Si compia il rito
Nella chiesa di San Francesco del Prato, per il Festival Verdi, va in scena Luisa Miller nell'edizione critica di Jeffrey Kallberg. Roberto Abbado e Lev Dodin, in sintonia anche con la suggestiva cornice, valorizzano forme ed essenze di un'opera fondamentale nel percorso di Verdi drammaturgo musicale.
PARMA, 28 settembre 2019 - Un festival deve sperimentare ed esplorare. L'opera stessa è nata sperimentando, esplorando, inventando e reinventando. Tanto più che, quando si parla di Verdi, il legame con il territorio è profondo e delicato, può essere un tesoro di meraviglie, humus più che mai fecondo, ma corre anche il rischio impantananarsi nel luogo comune. Le produzioni con giovani cantanti a Busseto guardano avanti là dove Peppino mosse i primi passi; nella capitale del Ducato, il cartellone Verdi Off si muove, con iniziative le più svariate, al di fuori delle mura del Regio, ma, soprattutto, il Festival porta ormai ogni anno una delle sue produzioni in un luogo diverso, normalmente estraneo al classico teatro d'opera. L'idea di usare il Teatro Farnese era partita con cautela, più che altro a valorizzare un luogo di particolare fascino, ma l'uso convenzionale di un palco, di una platea, delle gradinate non si confà, anche per questioni acustiche, a una sala nata per feste di corte e spettacoli che poco hanno a che fare con il nostro modo di vivere l'opera. Allora, Verdi al Farnese ha trovato una nuova formula, con produzioni affidate a maestri del teatro, del cinema, delle arti visive. Giovanna d'Arco è diventata un'istallazione di videomapping sulle gradinate secondo Peter Greenaway [leggi la recensione], l'opera e il mondo reale sono dilagati l'una nell'altro con lo splendido Stiffelio "in piedi" firmato da Graham Vick [leggi la recensione], Robert Wilson ha cristallizzato il racconto del Trouvère [leggi la recensione]. Dopo questa triade, giustamente è venuto il momento di voltar pagina o, meglio, di portare il progetto dei "grandi maestri" dal Farnese ad altri spazi cittadini. Ecco allora che Lev Dodin è stato chiamato ad allestire Luisa Miller nella Chiesa di San Francesco del Prato, struttura di grandi dimensioni interamente rivestita di impalcature per i lavori di restauro in atto. Certo, anche in questo caso l'acustica non è delle migliori, infida e dispersiva, ma il colpo d'occhio su questa cattedrale temporanea di luci, tubi metallici e pedane fra le antiche possenti mura ha un fascino tutto particolare. Un fascino che si sposa con l'impostazione di Dodin che reinventa l'abside come un teatro antico, un Globe cosmopolita che evoca sacre rappresentazioni, macchine tardo rinascimentali, aromi slavi. L'azione ha una geometria rituale che culmina in quel banchetto nuziale e funebre, sacrificio eucaristico in cui il veleno che unisce gli amanti nella morte è condiviso con tutta la lunga tavolata, abbatte il coro, punisce Walter e Wurm. Sebbene molta della forza del finale di Luisa Miller consista nell'immagine dei genitori sopravvissuti ai figli, a quei figli di cui avevano causato la rovina per troppo amore (Luisa sacrifica tutto per il padre, il conte si macchia dei più nefandi delitti per garantire l'ascesa sociale di Rodolfo), questo epilogo collettivo è la più logica e coerente conclusione del lavoro di Dodin.
La ricerca di simmetrie, l'astrazione irrealistica di un racconto sempre limpido si fonde, peraltro, a meraviglia con quello che è lo sviluppo formale della partitura, nella quale Verdi, per la prima volta, rinuncia a strette e cabalette là dove lo stereotipo - quantomai elastico, in realtà - dell'opera del primo Ottocento italiano le vorrebbe d'obbligo e segnatamente nel finale del primo atto. Anche là dove le forme tradizionali sono rispettate, specie in prime scene che han tanto in comunque con La sonnambula o Linda di Chamounix, la melodia si fa più urgente, agitata; quelli che dovrebbero esser cantabili finiscono per somigliare assai a cabalette ("Tu puniscimi, o Signore"), mentre nei pezzi d'assieme meccanismi ritmici e pedali d'ascendenza rossiniana ci riportano a una dimensione astratta e straniata, a geometrie in cui si esprime l'oppressione di conflitti tragici irrisolvibili. Dopotutto, infatti, dopo La gazza ladra, che aveva lieto fine, Luisa Miller rappresenta il passo fondamentale in cui il dramma semiserio sfocia nella tragedia borghese, in una nuova idea di realismo nel melodramma.
La tensione e la lucidità della lettura di Roberto Abbado, che mette ben in risalto le pieghe della ricerca formale verdiana, nell'articolazione della melodia, nell'intreccio di voci e timbri, nelle strutture e nelle architetture che sembrano rispecchiarsi nell'agile abbraccio di pietra e metallo della Chiesa di San Francesco. La stessa dialettica delle riprese non ragiona più nell'eloquenza di belcantistiche variazioni, ma in una propulsione continua e ben controllata, come già si evince nella cabaletta di Miller, nel suo ossessivo ripetere gli stessi versi, gli stessi concetti. La distanza rispetto ai cantanti, così come la dispersione inevitabile del suono, è gestita con cura, anche se è facile immaginare che gli interpreti non si trovino nelle condizioni più agevoli per dare il meglio di sé. Dalla nostra posizione, la più vicina ai musicisti, la voce senz'altro più presente è apparsa quella di Amadi Lagha, Rodolfo ardente e generoso, seppur parco di finezze di fraseggio e sfumature dinamiche. Francesca Dotto è una Luisa ispirata, partecipe, che filtra uno spettro che spazia dal belcanto liliale allo slancio più disperato attraverso un lirismo dolce e consapevole. La rassegnazione della vittima diviene, così, quasi un atto di forza e determinazione, un atto di fede enfatizzato dalla drammaturgia di Dina Dodina e dal contesto scenico. Federica ne è l'ideale contraltare, e Martina Belli la rende più stilizzata che volitiva, altra vittima impotente delle cabale che ostacolano l'amore nel dramma di Schiller (Kabale und Liebe, appunto) fonte dell'opera. Dal canto suo Gabriele Sagona ha l'onere di dar corpo e credibilità a uno dei personaggi più sgradevoli dell'intero repertorio: Wurm - nomen omen: in tedesco vale per verme - è un traditore, un sicofante, un essere infido e vigliacco che non conosce le inquiete grandezze di Jago o Paolo Albiani, non ha moventi potenti (il desiderio di possedere Luisa non lo avvicina nemmeno alla lontana a uno Scarpia), non ha fascino. Merito di Sagona è, dunque, soprattutto quello di non aver zavorrato lo spregevole motore della tragedia di inutili trucibalderie, mantenendosi in un'accorta misura.
Meno interessanti i due padri. Franco Vassallo è un Miller vigoroso ancorché generico e tendente a portamenti fastidiosi; Riccardo Zanellato è interprete più intenso del conte di Walter, accusando tuttavia in questa serata una certa stanchezza nella voce.
Bene la Laura di Veta Pilipenko e il contadino di Federico Veltri. Bene anche l'orchestra e il coro (preparato da Alberto Malazzi) del Comunale di Bologna.
Il pubblico, al termine, premia convinto tutti gli interpreti, il direttore, il regista e il suo staff, di cui fanno parte anche lo scenografo e costumista Aleksandr Borovskij, Damir Ismagilov per le luci e Dmitrij Kosmin assistente di Dodin.