Una notte con Cabiria
di Roberta Pedrotti
In collaborazione fra il Teatro Comunale e la Cineteca di Bologna, Cabiria celebra i suoi primi cento anni con una magnifica proiezione integrale della versione restaurata con la colonna sonora originale eseguita dal vivo dai complessi felsinei diretti da Timothy Brock, revisore della partitura. Il capolavoro di Giovanni Pastrone, con didascalie di Gabriele D'Annunzio, rifulge in tutto il suo profetico splendore di manifesto di un'epoca e di un'arte agli albori che avrebbe finito per condizionare fino (almeno) ai giorni nostri.
BOLOGNA, 4 luglio 2014 - Cabiria va vista. Ciò vale, naturalmente, per il cultore di cinema che si rispetti, ma anche per chi s'interessa, a vario livello degli altri frutti dell'ingegno e del pensiero umani, arti visive e drammatiche in primo luogo, ma non soltanto. È un'esperienza preziosa, ma molto contano il contesto e la modalità della proposta, perché per comprendere e apprezzare appieno un'opera di questo respiro è quantomai importante dare il giusto spazio a questo respiro. Il Teatro Comunale di Bologna è la cornice perfetta, sia per l'oggettiva raccolta bellezza, sia per il rigore filologico di un'arte che al suo nascere condivideva necessariamente gli spazi con l'opera, l'operetta, la prosa. L'esecuzione dal vivo della colonna sonora, poi, non è solo uno sfarzoso recupero della prassi antica, ma conferisce un valore aggiunto fondamentale alla pellicola, che nella sua grandiosità rischia di essere dimidiata, impoverita là dove la si unisca al suono smilzo e stridulo dei pianoforti verticali spesso utilizzati a tale scopo. Nemmeno un gran coda affidato a un grande pianista, probabilmente, potrebbe restituire lo spessore narrativo ed evocativo dell'originale concezione orchestrale del Kolossal. Anche l'esecuzione dell'ouverture (con il coro del Comunale a prestare anche il baritono solista, rimasto anonimo nel programma di sala) come parte integrante della proiezione conferisce debita solennità e introduce come si conviene un'opera titanica ma non plantigrada, perfino lieve nel suo equilibrio, nella sua capacità di combinare ogni elemento chiudendo in un perfetto meccanismo ogni filo narrativo, senza nulla sacrificare allo stupore, al facile effetto, alla spettacolarità.
Goduta così, concedendole tutto lo spazio di cui ha bisogno, Cabiria trionfa e avvince dipanando la sorprendente inventiva e coerenza che la pervadono incessantemente per oltre tre ore di durata, mostrando tutte le sue sorprendenti influenze sul cinema a venire, pietra miliare tecnica, iconografica, semantica, estetica e drammaturgica. Fonte inesauribile di temi e soluzioni, emblema di un nuovo codice in cui riverberano la storia del melodramma e la riflessione brechtiana sullo straniamento (difficile immaginare i cartelli del teatro epico senza il contraltare delle didascalie cinematografiche). Cento anni Cabiria li dimostra, ma non perché susciti il sorriso indulgente di un'arte ancora ingenua o possa sembrarci mai in qualche modo superata, ma perché la sua nobile antichità ne permette di distinguere la statura, di riconoscerne il valore assoluto e l'inesauribile eredità. Nonostante l'evoluzione tecnologica esponenziale dei venti lustri a seguire, l'impressione è quella di un'arte già formata alla nascita, sorta armata come Atena dalla testa di Zeus, con le idee già ben chiare, ma la serena consapevolezza di un lungo tempo davanti a se per dimostrare tutto il suo potere. Nel suo essere smisurata e colossale, difatti, Cabiria conosce la misura, non preme il pedale dell'eccesso, ma armonizza tutti gli elementi, pur così ricchi e fecondi da poter vivere di vita autonoma. La citazione forse più scontata è nell'eco suscitata dalla scena del sacrificio dei fanciulli all'idolo di Moloch e al salvataggio della piccola Cabiria, momento omaggiato due anni dopo da Griffith in Intolerance, ma anche affettuoso e rutilante riferimento di Spielberg per le avventure di Indiana Jones o (da produttore e non più da regista) del giovane Sherlock Holmes. C'è, tuttavia, molto di più e il film va visto non solo per scoprirlo.
Maciste. Sicuramente Cabiria deve molta della sua fama alla creazione della figura di Maciste, destinato a godere di autonome fortune, sia nel cinema muto, sempre nell'interpretazione di Bartolomeo Pagano, sia poi in nuove forme, dal dopoguerra, con l'avvento del sonoro e del colore. Del modello che il forzuto numida, schiavo e compagno d'avventure del patrizio Fulvio Axilla, costituì per la propaganda fascista e la costruzione dell'icona del Duce si è scritto e parlato molto, tuttavia quella prima inquadratura di Pagano in riva al mare, con un controluce a sfumarne l'incarnato africano, la brezza a increspare il manto che ne cela a malapena i muscoli, la posa statuaria con mascella ben evidente, è una nettissima anticipazione dell'iconografia mussoliniana. Il regime s'ispirò a Maciste, se ne appropriò, si abbeverò certamente a un'idea di romanità che si faceva vessillo del verso virgiliano perverso e decontestualizzato “Tu regere imperio populos, Romane, memento”. Maciste a sua volta incrementò le sue fortune, tornò più volte sugli schermi sempre uguale a se stesso e pur proteiforme, calato nella quotidianità o in nuovi contesti romanzeschi: contadino e alpino, medium, poliziotto e atleta. Schietto, strapaesano, gargantuelico, semplice e buono d'animo, impavido, giusto e gioioso: un eroe perfetto per sognare un riscatto a cavallo della prima guerra mondiale, l'immagine perfetta, dunque, di cui appropriarsi per un regime. Il povero Maciste, ovviamente, non ha colpa se l'efficacia della sua caratterizzazione lo ha reso non solo una delle prime icone cinematografiche, ma anche un modello esemplare della dimensione mediatica della politica di massa che tuttora ci affligge. È modello ma anche frutto del suo tempo, incarnazione e radice di un immaginario. Maciste, rivisto oggi, mantiene di certo un'inquietante attualità retorica e propagandistica, tuttavia, con più leggerezza, dimostra una formidabile freschezza nel suo costituire un archetipo fortunatissimo nella produzione popolare e di genere. Convergono in lui Gargantua (il gran mangiatore e bevitore che vediamo qui arriverà, in Maciste all'Inferno, a rifornirsi con intere cisterne di vino), il buon selvaggio illuminista, l'ironico eroe picaresco, nascono con lui il supereroe, il forzuto, la spalla nella coppia di avventurieri o paladini della giustizia. Nel suo rapporto con Fulvio si anticipa il dualismo e la complementarietà di molti protagonisti del cinema a venire (basti pensare alla classica coppia investigativa statunitense, con il poliziotto nero e il bianco, l'esperto e riflessivo, l'irruente e anticonvenzionale) ma senza cadere nello stereotipo e nello schematismo. Anzi, nello sfumare i contorni dei suo personaggi, Pastrone non rinuncia all'ironia quando, per esempio, i due “audacissimi” sobbalzano spaventati dall'avvicinarsi alle loro spalle dall'anziana schiava Croessa. Il patrizio romano non è privo, in effetti, di aspetti antieroici, la sua virtù morale è indubbia, ma pare talora inconcludente, il percorso che lo porta al lieto fine è decisamente tortuoso, fra piani imperfetti, errori e divagazioni. Viceversa, Maciste, pur non mancando d'irriflessiva goliardia (piega le sbarre non per fuggire ma per “ingannare la noia” e si ne approfitta poi solo per compiere una “allegra vendetta” in attesa di essere giustiziato), nelle sue azioni è spesso più concreto, paternamente affezionato a Cabiria, che subito riconosce, quanto Fulvio sembrava più infiammato prima dall'eroismo del salvataggio della bimba, poi dal fascino liliale della fanciulla. Il rapporto fra schiavo e padrone, per quanto amichevole, non sovverte mai l'ordine sociale costituito, e Maciste, fedelissimo, non sembra mai minimamente patire la sua condizione servile, né Fulvio abusare del suo potere. Allo stesso modo Cabiria nutrirà un affetto quasi filiale per Sofonisba anche dopo che questa l'ha riconsegnata al sordido Karthalo e se la massa servile del buon Batto, durante l'eruzione, saccheggia il tesoro del padrone, verrà punita dall'assalto dei pirati fenici e ben compensata dall'eroica fedeltà alla padroncina della nutrice Croessa. Nulla minaccia i rapporti fra le classi, accettati come giusti e utili, con un idillio che solo la maestria di Pastrone riesce a salvare dal bozzetto paternalistico, stemperandolo invece in un avvincente ritmo narrativo, in un perfetto equilibrio fra dramma, azione e ironia (anche quella occasionalmente involontaria è affettuosa e ammirata), in una definizione dei caratteri che sfrutta e crea stereotipi, ma non ne rimane vittima, reinventandoli, anzi, mescolandone gli elementi spesso a sorpresa.
Gli altri. Se Maciste è, inevitabilmente, colui che ruba la scena e buca lo schermo, attraendo nella sua orbita principalmente Fulvio, che vive di luce riflessa, non significa che gli altri caratteri siano meno efficaci e meno curati. Ne è esempio Sofonisba, tramandata dalla storia come acerrima nemica di Roma onorata comunque per la sua dignità e l valore con cui ha affrontato il suicidio per non cadere in mano nemica. Qui dovrebbe, infine, essere la femme fatale, la nemica che strappa Massinissa dall'alleanza con Scipione, tuttavia questo è solo un aspetto di un personaggio in evoluzione, cui Italia Almirante Manzini presta ovviamente tutta la scenica scienza della composizione liberty della figura in favor di telecamera, ma anche chiaroscuri che la sottraggono allo stereotipo del divismo fine a se stesso. Sofonisba ci appare nella sua sensualità adolescenziale, aprirsi al primo amore nel sogno del principe azzurro (che è, per lei pallidissima, il moro Massinissa: il realismo cosmopolita sembra spazzar via gli stereotipi razziali dell'epoca, anche questo è un segno della modernità di Cabiria), pietosa e ardimentosa nel sottrarre Cabiria alla morte e crescerla come ancella. Come un'eroina del melodramma, sviene condotta alle nozze aborrite, ma questa dura esperienza ne forgia il carattere come altera, autoritaria regina, donna infine capace di sfruttare la propria femminilità per riappropriarsi dell'uomo che, fanciulla, non aveva potuto sposare e sobillarlo contro gli eterni nemici della sua Cartagine. Decide infine di riconsegnare Cabiria al sacerdote, ma la sua non è la crudeltà di un animo inaridito, bensì il comprensibile tormento di una donna profondamente fedele alle tradizioni della propria città e afflitta da incubi e rimorsi per aver sottratto una vittima al dio terribile che forse proprio per questo sta causando la rovina dell'impero cartaginese. La sua morte, fra Didone e Cleopatra, ha grandezza, ma anche terrore e umanità, senza temere di squassare il corpo della diva in – per quanto studiati – spasimi. Per quanto rispondente a tipologie ben codificate, ogni personaggio ha una sua precisa definizione che ne motiva le caratteristiche, così, ancora una volta, da sfruttare e contestualizzare gli stereotipi, senza caderne vittima.
Cosmopoliti. Abbiamo visto, Maciste è un moro numida, come del resto Massinissa, e la connotazione etnica dei personaggi sembra voler rispondere più a realismo storico che non a pregiudizi di sorta. O, meglio, quando l'aspetto corrisponde al ruolo, ciò avviene per esempio nel dualismo femminile fra l'angelica, indifesa e bionda Cabiria e la volitiva, fascinatrice, tormentata Sofonisba, dalle chiome corvine. L'unica caricatura che risente smaccatamente di una mentalità discriminatoria è quella del venale e pavido locandiere Bodastoret, macchietta stereotipata dell'ebreo cui sono riservate per lo più scene comiche, ma anche una chiarissima allusione al secolare pregiudizio cristiano quando vende ai sacerdoti di Moloch, per una manciata di denari che però farà fruttare senza rimorsi, la salvezza di Cabiria, Fulvio e Maciste. La traccia di una mentalità (si spera sempre) passata è ben chiara in questo episodio e nell'immagine leziosa dell'omino con barba caprina e kippah, ma fortunatamente non enfatizzata in maniera esplicita, tanto che Bodastoret custodisce più di un idolo pagano in casa.
La musica. Al contrario del lungimirante D'Annunzio, economo dissennato ma anche straordinario amministratore commerciale del proprio talento, subito consapevole dei vantaggi della sua collaborazione con Giovanni Pastrone, Pizzetti fu miope, ma abile e fortunato. Se Mascagni colse subito le potenzialità dell'invenzione dei Lumière e, con Rapsodia Satanica di Oxilia, seppe porsi a iniziatore di una gloriosa tradizione di autori di colonne sonore, con i vertici italiani di Trovajoli, Rota e Morricone, il compositore parmigiano cercò in ogni modo di declinare l'impegno e, infine, scrisse di suo pugno solo una sorta di ouverture corale e parodo classica, la cupa e solenne Sinfonia del fuoco, e lasciò il resto del lavoro al collaboratore Manlio Mazza. Si assicurò così, un po' abusivamente, un posto nella vulgata della storia del cinema, mentre il meno noto collega collazionava temi celebri altrui per accompagnare una pellicola che in originale superava ampiamente i tre chilometri di lunghezza. Nella partitura orchestrale originale, ricostruita e trascritta da Timothy Brock, ricorrono ampiamente le danze di Furie e Spirti beati dall'Orfeo di Gluck, ma anche diversi numeri dal Guillaume Tell rossiniano (ballabili dal primo atto, il coro dei cacciatori, la tempesta sul lago nel quarto atto), temi di Mendelssohn (dalla Grotta di Fingal e dalla Sinfonia Italiana) e perfino la brevissima fanfara che nella Lucia di Lammermoor di Donizetti annuncia l'arrivo di Arturo nel tempo di mezzo del duetto fra la protagonista ed Enrico. A segnare il legame fra il melodramma e Cabiria non è però solo questo repertorio di temi celebri e per lo più operistici, che appartenevano al bagaglio di ogni accompagnatore cinematografico dell'epoca, se si pensa che, ad esempio, circola una versione non restaurata del film con un pianoforte che per lo più segue la traccia della partitura eseguita a Bologna, ma con numerosi ulteriori inserti verdiani.
Cabiria eredita la spettacolarità dell'opera barocca e francese: il calderone d'acqua bollente in cui viene gettata Rachel nel finale della Juive di Halévy anticipa i riti di Moloch; l'eruzione del vulcano era già nelle Indes galantes di Rameau, ma soprattutto apparirà trionfalmente nel Moïse et Pharaon di Rossini e nella Muette de Portici di Auber; Maciste legato alla macina è una chiara allusione biblica che costituirà anche una scena chiave del Samson et Dalila di Saint Saens, dove pure abbiamo lo spettacolare crollo del tempio di Dagon. Quasi scontato citare la Salammbô di Flaubert, le sue traduzioni musicali e tutta la fecondissima tradizione decadente ed estetizzante consacrata all'Oriente e all'antichità. I riferimenti, però, sono più pervasivi, più intimi, e rappresentano un segno di continuità nella novità. Sofonisba, abbiamo visto, è condotta alle nozze con Siface esattamente come un'eroina melodrammatica. Di più, ricalca esattamente l'atteggiamento di Lucia di Lammermoor, sembra mormorare “Io vado al sacrifizio” e come la sventurata miss Ashton crolla svenuta. Prima, presentatasi velata all'appuntamento notturno con Massinissa, poteva riecheggiare l'illusione di Eboli, ma anche il seducente racconto moresco della Canzone del velo. L'opera permea i topoi narrativi, i topoi espressivi e gestuali, perché il cinema inventa un nuovo codice, un codice che deve rinunciare al rapporto diretto fra azione, recitazione e parola, fra significante e significato e non può dunque riferirsi al teatro di prosa, bensì deve guardare a quello musicale, dove il rapporto fra tempo della rappresentazione e tempo reale è parimenti alterato, con contrazioni e dilatazioni patenti anche in una singola frase. La capacità di plasmare il tempo è caratteristica dell'arte dei suoni e da essa passa naturalmente in un'arte di immagini che al suono deve rinunciare proprio in virtù del potenziale extraverbale di entrambe. Il fatto, poi, che il film abbia una vera e propria ouverture sembra affermare senza tema di smentita la sua deliberata continuità rispetto alla tradizione operistica.
La tecnica. Non si tratta di osservare gli effetti speciali o le tecniche di ripresa con il senno di poi, apprezzandoli perché contestualizzati, perché storicizzati, perché rapportati ai limiti di un'arte agli albori. No, Cabiria è e resta un film straordinario anche in termini assoluti. Le scene di massa e di battaglia sono realizzate tutte con attori in carne ed ossa e questo, così come la normalità fisica quasi quotidiana di uomini e donne, conferisce un realismo quasi documentario, una verità artigianale che spazza via e, anzi, trasforma in un valore, l'assenza di virtuosismi tecnici che oggi conferiscono maggior dinamicità e ritmo alle scene di battaglia. Scene come quella dell'eruzione dell'Etna o degli specchi ustori di Siracusa sappiamo essere realizzate con modellini, ma la cura è tale, la presenza dell'elemento umano così ben studiata da sospendere scientemente l'incredulità creando straniante ammirazione e per la verosimiglianza coinvolgente di quanto vediamo e per la consapevolezza della finzione e dell'illusionismo sopraffino. Fra gli effetti speciali non si può ignorare l'incubo di Sofonisba, una breve sequenza onirica sovrimpressa al sonno della regina senza la quale ci sarebbe difficile immaginare, decenni dopo, gli esiti raggiunti da Hitchcock o Kubrick nella rappresentazione dei sogni. Il trionfo conclusivo di putti, nereidi e gran pavesi sembra, invece, oggi inevitabilmente più datato e convenzionale, ma capita spesso anche nelle opere liriche più ardite che un finalino a vaudeville o in coro attenui la tensione e l'invenzione fatti brillare fino a pochi minuti prima. La gamma di colori con cui la pellicola fu trattata ribadisce come fosse riduttiva l'idea di un cinema in bianco e nero e come fosse progredita la tecnica cromatica, con effetti sia realistici (interni ed esterni, albe, notti, tramonti, incendi) sia simbolici, quando le contingenze ambientali e atmosferiche si sposano alle condizioni emotive. Ciò che stupisce ancor più della composizione artistica delle immagini, del loro respiro (mozzafiato la scena di Annibale sulle Alpi), degli effetti e del dispiego di mezzi, è il fluido dinamismo della narrazione conferito da una fotografia e da una gestione della macchina da presa che si faticherebbe a credere risalenti a un secolo fa, realizzate con camere a mano o montate su carrelli. L'obbiettivo scorre nella scena, la esplora, ci accompagna, racconta, coinvolge, ci fa parte reale dell'azione. Ci fa curiosare nei meandri di Cartagine, nei suoi cortili, nei suoi templi, nei palazzi e nelle bettole, e se non s'inoltra nelle battaglie ci viene da pensare che sia solo più prudente non avvicinarci, che siamo spettatori di un documento reale ma del quale non siamo parte, non che esistesse un qualsivoglia limite tecnico per cui non possiamo infilarci fra spade e catapulte come ci infiliamo nell'abitazione di Bodastoret o nella tenda di Scipione. Tutto ha un senso, un fraseggio, un preciso registro espressivo che si dipana in quello che Scorsese ha definito “un insieme magnifico e ipnotizzante”. Come dargli torto?