La caduta
La fine di Zenobia, come appare nelle fonti più antiche e segnatamente nella Historia Augusta,è nell'immaginario romano anche la resa dei conti anche con Sofonisba e Cleopatra: Zenobia, la nemica, la regina d'Oriente, viene condotta in trionfo, cosa che il suicidio aveva evitato alle sue antecedenti, e per di più gravata di gemme e gioielli tali da far vacillare perfino il suo fisico robusto, parodia crudele, benché, forse, involontaria, dello sfarzo della corte egiziana che la sovrana tolemaica esibì nel suo soggiorno nell'Urbe. La fine è dimessa e antieroica: lei, fiera amazzone, virago, regina e guerriera in grado di far tremare Roma e creare, fra i suoi territori, un insidioso impero, è confinata sui colli romani, a terminare i propri giorni nell'anonimato, forse addirittura moglie di un senatore. La terribile regina di Palmira è addomesticata e pensionata come una anziana matrona.
Da notare che, fra V e VI secolo, Zosimo, nella Storia Nuova (Ἱστορία νέα), corregge il tiro e concede a Zenobia di perire prima di raggiungere l'Urbe, pur senza attribuirle l'onore eroico del suicidio, ma adombrando il dubbio che non sia stata colpita da una malattia, lasciandosi invece morir d'inedia. Una soluzione che, ancora una volta, evita sia la scelta virile della morte autoinflitta con una lama sia quella, più tradizionalmente femminile, per avvelenamento. Rinunciare al pubblico ludibrio del trionfo e al triste tramonto romano, non trova, dunque, un'alternativa gloriosa, ma un, se possibile, ancor più flebile spegnersi della scintilla che aveva rischiato d'incendiare un intero impero. Zosimo non si limita a questo: mentre nell'Historia Augusta il confronto fra la regina e Aureliano dimostra un'indomita fierezza ai limiti dell'arroganza ("Quid est, Zenobia? Ausa es insultare Romanis imperatoribus?" Illa dixisse fertur: "Imperatorem te esse cognosco, qui vincis, Gallienum et Aureolum et ceteros principes non putavi. Victoriam mei similem credens in consortium regni venire, si facultas locorum pateretur, optavi.”), nella Storia Nuova la regina invoca a sua difesa la debolezza femminile che l'ha resa facile preda dei fallaci consigli dei suoi cortigiani, fra cui Cassio Longino, che per questo sarebbe stato condannato a morte. Da notare che la Historia Augusta annoverava invece come esempio di deliberata crudeltà di Aureliano la condanna dello studioso, falsamente accusato – non da Zenobia ma da anonimi delatori – d'aver dettato un'impudente lettera della regina all'imperatore (Vita divi Aureliani, XXVI e segg), lettera che l'autore afferma con sicurezza esser stata dettata in siriano e poi tradotta in greco, e quindi senza dubbio concepita autonomamente da Zenobia.