L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

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Maciste. Sicuramente Cabiria deve molta della sua fama alla creazione della figura di Maciste, destinato a godere di autonome fortune, sia nel cinema muto, sempre nell'interpretazione di Bartolomeo Pagano, sia poi in nuove forme, dal dopoguerra, con l'avvento del sonoro e del colore. Del modello che il forzuto numida, schiavo e compagno d'avventure del patrizio Fulvio Axilla, costituì per la propaganda fascista e la costruzione dell'icona del Duce si è scritto e parlato molto, tuttavia quella prima inquadratura di Pagano in riva al mare, con un controluce a sfumarne l'incarnato africano, la brezza a increspare il manto che ne cela a malapena i muscoli, la posa statuaria con mascella ben evidente, è una nettissima anticipazione dell'iconografia mussoliniana. Il regime s'ispirò a Maciste, se ne appropriò, si abbeverò certamente a un'idea di romanità che si faceva vessillo del verso virgiliano perverso e decontestualizzato “Tu regere imperio populos, Romane, memento”. Maciste a sua volta incrementò le sue fortune, tornò più volte sugli schermi sempre uguale a se stesso e pur proteiforme, calato nella quotidianità o in nuovi contesti romanzeschi: contadino e alpino, medium, poliziotto e atleta. Schietto, strapaesano, gargantuelico, semplice e buono d'animo, impavido, giusto e gioioso: un eroe perfetto per sognare un riscatto a cavallo della prima guerra mondiale, l'immagine perfetta, dunque, di cui appropriarsi per un regime. Il povero Maciste, ovviamente, non ha colpa se l'efficacia della sua caratterizzazione lo ha reso non solo una delle prime icone cinematografiche, ma anche un modello esemplare della dimensione mediatica della politica di massa che tuttora ci affligge. È modello ma anche frutto del suo tempo, incarnazione e radice di un immaginario. Maciste, rivisto oggi, mantiene di certo un'inquietante attualità retorica e propagandistica, tuttavia, con più leggerezza, dimostra una formidabile freschezza nel suo costituire un archetipo fortunatissimo nella produzione popolare e di genere. Convergono in lui Gargantua (il gran mangiatore e bevitore che vediamo qui arriverà, in Maciste all'Inferno, a rifornirsi con intere cisterne di vino), il buon selvaggio illuminista, l'ironico eroe picaresco, nascono con lui il supereroe, il forzuto, la spalla nella coppia di avventurieri o paladini della giustizia. Nel suo rapporto con Fulvio si anticipa il dualismo e la complementarietà di molti protagonisti del cinema a venire (basti pensare alla classica coppia investigativa statunitense, con il poliziotto nero e il bianco, l'esperto e riflessivo, l'irruente e anticonvenzionale) ma senza cadere nello stereotipo e nello schematismo. Anzi, nello sfumare i contorni dei suo personaggi, Pastrone non rinuncia all'ironia quando, per esempio, i due “audacissimi” sobbalzano spaventati dall'avvicinarsi alle loro spalle dall'anziana schiava Croessa. Il patrizio romano non è privo, in effetti, di aspetti antieroici, la sua virtù morale è indubbia, ma pare talora inconcludente, il percorso che lo porta al lieto fine è decisamente tortuoso, fra piani imperfetti, errori e divagazioni. Viceversa, Maciste, pur non mancando d'irriflessiva goliardia (piega le sbarre non per fuggire ma per “ingannare la noia” e si ne approfitta poi solo per compiere una “allegra vendetta” in attesa di essere giustiziato), nelle sue azioni è spesso più concreto, paternamente affezionato a Cabiria, che subito riconosce, quanto Fulvio sembrava più infiammato prima dall'eroismo del salvataggio della bimba, poi dal fascino liliale della fanciulla. Il rapporto fra schiavo e padrone, per quanto amichevole, non sovverte mai l'ordine sociale costituito, e Maciste, fedelissimo, non sembra mai minimamente patire la sua condizione servile, né Fulvio abusare del suo potere. Allo stesso modo Cabiria nutrirà un affetto quasi filiale per Sofonisba anche dopo che questa l'ha riconsegnata al sordido Karthalo e se la massa servile del buon Batto, durante l'eruzione, saccheggia il tesoro del padrone, verrà punita dall'assalto dei pirati fenici e ben compensata dall'eroica fedeltà alla padroncina della nutrice Croessa. Nulla minaccia i rapporti fra le classi, accettati come giusti e utili, con un idillio che solo la maestria di Pastrone riesce a salvare dal bozzetto paternalistico, stemperandolo invece in un avvincente ritmo narrativo, in un perfetto equilibrio fra dramma, azione e ironia (anche quella occasionalmente involontaria è affettuosa e ammirata), in una definizione dei caratteri che sfrutta e crea stereotipi, ma non ne rimane vittima, reinventandoli, anzi, mescolandone gli elementi spesso a sorpresa.


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