L’Ape musicale

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Il tema della voce nelle Lettere

Non si è sempre, o perlomeno non sempre allo stesso modo, discusso di voce. L’illustre solofrano dimostra che in epoca rinascimentale è presente una curiosa sensibilità verso questo tema, ed egli si concentra in particolare sulla sfera canora.

Nell’ambito degli studi di Maffei concernenti la vocalità risulta interessante la definizione di suono da lui stesso esplicitata nella Scala naturale:

«A far il suono, il qual è vero oggetto dell’udire, si richiedono tre cose. La prima è la cosa che percuote; la seconda è la cosa che è percossa e la terza è il mezzo, cioè l’aria, perciocché mai non arriverebbe suono alle orecchie, se l’aria, la qual si ritrova in mezzo alla cosa percossa, e che percuote, non ricevesse prima il suono, e poi di passo in passo porgendolo, non lo conducesse all’orecchio.»

Queste parole richiamano l’esempio del vaso di rame (chiaramente ispirato al modello del vaso teatrale di cui Aristotele tratta nel De anima) che Maffei porta nelle Lettere:

«[...] per voler fare un vase di rame, v‘è necessario l’artefice; il qual è ’l fabbro. V’è necessario l’instromento; il quale è l’incudine, e lo martello; e v’è necessaria la materia; perche né lo maestro, né l’instromento fariano effetto alcuno, s’il rame non vi fusse. Et applicando questo alla voce, come del nostro ragionamento radice; dico che gli artefici sono le potentie dell’anima nostra e l’instrumento è la trachea o (per più chiaramente dire) la canna della gola, e la materia è l’aria (quella dico) che da noi è chiamata spirito, o fiato.»

Risulta immediatamente evidente la centralità dell’aria non solo in qualità di medium, ma anche come materia che anima, un respiro che dà vita a suoni e voci; inoltre, ogni suono ha una significativa componente corporea: le sonorità non possono slegarsi dai corpi poiché vivono in essi e da loro sono originate. Nelle Lettere, in particolare in quella che apre questa ricca raccolta,è contenuto il cuore del pensiero di Maffei a proposito del tema della vocalità. Nella prima lettera troviamo un vero Discorso sulla voce: l’autore indugia sul tema della vocalità e sullo stretto legame fra corpo, anima e voce e sulla sublimazione di quest’ultima nell’arte canora. Quando parliamo o cantiamo il respiro si trasfigura, il nostro corpo vibra, le corde vocali si attivano, diven­tiamo insieme con­duttori e amplificatori per suoni e emozioni e la voce valica i confini dell’individuo, schiudendolo all’universo circostante. Accortosi di questa analogia, Maffei incoraggia un passaggio quasi automatico dall’una all’altra forma, il suo canto accompagna la voce dolcemente, partendo da tonalità tipiche del parlato.

La prima epistola contenuta nelle Lettere rappresenta una significativa fonte sulle prassi esecutive vocali della seconda metà del XVI secolo, per questo è passata alla storia come Lettera sul canto: è un anello di congiunzione tra la tradizione del canto umanistico praticato nelle corti rinascimentali italiane, sulla base dei modelli presentati nel Cortegiano di Baldassarre Castiglione, e il nuovo stile della musica monodica del primo barocco. Nel Cortegiano Castiglione delinea il cortigiano ideale ricalcando la propria biografia; Baldassarre Castiglione non impone dogmi, ma rende partecipi della sua esperienza e prenderne esempio è a discrezione personale. La piega manualistica dell’opera è una conseguenza, non un fine volontario, e, nonostante i riferimenti musicali, il Cortegiano rimane un compendio comportamentale: fu Maffei ad adattarne i principi al canto. Quest’ultimo aspirava a un aristocratico di sostanza, ricco di spirito, secondo canoni umanistici, che tuttavia risultano anche estremamente moderni. Teorizza un equilibrio di educazione, grazia e bontà, respingendo l’affettazione. L’uomo del Cortegiano evita atteggiamenti stridenti, pratica la “sprezzatura” (neologismo coniato dal Castiglione secondo cui è bene che il cortegiano «nasconda l’arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi»; bisogna rifuggire l’affettazione, è dalla sprezzatura che deriva la vera grazia), che, in Maffei, si tramuta in disinvoltura nell’esecuzione musicale.

Nella Lettera sul canto è teorizzato un “canto cavalleresco” per gli ambienti blasonati (impregnato di sprezzatura, di disinvoltura, idea che fluttua tra le parole di Maffei, anche se tale termine non è mai esplicitamente impiegato), non affettato: nell’enunciarne le caratteristiche, Maffei ci offre notevoli informazioni sulle pratiche esecutive del tempo, fornendo numerose esemplificazioni delle prassi di ornamentazione della linea vocale. La formulazione di questa tecnica può essere letta anche come la risposta nobiliare all’appropriazione, in atto nella società napoletana, della musica da parte dei nuovi ceti. Infine, utilizzando le sue competenze mediche, dà consigli terapeutici per tutelare l’organo fonatorio. Così si apre la prima lettera:

«La dolce armonia dell’amenissimo canto, il qual s’intende in casa di V. S. Illustrissima, nell’ore a tale essercitio destinate, l’ha forsi parata innanzi occasione di domandarmi della voce e del modo che si potria tenere accioche di passaggiare con la gorga senza maestro apparar si potesse. Ma vedendo io dell’una, e dell’altra domanda; la risposta non meno ad isprimersi malaggevole, che lunga à raccontarsi, sono stato di parere di dimostrare a V. S. in questa carta piu tosto ch’a bocca, ciò che ne sento. E son certo che quanto a chi non intende recara noia questo mio discorso, tanto a V. S. apportarà diletto. Il che mi si promette si dalla bella intentione che tiene di voler essere agli altri soperiore, non per altro mezzo, che per il sapere, e si ancora, per che non credo, che nella filosofia, o nella medicina, potesse occorrer cosa, che di questa fusse a saper piu bella e necessaria»

È un’epistola alquanto particolare, ha l’aspetto e la forma di un trattato (il tradizionale contenitore del sapere musicale), eppure non ha la pretesa di definirsi tale. L’autore si rivolge a un aristocratico, il conte d’Altavilla appunto, presso la cui corte, come sappiamo, prestò a lungo servizio, e motiva tale scritto riferendo che la dolce armonia del canto che riecheggia nella residenza del nobiluomo lo ha spinto a chiedergli come si potrebbe impostare una voce senza la guida di un maestro. Le altre lettere sono dedicate ad argomenti differenti, ma anche le dissertazioni su tematiche non dichiaratamente legate alla voce e al canto forniscono importanti spunti di riflessione. La voce, il cantare e la musica in generale sono alla base del pensiero maffeiano: sono pietre di paragone, esempi spesso richiamati e per approfondirli è necessario leggere le Lettere nella loro interezza. I Discorsi filosofici sono costellati di considerazioni che arrischino quella sul canto. Ad esempio, nel secondo libro delle Lettere, in una missiva destinata alla duchessa di Gravina, Maffei si interroga su cosa debba fare un vero medico:

«Dunque s’i rimedi sono quelli ch’a posseder la sanità, com’ad un vero fine ci conducono, non potendosi d’essi né la qualità né la quantità sapere, non deve V. S. ingombrarsi il petto di meraviglia se l’arte della medicina non ha prodotto in lei quello effetto che medici prometteano e ch’ella sperava. […] Qual è dunque la vera dirammi? Quella (rispondo) la quale dalle preciose, e sante mani del benedetto Christo e suoi degni ministri, si riceve. Questi sono veraci e salutiferi medici. Questi non con i rebarbari e siropi, nella qualità e quantità convenevole adoperati, ma solo col mezzo delle giuste e buone azioni, con la sanità insieme lunghissima vita porgono. Questi sono i medici, i quali sono stati dall’altissimo Iddio per la necessità creati. Questi sono i medici, i quali (come il divino Giacomo nella sua canonica pistola scrive) orando sanano, e ongendo il capo (non dico) d’oglio fisico o chirurgico, ma spirituale e sacro, la vera sanità à gl’infermi rendono.»

Quindi è la sua voce che cura, facendosi quasi corporea; è una musica, attraversa la carne e raggiunge lo spirito, sanando così il fisico. Il fattore musicale è sempre tenuto in considerazione da Maffei, probabilmente per deformazione professionale (come già ricordato, era anche musico), oppure perché si rese conto degli effetti che la musica ha sulla psiche. Ancor prima di Maffei, fu Pitagora a evidenziare tali proprietà. Il filosofo greco riconobbe nella musica le stesse proporzioni matematiche che guidano l’armonioso moto degli astri: secondo lui, i corpi celesti emetterebbero una melodia non percepibile dall’imperfetto orecchio umano, la cosiddetta musica delle sfere, che toccherebbe i cuori, influenzando i moti psicologici. Lo stesso farebbe la musica udibile. L’armonia che la caratterizza unifica i contrari, per questa ragione piace e colpisce. Però, il vero precursore di entrambi è Aristotele, che ha insegnato a Maffei che non solo la musica, ma anche la voce pura provoca emozioni, scuote le menti e i corpi, poiché ha un’intrinseca musicalità. Le parole dell’oratore influenzano l’ascoltatore perché il tono (inteso come intonazione) della sua voce riesce a toccare l’anima dell’altro in quanto doppio sonoro dell’universo interno della persona. La voce pura, quella che si fa musica e la musica in qualità di voce di uno strumento, oltre a intrattenere, possono, quindi, anche essere manifestazioni di un’arte del sanare.

Possiamo affermare che Maffei profili, nel XVI secolo, nozioni che modernamente faremmo ricadere nella musicoterapia; ciò che sconcerta è che egli preannunci codesta disciplina secoli prima che essa assuma un nome e un’identità formalizzata; Maffei, in questo, è da considerarsi un grande pioniere, seppur inconsapevole: egli si riconosce come innovatore, ma in materia di tecnica canora, e noi aggiungiamo a ciò il fatto che sia precursore di quella branca del sapere che è odiernamente nota come scienza musicoterapica. Maffei si rende conto che la musica è qualcosa di più di una piacevole esecuzione, che la voce, parlata o cantante, è espressione dell’interiorità; questo noi oggi lo sappiamo bene, grazie a quel bagaglio culturale di cui Maffei non poteva avvalersi, ma che ha contribuito a creare.

Diverse sono le scuole di pensiero mediche e i pazienti, così come le pratiche vocali e musicali in generale, gli strumenti e i gusti del pubblico. La voce è un mezzo fondamentale per rivendicare l’unicità della propria interiorità, sia che si tratti di voci umane sia di quelle di strumenti musicali. Ogni voce è un universo a parte, ogni suono suscita emozioni differenti in ogni individuo; ecco un’altra digressione musicale da parte di Maffei in una riflessione non contenuta nella Lettera sul canto:

«E se della musica volete intendere, udite, uno vuole sentire suonare la chitara, un altro la lira, Il S. Anello vorrebbe il violone. Il S. Achille lo leuto. Quello desiderarebbe intendere il suono senza molte fughe, quell’altro vorrebbe contrappunto, e fughe assai. Lo S. Giovan Luigi, il canto più ch’il suono. M. Cola Pietro, il suono più ch’il canto, uno biasima la gorga, un altro non vorrebbe sentir se non passaggi di garganta, un lodar il cantar dolce e soave; un altro il cantar nella cappella»

Partendo da un discorso sulla medicina, Maffei torna nuovamente sulla musica, ulteriore testimonianza del fatto che, per riuscire a costruire un quadro completo della concezione maffeiana di voce, è capitale leggere i suoi scritti come un unicum: in questo modo evinceremo che l’illustre solofrano trasfigura la notoria idea di voce parlata o cantante, valorizzandola come un’entità carica di potenziale intrinseco.


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