta a partire dalla recita milanese del 1844. Massimo Mila nella sua recensione dello spettacolo scaligero del 1982 (ora in Massimo Mila alla Scala, ed. Rizzoli) spiega che il Silva di Venezia non era cantante "di cartello", ma "comprimario" e, secondo le ferree convenzioni dell'epoca, non aveva diritto a una "scena" completa, ma tutt'al piú a un breve a solo.La cabaletta venne eseguita per la prima volta a Vienna nella primavera del 1844 o a Milano nell'autunno dello stesso anno. Non esiste un autografo del pezzo. Nel catalogo ricordiano del 1855 questa cabaletta appare come "cabaletta eseguita da Marini", non come "composta per Marini".
Filologia, dichiara Finzi. Allora, se decide di inserire “Infin che un brando vindice”, perché non l'aria “Odi il voto” (come s'è fatto quest'anno nel circuito emiliano) che Verdi compose nel dicembre 1844 per il tenore Nicola Ivanoff su richiesta esplicita di Rossini (del quale Ivanoff era un protegé)? Io un sospetto ce l'avrei.
Filologia, dichiara Finzi. E tuttavia, non una delle cabalette è stata ripetuta (e quindi, non si sono ascoltate neppure variazioni); per tacere dei trilli, alquanto “spianati” del soprano nella sua cavatina e relativa cabaletta. Se allora vogliamo ricreare uno spirito dell'epoca, coi cantati a disposizione, perché no ? A Vienna, nel 1844, Eugenia Tadolini (che interpretava Elvira) si rifiutò di cantare “Tutto sprezzo che d'Ernani” (sostituendola con “Non fu sogno” dai Lombardi).
Ecco quindi che sul piano musicale questo Ernani nasce monco, sbilenco, strabico. Sebbene la direzione di Finzi abbia privilegiato – a mio avviso giustamente – una febbricitanza rivoluzionaria, con qualche clangore di troppo nei piatti del finale, e in genere nella sezione degli ottoni, l'abbandono romantico appare solo a tratti, anche a causa di una non felice prestazione di Marco Berti, Ernani. Come si evince senza alcun dubbia dalla corrispondenza di Verdi (si legga il saggio del musicologo Daniele Spini), Verdi combatté duramente perché il ruolo eponimo fosse affidato ad un tenore e non ad un contralto, e vinse. Ernani è il primo ‘tenore verdiano’: Marco Berti ha un timbro chiaro, luminoso, una articolazione del testo impeccabile, un registro acuto squillante con screziature eroiche. E, tuttavia, è lo stile a latitare, il gusto a traballare. Fu un Ernani baldanzoso, a Parma, nel 2005 (ne rimangono registrazioni video e audio); ma quasi vent'anni dopo, l'intonazione, soprattutto nel terzo e quarto atto, è apparsa periclitante, soprattutto il fraseggio mi ricorda ciò che si poteva ascoltare alla fine degli anni Settanta al Teatro delle Palme di Torino. “Spasa fra anara” (suoni aperti per pronunciare “Sposa fra un'ora”), suoni spinti, tra singulti e lieve sprechgesang (“Sono il bandito Ernani!”), al limite con lo sbracato (“Vecchio, che mai facesti”); Berti pare dimenticarsi della nobiltà che lo caratterizza (è pur sempre Don Giovanni d'Aragona, anche se travestito da bandito), tutto preso da furori estremi.
Meglio la croata Marigona Querkezi, che dalla sua possiede un timbro personale, come attraversato in filigrana da un impercettibile e seducente vibratino; un colore caldo, che ben si addice ad Elvira. E tuttavia, benché abbia interpretato anche parti come la Regina della Notte (e a Cagliari anche Lucia di Lammermoor), benché la voce appaia ben proiettata e di ampio volume, certi trilli spianati nella cabaletta che segue la sua cavatina d'ingresso, certe note acute lievemente 'schiacciate' ed una ottava inferiore alquanto 'svuotata' inficiano parzialmente una prova che nel suo insieme alla fine risulta non del tutto soddisfacente.
Ottimo risultato invece quello di Dongho Khim. Il basso coreano, previsto nel cast alternativo, ha sostituito alla prima l'indisposto Andrea Silvestrelli ed è stata una gran prova (apprezzata anche da qualche 'bravo' giunto dalla platea). Il suo Silva aveva tutta la nobiltà del personaggio, una emissione sicura, ben tornita, una ricchezza e precisione nelle dinamiche richieste da Verdi. Analogamente si può dire del Carlo di Devid Cecconi, autorevole ed incisivo; molto bello, ampio e lucente il suo Fa acuto nella frase “il nome, il nome mio farò”. Nelle parti minori, funzionali Giada Frasconi (Giovanna) e Tatsuya Takahashi (Riccardo), meno Carlo Di Cristoforo (Jago). Una lode alla meritevole prova del coro (soprattutto nella sua sezione tenorile), ottimamente preparato da Giovanni Andreoli. Per ovvie e motivate ragioni, ancora con mascherine.
L'allestimento, per quel che concerne scene e costumi, era a firma di Domenico Franchi. Di quegli spettacoli per cui le vecchine fanno “ooh” e i blogger locali si sbizzarriscono con “minimale ed elegante”. Gradevole, certamente. Pannelli neri mobili a disegnare effimeri spazi scenici, un'eco lontana di certa rarefazione alla Pier'Alli; una serie di gradinate che riducono notevolmente lo spazio scenico per le masse corali, un sipario nero che racchiude e incornicia alcuni momenti musicali. Oggetti di scena e decorazioni qui e là; un tronco incandescente (la cosa peggiore, a mio avviso) a definire l'accampamento nei pressi del castello; qualche frammento di grandi cornici dorate (che fa un po' “caro, vecchio Ronconi”), un lampadario abbandonato per terra; archi gotici appena abbozzati e, per Aquisgrana, una parziale visione della tomba di Carlo Magno con tanti lumini (effetto Taffo) alla base; per la Saragozza finale, due alberi che si trasformano (quasi a chiudere il cerchio) in una sorta di roveto ardente. Efficaci a suggerire l'epoca, gli ambienti, la storia; assieme ai costumi, tradizionalmente “d'epoca” per i protagonisti, monocromatici, tra il piombo e il nero, per il coro. Le luci, di Alessandro Verazzi, esasperavano questa versione cupa e notturna esaltando con forti puntamenti la fisicità dei protagonisti (anche se bisogna ammettere che non proprio tutti i cantanti hanno saputo 'cercare' la luce nel modo giusto). Suggestivo lo squarcio di azzurro verso i giardini. Come a proiettare 'fuori' l'attesa (e la speranza) della luce.
Nuova produzione, ma una regia che sapeva d'antico. Nessuno qui vuole a tutti i costi stravolgimenti d'ambiente, il “famolo strano” solo per il gusto di farlo. Ma Davide Garattini Raimondi ha davvero tirato dall'armadio l'antica gestualità in odor di naftalina: già all'aprirsi del sipario quel coro stipato che canta “Allegri, beviam” restando tutti immobili (e senza allegria) mentre alcuni figuranti per terra giocano a morra e coi dadi; nella parte quarta, ecco le coriste (come da libretto) con indosso le mascherine (sugli occhi), “Sol gaudio, sol festa”, tutte immobili (e senza gaudio), con le loro coppe nelle mani immobili, braccia immobili, mentre un coppiere versa del vino (ovviamente la brocca è vuota; ancora nel 2022 simili convenzioni sceniche ?). Il baritono intona il suo “O sommo Carlo” e se il libretto specifica: “fissando la tomba di Carlo Magno”, Garattini Raimondi piazza il cantante rivolto verso la sala, spalle al coro, spalle alla tomba. Che sia il settimino “Vedi come il buon vegliardo”, che sia il terzetto “Tu se' Ernani!.. mel dice lo sdegno“, non una interazione tra i personaggi, se non l'immobilità inespressiva, quasi da esecuzione in forma di concerto (che costerebbe forse pure meno...). Applausi, comunque, e successo generale.