L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il pensiero di un Viaggio

di Roberta Pedrotti

Il quarantacinquesimo Rossini Opera Festival si chiude con il bel successo di pubblico per Il viaggio a Reims in forma di concerto al Palafestival proiettato anche in Piazza del Popolo. Una serata ricca di spunti di riflessione per un festival che ci ha abituati a cercare non solo l'entusiasmo, ma anche il dubbio e la discussione.

PESARO, 23 agosto 2024 - Centonovantanove anni fa, Gioachino Rossini arriva a Parigi e compone la sua prima opera per la capitale francese, una cantata scenica (così siamo abituati a definirla per contesto e simbologia, ma il libretto riporta “dramma giocoso”) inserita nelle celebrazioni per l'incoronazione di Carlo X. Durato lo spazio di un mattino il tentativo di restaurazione assolutista, Il viaggio a Reims – tenuto a battesimo da una schiera impressionante di superstar – sparisce e fa semmai capolino in altre forme legittimate (il riutilizzo d'autore di vari numeri nel Comte Ory) o clandestine (Andremo a Parigi? di spirito rivoluzionario nel 1848 e Il viaggio a Vienna per le nozze di Franz Joseph d'Asburgo ed Elizabeth di Baviera nel 1854), ma è considerata a tutti gli effetti un'opera perduta.

Quarant'anni fa, il Rossini Opera Festival è in grado di ripresentarla al pubblico, grazie al lavoro di Janet Johnson e Philip Gossett per la Fondazione Rossini. Claudio Abbado sul podio della Chamber Orchestra of Europe, il coro Filarmonico di Praga diretto da Lubomír Mátl, la regia di Luca Ronconi con le scene e i costumi di Gae Aulenti, le marionette della famiglia Colla, una compagnia spettacolare, l'auditorium Pedrotti che diventa fulcro di un pionieristico spettacolo multimediale diffuso: è l'evento del secolo, una riscoperta paragonabile a quella di Bach proposta da Mendelssohn nell'Ottocento. Nel 1992 una ripresa al Teatro Rossini celebra il bicentenario del compositore, un'altra nel 1999 (con cast tutto rinnovato e la bacchetta di Daniele Gatti) al Palafestival festeggia i vent'anni del Festival.

Dal 2001 Il viaggio a Reims, con la sua locandina popolosa perfetta per dare un momento di gloria a ogni interprete, diventa palestra annuale dei giovani dell'Accademia Rossiniana nell'allestimento di Emilio Sagi, mentre nel cartellone senior il titolo torna ora, a chiudere il quarantacinquesimo Rof nell'anno di Pesaro capitale italiana della cultura, a quattro decenni esatti dalla mitica prima epifania.

Ci sono sufficienti motivi per emozionarsi e commuoversi, questa sera, lasciando scorrere liberamente le memorie custodite nel Palafestival, la storia ufficiale e le storie personali, i ricordi tramandati e quelli vissuti, la grandezza di un'opera dagli innumerevoli livelli di lettura, comica, encomiastica, allegorica, politica. Certo, bisogna dire che anche nella forma oratoriale non sarebbe stato disutile introdurre qualche piccolo elemento scenico, per esempio un segno distintivo per i personaggi (specie per gli uomini, quando si schierano una decina di signori in nero una bandierina o un accessorio potrebbero aiutare) se non almeno il cappellino di Folleville. L'impianto costruito in funzione della scena di Bianca e Falliero è più angusto di quanto lo spazio ammetterebbe, ma è senz'altro un peccato non avere nemmeno i piccoli spunti teatrali che solitamente, specie quando si tratta di commedia, emergono anche in esecuzioni concertanti.

Altra questione è quella di alcune scelte testuali. È ormai noto da lustri che il coro “L'allegria è un sommo bene”, in apertura del quadro finale, è ricavato da “È follia, nel fior degli anni” di Maometto II. Nel 1984 non era ancora stato individuato, ma poi è stato inserito da Abbado anche nella successiva incisione con i Berliner e sarebbe stata una bella occasione per risentirlo a Pesaro (non essendo previsto un coro nella produzione dell'Accademia non ci aspettiamo di trovarlo lì, mentre stasera abbiamo quello del Ventidio Basso preparato da Giovanni Farina). Indispettisce anche qualche colpo di forbici di troppo. Non quelli nelle strofe dell'Improvviso finale, che nella loro ripetizione su versi encomiastici ammette in effetti qualche scorciatoia senza pregiudicare l'equilibrio complessivo, bensì quelli nelle tre ottave di “Arpa gentil, che fida”, che fanno sparire i primi sei versi dell'ultima strofa “Contro i fedeli ancora | lotta falcata luna, | ma al sacro ardir fortuna | propizia ognor sarà. | Come sul Tebbro e a Solima, | foriera di vittoria, | simbol di pace e gloria | la Croce splenderà.”. Nel 1824 teneva banco la questione attualissima dell'indipendenza greca dall'impero ottomano e si favoleggia perfino che l'accento accorato con cui Giuditta Pasta intonò queste parole, esplicite per il pubblico d'allora, abbia influenzato la decisione della Francia di intervenire nel conflitto. Lo stesso soggetto pervade con prepotenza anche il testo del Siège de Corinthe (il giuramento di Aghia Lavra e il massacro di Missolungi sono rappresentati in maniera palese) e nel Viaggio è sottinteso nel breve scambio di battute (“le cose vanno bene”) fra Don Profondo e l'orfana ellenica Delia, recitativo spesso soppresso e qui presente. Perché ora eliminare il riferimento alla questione greco-ottomana? Facile immaginare che l'aspetto religioso del conflitto sia considerato scottante, anche se ci piace pensare al pubblico del Rof come abbastanza smaliziato da contestualizzare storicamente l'appello di Corinna. Pensiamo che anche la direzione del festival lo sia, dato che ogni anno questi versi sono cantati senza problemi da tutti i soprani che affrontano la parte per l'Accademia (recite diffuse anche in streaming e conservate su youtube). Di chiunque sia stata l'idea, sottolineiamo che questa incide anche sulla struttura musicale del numero, spezzando la simmetria fra le strofe: se proprio quella “falcata luna” (o qualsiasi altra cosa) risultava indigesta, si sarebbe potuto cambiare qualche verso, cosa che in fondo nella storia del teatro si è sempre fatta all'occorrenza.

Nel concreto del concerto, la compagnia di canto schiera un parterre degno di attenzioni e riflessioni. In primo luogo, colpisce la Corinna di Vasilisa Berzhanskaya. Siamo abituati ad ascoltare la parte affidata a soprani schiettamente lirici, ma nel 1825 Giuditta Pasta, che ne fu prima interprete, frequentava ancora parti contraltili, come altre artiste dalla voce estesissima in cui si ravvisava quasi una doppia natura (Ermafrodite armoniche le chiama Marco Beghelli in un suo saggio, rifacendosi a commenti d'epoca). Berzhanskaya sembra intenzionata a far rivivere quel mito, affondando tenebrosa nel registro più grave e filando acuti chiarissimi. Si potrebbe speculare sull'opportunità, oggi e in termini di salute vocale a lungo termine, di spingersi a questi estremi, ma è indubbiamente un'interpretazione assai suggestiva, che fa ascoltare diversi passaggi in una luce diversa e dà forma a un suono che spesso immaginiamo soltanto. Semmai, risulta un po' sbilanciato il rapporto con la Melibea di Maria Barakova, che aveva trovato più agio ad affrontare la tessitura grave di Ernestina nell'Equivoco in un teatro di dimensioni più raccolte e con ben dosati effetti comici, mentre qui la sua voce più chiara e protesa all'acuto finisce per sembrare più sopranile di quella di Corinna.

Anche la scelta di Karine Deshayes come Madama Cortese sembra lì per mettere in discussione (ed è un bene) tutte le nostre abitudine in termini di catalogazione delle voci: mezzosoprano di nome, in realtà si è specializzata nel repertorio belcantista sul confine con il soprano, ruoli Colbran e Falcon, seconde donne come Adalgisa e Giovanna Seymour, ma anche Norma e Vitellia. La cavatina “Di vaghi raggi adorno” non sembra esserle comodissima e spesso il suono si affievolisce, mentre risulta più a fuoco la Tirolese del finale. Non offre, invece, nessun dubbio di repertorio la Folleville di Jessica Pratt, che, anzi, con la follia francese della contessina sembra aver più confidenza che non con i palpiti della veneziana Bianca, filando con souplesse stralunati sovracuti e lanciandosi in pirotecniche ascese. Anche nel suo caso, però, ci si chiede se insistere sugli estremi vertici sopra il pentagramma, non senza sfiorare talvolta l'abuso, le convenga e non rischi di assottigliarle troppo timbro ed emissione.

Sebbene privo di un'aria – se si esclude l'inno finale – il barone di Trombonok è un fondamentale collante dell'azione e Nicola Alaimo con la sua gustosa incarnazione ci offre anche le percezioni più teatrali della serata. Dmitry Korchak prende di petto la parte del conte di Libenskof, con uno slancio che ne proclama forma, mezzi ed energie, ma che forse potrebbe addolcirsi ogni tanto (anche perché quando vuole alleggerire e sfumare dimostra di saperlo e poterlo fare). Anche Erwin Schrott si presenta in buona forma vocale: come sempre spavaldo, il suo Don Profondo non soffre troppo la libertà tipica del basso baritono uruguaiano, che anzi pare più equilibrato del solito. Impeccabile è, invece, ancora una volta il gusto di Vito Priante, Don Alvaro assai ben cantato e interpretato.

Michael Mofidian, forse intimorito dalla storia e dall'importanza della parte in questo contesto (prima di lui, qui, solo Ramey e Pertusi nel massimo splendore), è un Lord Sidney un po' più titubante di quanto facessero sperare le belle prove nelle cantate del 2023 e come Fenicio in Ermione quest'anno, ma il giovane scozzese ha sicuramente le carte in regola per farsi valere i futuro. Fa, viceversa, meglio rispetto al Barbiere, il tenore Jack Swanson nel panni di Belfiore, sebbene l'impressione sia una piacevole dote di natura non ancora sostenuta e resa sicura da una tecnica agguerrita.

Tutti visti in altre opere e concerti in cartellone, completano il cast Alejandro Baliñas (Don Prudenzio), Tianxuefei Sun (Don Luigino), Paola Leguizamón (Delia), Martiniana Antonie (Maddalena), Vittoriana De Amicis (Modestina), Jorge Juan Morata (Zefirino / Gelsomino), Nicolò Donini (Antonio). Alessandro Benigni accompagna al fortepiano i recitativi senza poter contare su violoncello e contrabbasso.

A ereditare un podio solenne come quello che a Pesaro – se si esclude l'Accademia – è stato occupato solo da Abbado e Gatti troviamo ora Diego Matheuz, invero pesantuccio e di poco spirito, oltre che non troppo incline a concertare in modo da sostenere le voci e trovare una linea di omogeneità fra le voci, tant'è che ricorre il sospetto non troppo velato che molti rilievi mossi a questo o quell'interprete avrebbero potuto essere smussati da un'altra cura e sensibilità. Si sarebbe anche messa a miglior partito la qualità dell'Orchestra Rai, che comunque non manca di ribadire la sua qualità superiore nei soli (d'obbligo citare il flauto di Giampaolo Pretto e l'arpa di Margherita Bassani, ma non per questo dimentichiamo tutti i colleghi) e nell'impasto complessivo. Anzi, mettendo fuori discussione sia l'ottimo livello della Rai e sia la benemerita buona volontà delle forze locali coinvolte nel Rof e senza entrare in ovvie questioni di natura economica e di rapporto con il territorio, è pure un dato di fatto che la differenze di resa dei vari complessi dovrebbero spingere a una riflessione per il futuro, anche come stimolo di crescita professionale.

Molte sono le riflessioni che porta con sé questa serata, come molte sono le chiavi di lettura del Viaggio a Reims: la storia di una banda di squinternati alle terme che si dimentica di prenotare per tempo un viaggio e nello stesso tempo metafora di arti, geopolitica, anelito di pace e armonia, cantata encomiastica, musica d'occasione e musica “d'ogni tempo”. Come quarant'anni fa interno ed esterno si unirono nella regia di Ronconi, così oggi più semplicemente la serata è portata in piazza del Popolo tramite maxischermo. Nel palafestival gli applausi piovono copiosi, si giubila e si premiano soprattutto le primedonne Berzhanskaya e Pratt. Pesaro festeggia, festeggia quarantacinque anni di Festival e guarda avanti, per tornare a discutere o brindare, a indignarsi, scuotersi o entusiasmarsi. 


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