L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Geografie senza confini

 di Antonino Trotta

Straordinaria inaugurazione del MiTo Settembre Musica con Martha Argerich e Zubin Mehta alla guida dei complessi della Israel Philharmonic Orchestra: il giro del mondo in 15 giorni fa la sua prima tappa tra Vienna e Parigi.

Torino, 4 settembre 2019 – Tutto il mondo in una sala da concerto per quindici giorni di stimolante cosmopolitismo, senza blocchi monocromatici a rivendicare identità, senza confini a ribadire i limiti della natura o del pensiero umano. Da nord a sud, da est a ovest, avanti e indietro nel tempo: 128 sono quest’anno le tappe che il MiTo dedica all’esplorazione del territorio sinfonico, 128 sono le stazioni che si attraverserà per giocare a individuare i lineamenti delle fisionomie nazionali, 128 saranno le occasioni per riconoscere nella musica un canale di autentica condivisione tra culture ed epoche.

E proprio a cavallo tra due epoche, quando a cambiare comincia innanzitutto a essere il modo di intendere la musica, nasce il concerto in si bemolle maggiore op. 19 di Beethoven. Lì nella Vienna ancora riferimento per artisti di primo pelo e roccaforte dell’universo del Salisburghese, Beethoven familiarizza con l’idioma locale e compone i suoi due primi concerti per pianoforte di cui il secondo, l’op. 19 appunto, è in assoluto il più mozartiano. Un mozartismo tuttavia filtrato dalle maglie di una mente insofferente, già instradata verso il concetto tutto romantico di musica assoluta, che Zubin Mehta restituisce con un ricercatissimo lavorio sul manto orchestrale. Immaginando il Beethoven che sarà più che il Beethoven che allora poteva essere, Mehta dirige l’Israel Philharmonic Orchestra richiedendole sonorità vellutate e legature morbidissime dove il carattere dei temi, soprattutto nell’Allegro con brio iniziale, pare voler mediare tra la spontanea brillantezza dell’esempio neoclassico e l’esigenza espressiva dell’imminente linguaggio romantico. In questa sottile intercapedine si inserisce quindi il pianoforte astrale dell’eterna Martha Argerich, dea in terra dell’avorio e signora della tecnica strumentale: il tocco asciutto e scintillante strizza l’occhio all’antico meccanismo senza irriderlo, facendosi così arnese da intarsio con cui valorizzare in dettaglio ogni figurazione, ogni filigrana sottesa. È comunque nelle lande paradisiache dell’Adagio centrale che il fraseggio d’ampio respiro, retto dalla capacità di tenere sospese lunghissime arcate melodiche con sorprendente eguaglianza di suono – quasi il discorso musicale procedesse serafico privo di interruzioni –, trasforma l’incontro con il mito in una lezione di tecnicismo e musicalità sopraffini. Certo, se si scrive della Argerich, a lodarne le gesta ci si sente anche un po’ in imbarazzo; poi però, dopo il visionario Traumes Wirren dalla raccolta Phantasiestücke op.12 di Schumann, è il momento della mitica sonata-toccata K141 di Scarlatti, emblema del suo pianismo di razza che nei serrati ribattuti si spinge ai limiti del meccanicamente consentito e a mancare, oltre alle parole, è il fiato.

Come il secondo concerto di Beethoven, anche la Fantastique di Berlioz invola i presupposti dello schema della sinfonia classica per poi animarsi di vita propria e inseguire un personalissimo disegno di narrazione programmatica. Mehta si erge adesso sul podio con piglio eroico, animato da uno spirito dionisiaco e a tratti insofferente – quale in fondo il giovane Berlioz era –, prorompente persino nei passaggi di maggiore inclinazione lirica come il dialogo incoativo tra oboe e corno della Scena dei campi. Non c’è illusione nella lettura di Mehta, ma solo cruda consapevolezza: lo suggerisce il metronomo talvolta inflessibile, il colore spesso ombrifero e tagliente dei complessi orchestrali, il fraseggio analitico e severo che non rinuncia a porre nella giusta angolazione lo sfolgorio degli intrecci tematici e strumentali. Il tutto si sublima dunque nella grandiosa fanfare della Marcia al supplizio e nel sogno sabbatico dell’ultimo movimento, nella cui fitta trama di invenzioni orchestrali Mehta procede con bacchetta subdola, orientando ogni esposizione in direzione dell’agghiacciante prospettiva del Dies Irae che tutto sembra sovrastare, non solo in termini di puro dosaggio volumetrico, piuttosto come punto di messa a fuoco dell’intera interpretazione.

Quasi spiace abbandonare quest’inquieta atmosfera e distendere gli animi nel sublime Intermezzo della Cavalleria Rusticana, concessa come bis dopo che le ovazioni in platea si sono fatte irrefrenabili. Il MiTo è iniziato nel più sontuoso dei modi: non resta che allacciare le cinture e godersi questo viaggio.


 

 

 
 
 

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