L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Ray Chen e James Conlon

Viaggio nell'anima russa

 di Alberto Ponti

Stravinskij e Šostakovič aprono il Festival di primavera dell'Orchestra Sinfonica Nazionale

TORINO, 25 maggio 2017 - In tempi ormai avari di scoperte musicali memorabili paiono confinati a un'epoca favolosa i rinvenimenti dell'Ottocento quando, dai cassetti di parenti e amici di Schubert, poteva emergere come nulla fosse il manoscritto di un'Incompiuta o di una Grande Sinfonia. La Russia invece, si sa, è sempre stata una nazione prodiga di sorprese e da un armadio del Conservatorio di San Pietroburgo, svuotato per la ristrutturazione di alcuni locali, proviene senza dubbio il maggiore ritrovamento degli ultimi anni, vale a dire la partitura del Canto funebre (Pogrebal'naja Pesnja) op.5, composto nel 1908 da Igor Stravinskij (1882-1971) in memoria del suo primo e unico maestro Nikolaj Rimskij Korsakov, appena scomparso.

Creduta perduta dall'autore stesso in seguito alla rivoluzione del 1917, la composizione, ritornata alla luce nel 2015 e proposta il 25 maggio in prima esecuzione italiana sotto la bacchetta di James Conlon in apertura del concerto inaugurale del Festival di primavera organizzato presso l'auditorium 'Toscanini', dimostra già tutti i tratti tipici dei capolavori del periodo russo stravinskiano: profondità timbrica e armonica, unita a una padronanza della grande orchestra nella creazione di atmosfere e suggestioni di tale elementare forza espressiva che lo stesso Rimskij, pur omaggiato in modo commovente dall'allievo, non aveva mai saputo raggiungere.

Immediato corre allora il raffronto al grandioso Sacre du printemps (1911-13) eseguito nella stessa serata, suprema manifestazione del genio di un trentunenne che provocò al suo apparire uno dei più leggendari scandali di tutta la storia della musica.

La lettura dell'Orchestra Sinfonica Nazionale possiede tutta la necessaria rudezza nell'evocazione dell'elemento pagano e selvaggio che tanta parte ha nel soggetto dell'originario balletto ideato per Djagilev. In un lavoro di difficoltà enorme (bastino come esempio le sole prime 12 battute della Danse sacrale, strutturate nella seguente successione di tempi: 3/16, 2/16, 3/16, 2/8, 2/16, 3/16, 2/8, 3/16, 5/16), che non ammette distrazioni dal podio, Conlon si colloca all'altezza dei maggiori direttori del momento. Il suono degli ottoni è crudo, tagliente e affilato nel Cortège du Sage ma si fa trepidante e luminoso nell'Évocation des ancêtres. Allo stesso modo, tutte le altre sezioni, compreso il folto gruppo delle percussioni, riescono a tradurre le mille sfaccettature di una scrittura in grado di svelare ad ogni ascolto nuove raffinatezze, a cominciare dall'ottima resa delle ragnatele polifoniche dell'Introduction, finalmente percepibili in una chiarezza quasi bachiana.

I due titoli di Stravinskij incorniciavano un'altra opera capitale del Novecento russo quale il concerto n. 1 per violino e orchestra in la minore op. 77 (1948) di Dmitrij Šostakovič (1906-1975). Solista, in questo primo appuntamento del festival dedicato ai giovani talenti dell'archetto, era il giovane australiano, taiwanese di origine, Ray Chen, che avevamo già ascoltato a Torino nel gennaio dello scorso anno nel Secondo di Prokof'ev [leggi la recensione].

Pensata per David Oistrakh, che la tenne a battesimo con la direzione di Evgenj Mravinskij, la partitura si pone ai vertici dell'intera produzione del compositore per la tensione del discorso abbinata a uno straordinario senso della forma.

Avvolto da un robusto respiro sinfonico, in equilibrio tra abissi di cupezza indicibile (il Notturno iniziale e la Passacaglia) ed estroversioni di grottesco parossismo (lo Scherzo e la Burlesca conclusiva), Chen sfodera versatilità e pienezza di intonazione caratterizzata da un vibrato di eccezionale stabilità, in perfetta sintonia con il gesto del direttore statunitense e i frequenti assoli degli altri strumenti (verso la fine del primo movimento nel dialogo fra ottavino e violino si avvertiva la continuità della linea melodica quasi fosse suonata da una sola persona).

Anche nei passi più scopertamente virtuosistici, disseminati di pizzicati, armonici, suoni spiccati, corde vuote, cambi di posizione in enorme quantità, una tecnica fuori dal comune consente a Chan (classe 1989) un dominio della materia musicale mai mirato alla semplice esibizione ma sempre piegato alle esigenze dell'espressione drammatica.

Gli applausi frenetici di una sala riempita quasi per intero arrivano, se possibile, a un livello di incandescenza con i due bis (il finale della sonata n. 4 di Ysaÿe e il capriccio n. 21 di Paganini), proposti prima dell'intervallo con personalità da vero fuoriclasse. 


 

 

 
 
 

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