La bacchetta di Ferro
di Giuseppe Guggino
PALERMO, 15 novembre 2015 - In occasione del concerto che inaugura la rassegna “Nuove Musiche 2015” del Teatro Massimo incontriamo il direttore Gabriele Ferro, che accetta la nostra intervista sebbene sia il suo compleanno e gliene siamo grati, anche per la piacevolezza della conversazione, rivelatasi fin dall’inizio estremamente stimolante. E non potrebbe essere altrimenti vista la sua esperienza musicale: debutto nel 1963, carriera internazionale, protagonista della Rossini renaissance con la prima ripresa in tempi moderni dell’Ermione e il primo Tancredi in edizione critica, lunghissima assiduità con la musica contemporanea. È l’occasione per parlare anche del futuro del Teatro Massimo, di cui il Maestro è Direttore musicale da più di un anno.
Buongiorno Maestro Ferro. Il concerto che dirigerà sabato prossimo inaugura la seconda rassegna di musica contemporanea organizzata dal Teatro Massimo; il programma – sotto il titolo “perdersi… ritrovarsi” – prevede Sand Mandala ed Escape da India da Kundun di Philip Glass, Trans di Karlheinz Stockhausen e infine il Vorspiel und Liebestod con sola orchestra dal Tristan und Isolde di Wagner. Cosa lega un programma musicalmente così eterogeneo?
Il tema centrale è la morte e l’aldilà, anche il buddismo, soprattutto nel pezzo di Glass che è musica da film e prevede anche la partecipazione di Geshe Ngawang Tashi Bapu, il monaco buddista chiamato a intonare esattamente ciò che canterà nell’orecchio del Dalai Lama, il giorno che questi trapasserà.
Invece da Trans di Stockhausen cosa ci si deve attendere?
Stockhausen era molto estroso. Diceva di aver scritto questo pezzo – che è del 1971 – in uno stato onirico, di averlo sognato. Ed è un pezzo che si deve realizzare in teatro con un gioco di luci previsto dal compositore.
Quindi è una sorta di concerto semiscenico?
Sì, per questa prima parte con Trans assolutamente sì. In proscenio ci sarà una doppia fila di archi organizzati secondo le specifiche indicazioni del compositore: leggendo la premessa alla partitura ci si accorge che tutto è pianificato nei minimi dettagli, ad esempio gli archi devono avere una disposizione simmetrica secondo l’asse del proscenio, per cui avremo violini a due a due a destra e sinistra, dietro poi le viole i celli e i contrabbassi, sempre sia a destra che a sinistra. E loro saranno alle mie spalle e non avranno la possibilità di vedermi perché in posizione ribassata; nelle intenzioni del compositore dovrebbero realizzare una sorta vero e proprio muro, non solamente visivo per via della disposizione, ma anche sonoro in quanto ognuno di essi lascia scivolare lentissimamente l’arco prima all’insù e poi all’ingiù, sfregato anche in maniera molto sonora su una singola corda, entrando uno dopo l’altro. Dietro questo muro d’archi c’è un tulle sottilissimo che servirà per la proiezione di una luce rossa molto particolare, dove si proietta anche il viso di Stockhausen, e dietro il tulle ci sarò io con l’altra parte dell’orchestra suddivisa in quattro gruppi (quattro flauti, oboi e clarinetti, molte percussioni orientali). L’organico prevede anche il nastro magnetico nel quale sono incisi dei colpi di maglio, che più che un maglio sembra il rumore prodotto da quei vecchi telai di legno a pettine impiegati per fabbricare tessuti. Ad ogni colpo di maglio gli archi cambiano nota; ovviamente tutti fanno note diverse creando dei cluster, ma non casuali, tutti assolutamente studiati e calcolati.
Un pezzo tecnicamente impegnativo!
Le difficoltà per il direttore in questo pezzo sono tante, la prima è quella di scandire le misure (che hanno metro sempre diverso l’una dall’altra) con il vincolo dei colpi di maglio previsti ogni 12, 18, 30 secondi. Il tipo di scrittura, sebbene immerso in questa nebulosa, è tale per cui se qualcosa va fuori si avverte immediatamente, poiché molte sezioni hanno la medesima scrittura ritmica (sempre molto complicata). Infine poi c’è l’ulteriore difficoltà che cambia continuamente il metronomo tra una battuta e la successiva.
Ma avrà qualche ausilio per orientarsi? Per esempio uno schermo che le consente di leggere con qualche anticipo l’approssimarsi del colpo di maglio?
No, no, i colpi li sento solamente, quando arrivano, e devo regolarmi in assoluta autonomia; l’unico aiuto previsto da Stockhausen è un piccolo décalage che serve a riallineare le cose qualora si arrivasse di volta in volta un po’ prima o un po’ dopo. Insomma, è un pezzo terribilmente difficile sotto tutti gli aspetti, ma è un pezzo davvero molto importante.
Gabriele Ferro non è nuovo in imprese del genere nella musica contemporanea…
Ne ho fatta tanta, è vero. Anche di Stockhausen ho avuto modo di fare molte cose. Il pezzo forse più complicato che abbia mai affrontato in concerto è Gruppen che è scritto per tre orchestre e che richiede tre direttori [alla prima assoluta erano Stockhausen, Maderna e Boulez, n.d.r.]; quella volta ricordo che io e gli altri due direttori facemmo moltissime prove solamente fra noi tre, senza orchestra, perché il pezzo è tutto un gioco di metronomi: la somma di un dato numero di misure con un dato metronomo di un gruppo deve coincidere con un diverso numero di misure con altro metronomo degli altri gruppi e ci si deve incontrare nei punti stabiliti. Anche in questa partitura tutto è assolutamente calcolato, peraltro com’era tipico di Stockhausen e com’era tipico dei compositori fino agli anni ’70 e ’80, quando c’erano ancora compositori seri.
Perché, cosa è accaduto dopo?
Io dico sempre dopo gli anni ’70 e ’80 poi la musica colta è finita. Ad un certo punto si è andati così avanti che poi c’è stata una rottura perché non si è superato il problema armonico. L’evoluzione dell’arte – che poi evoluzione è da intendere tra virgolette, non certo nel senso che quella che c’è prima è peggio di quella che viene dopo – procede per svolte, e la storia della musica si è mossa quasi sempre con i cambiamenti di tipo armonico. Il caso più evidente è quello di Wagner.
Quindi concorda con chi vede nel primo accordo del Vorspiel del Tristano una delle svolte epocali nella storia della musica?
Assolutamente sì. Quanto all’importanza delle svolte armoniche, le dico che se mi dovesse chiedere quale musicista amo di più, io risponderei Gesualdo da Venosa, perché dal punto di vista armonico era arrivato ad un punto che, se dopo di lui si fosse proseguito per quella strada, Schönberg sarebbe nato nel 1700. A partire da Wagner si aprono due strade, quella della scala esatonale seguita da Debussy e della dodecafonia di Schönberg e la strada di Stravinskij che, per quanto sterile, gli consente di essere un genio quando fa il neoclassico.
Per il neoclassico di Stravinskij – in particolare per il Pulcinella – il Maestro Ferro ha una nota affezione…
Io vedo il Pulcinella come una specie di fossile, per me è un pezzo molto drammatico. Ha così assimilato lo stile di queste arie (poi pare siano inventate, manco sono di Pergolesi) che il risultato finale è stupefacente, per questo mi piace tanto. Ma di Stravinskij mi interessa molto anche l’altra strada battuta, cioè quella della sperimentazione nel ritmo: basta guardare quello che fece nel Sacre du Printemps che è del 1913. Ma dopo Stravinskij accade che tutti coloro i quali hanno tentato di imitarlo si sono arrestati e anche lo stesso Stravinskij nell’ultima fase ha provato a cambiare strada tanto quella neoclassica e quella dell’esasperazione ritmica arano ormai era esplorate ed esaurite.
Ma quindi che senso può avere una rassegna “Nuove musiche” se, come sostiene, dagli anni ’80 la musica colta si è avvitata su sé stessa o è addirittura tornata indietro?
Accidenti se ce l’ha, invece! È chiaro che quelli che attraversiamo sono anni di crisi per la musica colta, ma perché si attende ancora “qualcuno” che superi questo avvitamento; nell’attesa si devono creare le premesse perché questo “qualcuno” – perché sono certo che arriverà – trovi uno spazio. A ben vedere nell’ultimo ventennio il rock ha preso il sopravvento per motivi economici perché è chiaro che un concerto con ventimila persone ha un ritorno di cassa enormemente più alto rispetto a quello che può avere un concerto di musica colta. Per carità, io amo i Beatles ma nel loro ambito, il Jazz (quello vero, quello che viene dagli spirituals neri) mi piace moltissimo, ma non segnano alcun superamento.
Sulla questione Carolyn Abbate e Roger Parker, due studiosi di storia del melodramma, sono molto severi con le opere contemporanee, per via dello scarto enorme tra il linguaggio impiegato – sovente indecifrabile – e la ricettività presso il pubblico. Semplificando la loro visione, che è comunque drastica, la vitalità nella musica oggi è più legata all’interpretazione e alla rilettura di quanto già scritto e, sotto questo profilo, secondo loro oggi non siamo affatto in crisi.
E io non sono d’accordo. Brahms ad esempio era convinto che dopo di lui la musica sarebbe finita, perché non vedeva altro, ma dell’altro sarebbe arrivato, invece, eccome! Anche nel ‘600 c’è stata una crisi nell’arte, che però mi pare si sia risolta abbastanza bene.
Ma il problema invece non potrebbe essere nella contemporaneità che è proprio inenarrabile? Come si potrebbe mai raccontare con una musica colta – che è pur sempre tempo “organizzato”, sovrapposizioni di suoni dotate di senso – la follia e l’orrore di stragi come quelle di recente consumatesi a Parigi?
Io credo in un neo-umanesimo. Perché, se non si entra nell’ordine di idee che vedono l’uomo rispetto al cosmo, tutto diventa misero. È ovvio che nella musica colta contemporanea non ci potrebbe più essere uno stile “occidentale”. Vero è che Stockhausen è un occidentale e scriveva da occidentale, ma oggi non potrebbe scrivere più così perché l’esigenza di oggi sta nel comunicare contemporaneamente ad un indiano, ad un musulmano, ad abitanti che fino ad ora non hanno conosciuto la musica colta. Insomma da quando si è usciti dalle credenze fisiognomiche di Lombroso, capendo che il colore della pelle è solo una reazione evoluzionista per difendersi dal caldo – e quindi siamo tutti uguali – non si è pensato di superare il concetto di un’arte rivolta solamente agli occidentali, come è ancora oggi. La colpa – va detto – è un po’ dei compositori, perché la loro massima aspirazione ancora oggi è quella di fare un’opera alla Scala; ma non si può pensare di innovare un linguaggio rimanendo chiusi in un teatro costruito ‘700. Wagner, ad esempio, si fece fare un teatro apposta perché sentiva questo bisogno di un suono che uscisse dalla terra e così è nato il golfo mistico.
Verissimo! E tornando al golfo mistico wagneriano, torniamo alla conclusione del concerto di sabato, da dove siamo partiti. Come mai ha scelto proprio il finale del Tristan und Isolde?
Perché questo finale è una roba pazzesca: è musica fuori dal tempo che rimarrà nei secoli. Certo forse fra tremila anni si perderà il cifrario per capirla, per capire anche Mozart… chissà, o forse con la tecnica moderna no, visto che oggi possiamo ascoltare quello che si è fatto 70 anni fa.
Nella trasfigurazione di Isolde, in particolare nelle ultime tre battute – che sono veramente magiche, pur essendo tre triadi rientranti perfettamente nell’ambito tonale – colpiscono due assenze un po’ enigmatiche; la prima è quella della tonica che quasi si dissolve, giacché è suonata solamente dai violini secondi e dai secondi clarinetti e fagotti mentre tutti gli strumenti gravi vanno alla mediante (re#) e quelli più acuti vanno alla dominante (fa#), e la seconda assenza è quella del corno inglese che, subito prima di quelle triadi, espone il tema “del desiderio” per poi essere l’unico a tacere nella sterminata orchestra. Come si spiega queste “assenze”?
Mah… sui rivolti, in tutta l’opera e non solo nel finale, si potrebbe aprire un discorso che non finirebbe più perché lo stesso accordo può suonare molto diversamente a seconda di come si succedono le altezze dei suoni. Trattandosi di Wagner possiamo certamente escludere che abbia dimenticato uno strumento: non era certamente da lui! Secondo me è un’assenza solamente legata a ragioni timbriche; aveva paura che sentisse troppo… in effetti è uno strumento dalla sonorità molto peculiare, che peraltro cambia molto a seconda del registro su cui sta suonando. È una bella domanda.
A ben vedere, un’opera con quell’intervallo di sesta minore dei violoncelli – di fatto una domanda iniziale – a cui si risponde con una settima di terza specie che risolve in una settima di prima specie pur sempre armonicamente instabile – di fatto un’altra domanda – non potrebbe che terminare che con… una domanda! Ma da un’opera di domande passerei ad un’opera che, con il do maggiore di “Tout change et grandit en ces lieux”, si conclude invece con certezze assolute, giacché è il suo prossimo impegno all’estero.
Sì, farò il Tell a marzo prossimo alla Staatsoper di Hamburg dopo averlo fatto molti anni fa al Grand Théâtre de Genève.
L’edizione di Genève del 1991 è molto interessante proprio per via della lettura direi quasi “a-romantica”, molto contemplativa, dall’agogica caratterizzata da rallentandi…
E come fa a conoscerla?
Ne esiste una registrazione radiofonica; è abbastanza introvabile, infatti la pubblichiamo sul sito assieme con questa intervista (vai agli ascolti). Farà qualche taglio consistente anche ad Hamburg? Manterrà sempre questa lettura tanto affascinante quanto “fuori moda”, visto che la lettura oggi più ricorrente del Tell è piuttosto proto-verdiana, garibaldina, talvolta anche fracassona?
In quell’occasione avevo Merritt degli anni d’oro, poi anche José Van Dam era un Tell molto raffinato e Jane Eaglen, che era un soprano dai mezzi ragguardevoli, quindi si riuscì ad avere quel risultato. Ad Amburgo cambierò qualcosa nell’impostazione, ma devo comunque fare dei tagli, praticamente quasi tutti i balletti. Lo so, è doloroso, ma adesso noi siamo un po’ schiavi dei registi e dei contratti: non solo in Italia, ma anche in Germania c’è una stretta sui contributi pubblici e quindi serve un controllo sulle durate complessive dello spettacolo. Certo, anche questa volta cercherò di far sentire nel Tell l’influenza di Beethoven…
…l’uso dei corni dalla terza? La scrittura descrittiva della sesta?
Non solo… io ravviso nel Tell alcuni elementi della nona sinfonia. Quanto alle mode, non me ne curo: anche quando faccio Bellini sarò anche fuori moda, ma sono convinto che vada fatto così. Di recente ho fatto una Sonnambula…
…quella della Staatsoper di Stuttgart?
Esatto. Lì ho impostato lo spettacolo pensando ad un’orchestra da camera tirata su, a livello della platea. Il fatto è che Bellini compone per sottrazione e di questo si deve tenere conto quando lo si concerta, invece qualche collega non troppo geniale (e parlo anche di grandi nomi) è solito cambiarne la strumentazione, sbagliando completamente tutto. La sottigliezza nel tratto è il carattere distintivo della sua opera, quindi la parte strumentale sotto il canto non deve mai marcare l’inizio delle terzine o delle quartine, dev’essere tutto molto rubato, leggerissimo.
Con l’idea di un’orchestra da camera ha appena fatto anche Die Zauberflöte qui a Palermo; come mai questa scelta?
Perché la dinamica della Zauberflöte è tutto un gioco di contrasti; in tutta l’opera ci sono si e no tre crescendi, per il resto è come se fosse scritto per cembalo tirando e spingendo i “registri”, perché c’è un’alternanza continua tra il forte e il piano. Prima di questa Zauberflöte a Palermo ho diretto il Vologeso di Jommelli, dove ho fatto una cosa ancora più strana. L’opera da un punto di vista contrappuntistico è molto interessante, ma dal punto di vista armonico è piuttosto noiosa, allora, sempre con l’orchestra a livello della platea, ho cercato di fare un gioco “di spessori” che avevo già sperimentato con Judas Maccabæus di Haendel anni fa a Monaco. Per gioco “di spessori” intendo dire che ho cercato di differenziare i vari canoni della scrittura contrappuntistica ricorrendo a tre piccoli gruppi di archi orchestra uno alla sinistra 3+3 violini, 3 viole, 2 celli e 1 basso, uno alla destra di 2+2+2+1+1, più un quartetto d’archi al centro con i pochi fiati dietro, in posizione soprelevata verso la scena, senza che con essa ci fosse soluzione di continuità. Il risultato finale ha funzionato molto bene, con i piani contrappuntistici esaltati dalla stereofonia di questo suono proveniente da più punti, da più sorgenti.
Questo Vologeso era una produzione di Stoccarda, dove collabora con il tandem geniale Wieler-Morabito?
Ah… con Jossi Wieler e Sergio Morabito – che sono veramente geniali – tantissimi anni fa ho fatto un’Italiana in Algeri che era molto divertente. Wieler non è un tedesco da stereotipo e anche Morabito non è proprio tedesco ma ha origini calabresi. Quell’Italiana era ambientata ai primi nel ’900, con il coro degli uomini rappresentato da migranti arabi vestiti da donne con la barba: mi creda, era una cosa spassosissima. E sono loro che mi invitano spesso alla Staatsoper diStuttgart dove Jossi Wieler è Intendat, ché poi per me è un ritorno, visto che in quel teatro sono stato Generalmusikdirektor dal 1991 al 1997.
Il prossimo suo ritorno lì sarà con I puritani di Bellini. Dopo aver tenuto a battesimo la prima esecuzione scenica della versione “Malibran” dell’opera a Bari nel 1986, la riproporrà o si atterrà alla versione parigina corrente, quella dell’autografo di Palermo?
Di quei Puritani al Petruzzelli con la Sinfonica Siciliana ho un bel ricordo, anche perché ci fu assegnato un premio come migliore produzione dell’anno. A Stoccarda mi atterrò alla versione corrente, ma farò le cose in più che ci sono nel manoscritto arrivato a Napoli, portato da una nave che poi fu messa in quarantena, facendo così saltare l’esecuzione dell’opera che si fece nel 1986. L’opera è stupefacente perché riesce a coniugare melodie lunghissime – pensi che nella pazzia di Elvira c’è una melodia di una trentina di misure – a recitativi che sono di una bellezza incredibile e nessuno come lui riusciva a scriverli così: tutti gli altri compositori coevi (sovente anche Rossini) nei recitativi sono convenzionali, prevedibili.
L’ultimo di questi ritorni su titoli già affrontati in passato ci riporta qui a Palermo, dove l’anno prossimo farà per la terza volta consecutiva La Cenerentola dopo l’edizione degli anni ’70 al Politeama e quella del 2001 nella sala del Basile. Confermerà ancora una volta la lettura larmoyant del capolavoro che le è tanto caro, oppure tenterà altre soluzioni?
L’edizione del Politeama del 1977 era con il cast quasi identico a quello del disco con la Capella Coloniensis, e gli anni sono praticamente gli stessi. Se faccio una Cenerentola patetica, non lo so, ma non credo; certamente nella Cenerentola, ma più in generale in tutte le opere di Rossini, ci sono questi personaggi spregevoli, terribili… prenda Don Basilio, Don Bartolo ad esempio, però mi piace rendere tutto in maniera molto razionale, rimanendo fedele alle strutture che ci sono. Guardi la scomposizione delle parole nel “nodo avviluppato”, è tutto molto meccanico, ma solo Rossini poteva farlo così. E questa razionalità per me viene da Mozart: nell’Italiana in Algeri ci sono quasi citazioni dal Ratto dal Serraglio. Il problema di Rossini oggi, semmai, è che si dirige il più veloce possibile e diventa superficialissimo. Tornando a Palermo, posso dire che sarà una Cenerentola un po’ matta.
E allora torniamo a Palermo dove, pur in continuità col passato – il debutto risale al 1974 con Armida di Gluck con la Zampieri e Bruson, ma nell’ultimo decennio ha diretto un bellissimo Pélleas, e poi Salome, Genoveva di Schumann che fu una vera scoperta, Z mrtvého domu di Janáček – da più di un anno è stato nominato direttore musicale. Come è il bilancio di questo primo anno e cosa si prospetta per il futuro?
Mah… devo dire che il rapporto con l’Orchestra del Teatro Massimo è molto buono: loro sono molto carini e molto seri con me. Io ho lavorato moltissimo dappertutto, ogni anno avevo per un mese Orchestra National de Radio France, poi sono stato alla Lyric Opera of Chicago. Il posto dove ho lavorato bene per una decina d’anni è stato il Covent Garden dove c’era un ambiente molto familiare, quasi la perfezione totale; ricordo ancora che c’era una certa Stella come direttore di palcoscenico, una signora di una certa età, non molto affascinante ma che era assolutamente perfetta, mai un errore in tutte le opere che ho fatto lì. Qui a Palermo, per via di impegni già presi, non sono stato molto presente in questo primo anno, anche se comunque la Terza di Mahler è venuta bene, ed è veramente difficilissima.
Dall’anno prossimo conto certamente di essere più presente come lo sono stato quando ho ricoperto lo stesso incarico al San Carlo, dove facevo moltissimi concerti, oppure a Stoccarda. Ecco lì sono stato Generalmusikdirektor e ho lavorato molto bene perché ho potuto cambiare tutta la struttura; quando sono arrivato c’era il balletto residente – che è uno dei più importanti del mondo – che faceva 80 serate in un anno, tutte con l’orchestra e io gliela tolsi per 40 serate. E poi c’era una produzione operistica “seriale”: per esempio loro facevano 55 titoli in un anno, ogni titolo con 6 recite in 6 mesi diversi con 6 direttori… ed era un delirio! Allora io tagliai i titoli a 25, organizzandoli per blocchi, ogni blocco aveva alcune nuove produzioni, altri revival ma almeno così si riusciva a provare tutto; tanto avevo sconvolto le cose che mi convocò il Borgomastro, Manfred Rommel, il figlio di Erwin la volpe del Deserto, aveva paura di questo cambiamento ma comunque ebbi la sua fiducia e tutto andò per il meglio, tanto che ancora mi richiamano per qualche produzione. Quello che non riuscii a cambiare, se non in parte, fu l’organizzazione degli organici: ci provammo anche con un computer ma non ci riuscimmo. Almeno però riuscii a fare un gruppo di orchestra A e un gruppo B e, dall’antegenerale in poi, si potevano innestare al massimo il 20% di orchestrali che non avevano fatto le prove precedenti e così il risultato qualitativo del complesso migliorò.
Speriamo in qualche rivoluzione anche qui, allora! I titoli che la vedranno a Palermo nel 2017 quali sono?
C’è l’inaugurazione con Macbeth e la regia di Emma Dante e poi Le nozze di Figaro. Ci dovrebbe essere una tournée in Giappone dove faremo La traviata e mi sto impegnando perché si realizzi una co-produzione con la Staatsoper di Hamburg.
Corrono voci per un’inaugurazione del 2018 con un grand-opéra di ambientazione palermitana e chissà cosa ci farà vedere la Dante con le monache nel terzo atto! C’è solamente questa bizzarrìa del cast tutto palermitano… che può risultare limitativa in un’opera pensata per Nourrit, Levasseur, la Cinti-Damoreau e la Dorus-Gras, oppure no?
Ah, ma il 2018 è ancora veramente tutto da vedere. Al momento è davvero troppo presto per parlare di progetti definiti: pensiamo all’oggi.
E allora buon compleanno, Maestro!
Ascolti: Guillaume Tell
(Grand Théâtre de Genève, giugno 1991)
Maestro cocnertatore e direttore: Gabriele Ferro
Guillaume Tell: Jose van Dam
Arnold: Chris Merritt
Mathilde: Jane Eaglen
Jemmy: Linda Kitchen
Hedwige: Diane Curry
Gessler: Hans-Peter Scheidigger
Melcthal: Jacob Will
Walther: Harry Peeters
Ruodi: Gregory Kunde
ATTO I
ATTO II
ATTO III
ATTO IV