L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Indice articoli

«Kirchengewänder» an den Ufern des Nils. Ein Chor «in der Art Palestrinas» und der Beginn

des dritten Aktes von Verdis Aida, dalla rivista verdiperspektiven (numero uscito maggio 2020)

«Paramenti liturgici» sulle rive del Nilo

Un coro ‘alla maniera del Palestrina’ e l’inizio del terzo atto dell’Aida di Verdi

Anselm Gerhard (traduzione - col permesso dell’autore – e abstract di Elisabetta Fava)

Nelle ultime opere di Verdi si riconosce la mano esperta di un artista di grande esperienza. Per Otello e Falstaff le prime edizioni a stampa fissano versioni definitive che il compositore modificò sì ancora in pochi dettagli, senza però insistere perché questi cambiamenti venissero riportati nella partitura pubblicata.1 Se invece si guarda ai due lavori teatrali composti negli anni ‘60 dell’Ottocento, ossia alla quintultima e alla quartultima opera di Verdi, ci si imbatte in revisioni incisive. Tanto per La Forza del destino quanto per il Don Carlos Verdi ha riscritto integralmente in un secondo tempo passi di considerevole entità.

Aida si colloca a metà fra questi due estremi. Anche in questo caso la prima stampa fissa una versione definitiva. Dopo le prime due rappresentazioni - al Cairo nel 1871 e a Milano nel 1872 - Verdi la modificò ancora soltanto in un punto: ampliò la musica del balletto del II atto per la rappresentazione del marzo 1880 all’Opéra di Parigi e fece inserire questa modifica negli spartiti pubblicati in seguito.

Tuttavia sappiamo che, mentre lavorava su quest’opera, Verdi per due volte ritornò su decisioni già prese. In un caso compose per la prima rappresentazione europea - quella di Milano del 1872 - un’ouverture più lunga, che peraltro ripudiò già durante le prove, per cui anche alla Scala - come in precedenza al Cairo - l’opera venne aperta dal breve «Preludio» che conosciamo. Arturo Toscanini, che nel 1913 poté vedere l’autografo di questa «Sinfonia» a Sant’Agata, la eseguì nel 1940 a New York; singole incisioni successive risalgono a una partitura che a quanto pare si basa sull’esecuzione di Toscanini.2

Da quando nel 1913 sono state pubblicate le lettere relative, è noto anche che la cosiddetta ‘aria del Nilo’ dell’eroina eponima nel terzo atto fu composta soltanto in una fase molto avanzata del lavoro. Nel gennaio 1871 il compositore aveva spedito la partitura ultimata dei primi due atti a Milano, all’editore Ricordi. Quando cominciò a profilarsi la possibilità che la prima rappresentazione dell’opera dovesse essere rimandata quasi di un anno - l’assedio di Parigi da parte dei tedeschi rendeva impossibile trasportare al Cairo le scenografie che erano state messe a punto nei laboratori dell’Opéra - Verdi accantonò i primi due atti in una versione che si suppone quasi definitiva e riprese il lavoro soltanto nell’agosto 1871. Il 5 agosto scrisse al suo verseggiatore Ghislanzoni e lo pregò di scrivergli due strofe per un solo di Aida all’inizio del terzo atto:

Caro signor Ghislanzoni,

Non la spaventi una mia lettera!… Si tratta di pochi versi. Voglio rifare la musica del primo coro dell’atto terzo che non è abbastanza caratteristica; e, poiché sono in ballo, amerei aggiungere un pezzettino solo per Aida, un idillio com’ella disse altra volta. […] Ecco come io intenderei questa scena; e s’ella conviene meco, mi faccia il piacere di farmi le due strofe di cui abbisogno.

ATTO III. - SCENA I.

(Coro interno e scena Amneris e Ramfis come sta. Aida entra cautamente coperta d’un velo.)

Recitativo

Qui Radames verrà… Che vorrà dirmi?

Io tremo… Ah se tu vieni

A recarmi, o crudel, l’ultimo addio,

Del Nilo i cupi vortici

Mi daran tomba e pace forse, e oblio!

[...]3

Dato che nel seguito di questo intervento non tratteremo della nuova ‘aria del Nilo’, bensì della precedente versione di questa scena senza la ‘canzone’ strofica, non abbiamo riportato le riflessioni di Verdi sul solo di Aida; nella lettera citata il compositore invia già una redazione in prosa del testo che desidera. Verdi vuole quindi inserire un ‘idillio’ per la protagonista, dopo che dieci mesi prima in una fase iniziale del lavoro aveva cassato un solo di Aida dal libretto di Ghislanzoni.4 Ma soprattutto vuole «rifare la musica del primo coro dell’atto terzo che non è abbastanza caratteristica». E il discorso riguarda davvero soltanto la musica, visto che Verdi in questa stessa lettera scrive: «Coro interno [dal tempio] e scena Amneris e Ramfis come sta». Anche i cinque versi di Aida in recitativo annotati di seguito a questa didascalia ‘registica’ erano già presenti nella prima versione. Verdi cita questo passo soltanto per spiegare come collegare al contesto i versi nuovi ancora da scrivere per l’assolo di Aida.

Ma perché a Verdi la musica del coro di sacerdoti non sembrava «abbastanza caratteristica»? Una settimana dopo, in una lettera a Giulio Ricordi, dà di questo coro a quattro parti una valutazione sarcastica:

«Son dunque di scappata a Torino col mio bravo pacchetto di musica alla mano! - Peccato! Se avessi un Piano Forte ed un metronomo vi manderei stasera il terz’atto.

Come vi scrissi, ho sostituito un coro e Romanza Aida, ad altro Coro a 4.° voci ben lavorato ad imitazioni uso Palestrina, che avrebbe potuto farmi buscare un bravo dai parrucconi e poteva con questo aspirare (checché ne dica Faccio) ad un posto di contrappuntista in un qualche Liceo qualunque. Ma mi sono venuti degli scrupoli sul fare a Palestrina, sull’armonia [,] sulla musica egiziana! … Infine, è destinato!… non sarò mai un Savant in musica: sarò sempre un guastamestiere...»5

Il coro originale, quindi, era condotto in stile imitativo secondo il modello palestriniano e gli avrebbe potuto guadagnare l’ammirazione dei pedanti reazionari, oltre che magari persino un posto come insegnante di contrappunto nelle scuole (a dispetto di quel che poteva pensarne Faccio, direttore in pectore della rappresentazione milanese di Aida). Ma essendogli venuti degli scrupoli nell’usare il Palestrina in luogo della musica egiziana, ai primi dell’agosto 1871 accanto alla cosiddetta ‘aria del Nilo’ aveva composto anche un nuovo coro di sacerdoti in mi minore, e inoltre proprio in questa occasione ripensò radicalmente l’esordio strumentale di questo quadro di natura.

Una partitura ormai ultimata

Un secolo e mezzo dopo la composizione di questo coro ‘alla Palestrina’ siamo in grado di verificare le valutazioni autocritiche di Verdi. Negli abbozzi resi accessibili dall’autunno del 2019, e già trasportati da Villa Sant’Agata all’Archivio di Stato di Parma all’inizio del 20176, si è conservata una bella copia della partitura ormai ultimata della prima scena del terzo atto:7 in tutto 108 battute (principalmente in fa maggiore), che nella versione definitiva, l’unica finora conosciuta, furono sostituite da 91 battute per la prima scena (che ora oscilla fra mi minore e sol minore) e altre 60 battute per l’assolo di Aida aggiunto ex novo. Come in quattro occorrenze del Don Carlos8, Verdi ha tolto dalla partitura questa sezione già conclusa, ma espunta nella fase finale di stesura dell’opera, e l’ha messa da parte fra i cosiddetti «abbozzi».

Il confronto delle due versioni mostra un sensibile raffinarsi della situazione. Per il coro dei sacerdoti Verdi compose sul medesimo testo una melodia all’unisono che suona esotica, accompagnata da suoni armonici dei violoncelli, mentre in un primo momento per questo passo (bb. 13-36 e 60-70) aveva previsto un coro a cappella a quattro voci in ‘stile antico’. Un solenne preludio orchestrale, simile a un esercizio sulle cadenze plagali (bb. 1-12), il cui tessuto motivico diventa successivamente la base per il dialogo tra Amneris e Ramfis (bb. 37-51) fu sostituito da un’immagine sonora materica, che guarda già molto in là nel futuro ed è stata giudicata non senza ragione come preannuncio di impressionismo musicale.9

Il testo librettistico è identico per lunghi passi in entrambe le versioni.10 Però Verdi cassò nella sua rielaborazione quattro versi di recitativo per Aida che invece nella prima redazione aveva musicato (bb. 83-89):

Astri del cielo azzurro

Copritevi d’un vel… M’avvolgi, o notte,

Nel lugubre tuo manto…

Cela a tutti il mio duol… cela il mio pianto.11

Nella riscrittura invece Verdi ha mantenuto pressoché identici tre passi: il breve monologo di Amneris («Sì: io pregherò che Radamès mi doni»; bb. 51-56, ossia 45-50 nella versione definitiva), l’introduzione orchestrale prima dell’ingresso di Aida (bb. 71-82), che peraltro in quest’occasione fu trasposta da si bemolle maggiore a do maggiore (bb. 66-77 nella versione definitiva) e quattro battute nel cantabile del recitativo di Aida («Del Nilo i cupi vortici»; bb. 99-102), che nella versione definitiva compaiono abbassati di un tono, in re minore anziché in mi minore (bb. 85-88).

Lungo esempio musicale fino a p. 152 compresa

didascalia: Esempio musicale 1: bb. 1–109 della prima versione della prima scena del terzo atto,

© Anselm Gerhard 2020, Layout: Michael Matter

Confrontando le due versioni si osservano ritocchi minuscoli, ma di notevole effetto, come per esempio il maggior risalto ritmico nel monologo di Amneris, dove Verdi abbrevia la sillaba ‘mi’ assegnandole un sedicesimo anziché un ottavo come in precedenza:

Esempio 2

didascalia: esempio musicale 2: b. 53 s. della prima versione in confronto con b. 47 s. della versione definitiva

In un altro punto sorprende la rinuncia a un’accentuazione drammatico-musicale evidente: nella prima versione Verdi aveva rimarcato il cambio di prospettiva - dalla ripetizione del coro di sacerdoti all’interno del tempio all’anticipazione dell’ingresso in scena di Aida - con un tremolo dei timpani (b.71), al quale soltanto nella battuta seguente seguono i tremoli sfarfallanti dei primi violini, che qui accompagnano il ‘Leitmotiv’ di Aida. Nella versione definitiva, invece, al posto del tremolo di timpani si sente risuonare già in questa battuta un tremolo del violini secondi sul sol3 (b.66). Ciò appare motivato dal fatto che questa nota si aggancia direttamente agli arpeggi dei violini sul medesimo sol, arpeggi già presenti nell’introduzione strumentale di questa scena e ripresi quando il nuovo coro di sacerdoti viene ripetuto.

La sorpresa più grande viene invece da uno sguardo più approfondito sul coro ‘alla maniera del Palestrina’. Meno di tre anni più tardi Verdi ne ha riutilizzato la musica quasi senza modifiche nella Messa da Requiem, dove il passo a quattro voci a cappella sul testo «Te decet hymnus» si distingue dalla prima versione del coro «O tu che sei d’Osiride» solo per la notazione (4/4 anziché 4/2, quindi semiminime al posto delle minime antichizzanti come valore di base), per il testo che gli si abbina e per le ultimissime battute. Le bb. 13-30 della prima versione del terzo atto di Aida corrispondono anche nei minimi particolari alle bb. 28-46 del primo brano della Messa funebre per Manzoni; soltanto la pausa retorica efficacissima alle bb. 42-43 è stata aggiunta da Verdi nel 1874.

Questa circostanza solleva quesiti cruciali sulle due composizioni degli anni Settanta. La decisione di far cantare i sacerdoti di Iside in stile neo-palestriniano mostra quanto la drammaturgia di quest’opera egiziana sia stata condizionata dal modo in cui veniva percepita la chiesa cattolica nell’Italia contemporanea. In questo contesto è rilevante anche un dettaglio delle riflessioni verdiane su quale fosse l’allestimento appropriato della sua opera: il 13 dicembre 1871 si trova all’interno di un elenco dettagliato una precisazione sull’accessorio di scena da attribuire al portainsegne nel corteo trionfale del secondo atto, ossia un flabello piumato:

2.° Il porta-insegne, credo intendiate dire i flabelliferi… non mi pare sia quella la forma del flabello ma se fosse anche così, la modificherei e la renderei più teatrale accostandomi a quello che portano a Roma nelle funzioni papali / se ben mi ricordo.-12

Verdi riteneva quindi particolarmente ‘teatrali’ le allusioni dirette ai riti vaticani del suo tempo. Perché però allora volle attenuare le analogie fra la chiesa cattolica della modernità e i sacerdoti dell’Egitto ai tempi dei Faraoni, suggerite nella prima versione anche alle orecchie del suo pubblico? O si trattava ‘soltanto’ di rendere percepibile in questo primo breve momento di tregua del dramma il colore locale egizio? Un colore locale egizio, beninteso, dovuto a una finzione bell’e buona: Antonio Ghislanzoni si trovò tredici anni dopo a parlare senza giri di parole di questo bricolage, quando riprodusse un dialogo (fittizio? O improntato a effettive esperienze con Alfredo Catalani e la sua opera Elda?) con un compositore esordiente. Avendo questi insistito perché il suo primo lavoro avesse il «colore speciale» della Scandinavia, Ghislanzoni avrebbe risposto:

Non è il paese che deve fornire il colore, ma bensì l’artista che deve fornirlo al paese. Crede lei che il Verdi abbia attinto dal Nilo quei melanconici susurri [sic!] musicali che inaugurano il terzo atto dell’Aida? In una bella notte d’estate, sotto un bel chiaro di luna, il grande maestro può aver concepito i colori di un fiume egizio in riva al suo laghetto di Sant’Agata.13

Senza dubbio la nuova stesura - concepita d’altronde effettivamente in piena estate - rappresenta un decisivo miglioramento sotto il profilo musicale e drammaturgico. Per quanto stuzzicante appaia l’idea di ascoltare finalmente in concerto gli otto minuti circa di musica della prima versione, sarebbe altrettanto fuorviante collaudare in teatro questa resa davvero molto meno caratteristica della scena sulle sponde del Nilo - che resta infinitamente indietro rispetto alla versione definitiva. E ciò non solo per ciò che riguarda il colorito inconfondibile delle parti composte ex novo, bensì anche in relazione alla modulazione da sol maggiore attraverso mi minore e re maggiore indietro verso mi minore alle bb. 82-99. Nella progressione armonica delle bb. 89-95 si incontrano alcune durezze, come la transizione repentina da re maggiore a si maggiore alle bb. 94-95 nella problematica ripartizione delle note principali fra le varie voci, oppure il procedere a sequenza delle bb. 89-92, dove si può discutere se per le viole a b. 92 non possa intendersi un fa diesis al posto del fa naturale effettivamente segnato.

Guardando alla Messa da Requiem si pongono domande ancor più spinose: quel che per un’opera non è «abbastanza caratteristico», dovrebbe invece essere abbastanza buono per una composizione ad uso liturgico? La conoscenza di questi collegamenti impensati getta nuova luce anche sul giudizio stroncatorio di Hans von Bülow, per il quale la composizione religiosa di Verdi sarebbe «un’opera coi paramenti liturgici»14. È vero che nella Messa da Requiem non c’è alcuna struttura formale che rimandi all’opera. Però il riutilizzo di un pensiero destinato in origine al teatro si va ad affiancare alla scelta verdiana (individuata già mezzo secolo fa) di riprendere il lamento funebre di Filippo sul cadavere di Rodrigo nel quarto atto del Don Carlos («Qui me rendra ce mort») per il «Lacrymosa» alla fine della sequenza della sua Messa da Requiem - lì beninteso con interventi radicali nella struttura e nel decorso di un passo espunto dalla versione francese dell’opera già durante le prove.15

La scappatella verdiana nei ranghi dei compositori impegnati in calchi palestrianiani non fu vista peraltro esclusivamente di buon occhio dalla critica del tempo. È vero che in un resoconto della stampa viennese condotto sulla base di uno studio approfondito dello spartito per canto e pianoforte apparso già nel giugno 1874 si legge:

«Come nel Palestrina l’armonia si deve sottomettere all’autonomia delle singole voci in un modo tale che questa musica talvolta ci suona sconcertante, così nel lavoro di Verdi, che potrebbe definirsi un compromesso tra la scrittura moderna e l’antica, quest’autonomia è di nuovo elevata a principio stilistico».16

Ancor più entusiasmo mostrò il critico milanese Filippo Filippi nella sua recensione alla prima esecuzione:

«[D]opo poche battute di minore, in tuono mestissimo, succede il maggiore, che serve d’ingresso ad un corale a voci sole ad imitazione, scritto nel grande stile dell’arte classica: un pezzo veramente da Chiesa».17

E proprio August Wilhelm Ambros, all’epoca uno dei massimi conoscitori di musica rinascimentale, andò in visibilio con esuberanza di termini per una composizione che lascia sì riconoscere nella condotta delle voci e nell’uso dei ritardi alcuni principi costruttivi dello stile palestriniano, ma che poi li inserisce in un’armonia per terze e tutta improntata al dualismo maggiore/minore, con tanto di accordi di seconda, quarta e sesta in funzione di dominante:

«Dove il testo lo richiede, la musica si fa esclusivamente cerimonia, consacrazione, preghiera. Pare che nel vedere le Stanze di Raffaello in Vaticano Michelangelo esclamasse: «Sanzio è stato nella Cappella Sistina». Nel ‘Te decet hymnus’ si è tentati di esclamare: Verdi è stato nella Cappella Sistina!»18

Al contrario Theodor Helm, uno dei più celebri antagonisti di Eduard Hanslick, scrisse nel suo commento alla prima esecuzione viennese:

«Ci dice meno il breve fugato nel ‘Te decet Hymnus’, in cui l’artificio esteriore viene troppo allo scoperto».19

In tempi più recenti David Rosen ha richiamato l’attenzione sulla funzione eminentemente drammaturgica di questo coro «Te decet hymnus»:

«La scrittura a cappella, l’imitazione, l’austerità del materiale melodico - tutti elementi atti a evocare lo stile antico [in italiano nel testo] - servono una volta ancora a distanziare il Requiem di Verdi dal mondo profano dell’opera: Verdi ce lo fa capire subito».20

A un primo sguardo questa descrizione può sembrare un puro errore di valutazione, se vista alla luce della redazione anteriore del terzo atto di Aida ora ritrovata. Ma se ci riflettiamo meglio, resta invece valida non meno di prima. Perché è vero che nella Messa da Requiem a Verdi sta a cuore distinguere un inno latino dalle convenzioni della musica teatrale dell’epoca. Il fatto che questo inno non avesse come luogo di nascita la Cappella Sistina, ma fosse stato concepito per così dire sulle sponde del Nilo non svaluta l’osservazione di Rosen. Perché anche nella sua opera orientaleggiante a Verdi importava distinguere la gravità dei sacerdoti dal mondo profano degli amanti. Che questo dovesse riuscirgli ancor meglio contrapponendo direttamente un coro divenuto ora unisono a una nuova scena solistica per Aida dimostra una volta di più il suo infallibile fiuto drammatico. Il citato Ambros non si immaginava di certo quale doppio senso potesse contenere una frase della sua recensione alla Messa da Requiem, una volta letta alla luce della versione che qui abbiamo presentato:

«Su alcune assonanze con l’Aida vogliamo qui sorvolare, ma è davvero ingiusto da gridar vendetta voler dire: “musica in stile dell’Aida, ma applicata a un testo liturgico”».21

Abstract:dalle carte del lascito verdiano di Villa Sant’Agata, consultabili dalla primavera 2019 presso l’Archivio di Stato di Parma, è riemersa la versione originaria dell’attacco del terzo atto di Aida – un centinaio di battute, per circa otto minuti di musica -, ancora priva dell’originale attacco strumentale, dell’aria solistica di Aida “O cieli azzurri”, ma soprattutto - per quel che interessa il presente saggio - con un coro a quattro voci ‘alla Palestrina’ di cui Verdi parla in alcune lettere e di cui s’era persa traccia. In origine Verdi aveva voluto differenziare il linguaggio arcaico e solenne dei sacerdoti egizi da quello dei protagonisti assegnandogli una scrittura neo-palestriniana, a cappella e a quattro voci. Dopo l’interruzione dovuta all’assedio di Parigi, e al conseguente mancato invio al Cairo delle scene che erano state commissionate all’Opéra, Verdi riprendendo in mano il lavoro nell’agosto 1871 giudicò che la soluzione ‘alla Palestrina’ non fosse abbastanza caratteristica e la sostituì con il coro unisono esotizzante che conosciamo. Il ritrovamento dei fogli che Verdi tolse dalla partitura rivela ora due cose: la prima è che questo esordio, espunto e messo da parte, era già completato e addirittura in bella copia; la seconda, che si tratta della stessa musica usata per il «Te decet Hymnus» del Requiem composto nel 1874 alla memoria di Alessandro Manzoni. In margine a queste constatazioni l’articolo riflette sulla percezione che nell’Italia verdiana si aveva della musica liturgica e sul rapporto tra musica teatrale e musica da chiesa, anche in relazione ai giudizi non sempre concordi sulla partitura della Messa da Requiem.

1Cfr. al riguardo Luca Zoppelli, Die Genese der Opern (II): Kompositionsprozess und Editionsgeschichte, in Verdi Handbuch, a cura di Anselm Gerhard e Uwe Schweikert, Stuttgart, Metzler2 2013, pp. 252–269: 265. Sul caso singolo e abbastanza complicato del Falstaff cfr. James A[rnold] Hepokoski, The compositional history of Verdi’s «Falstaff»: a study of the autograph score and the early editions, PhD. diss. Harvard University 1979.

2Cfr. Antonio Rostagno, Ouverture e dramma negli anni Settanta: il caso della sinfonia di ‘Aida’, in «Studi verdiani» 14 (1999), pp. 11-150, qui 22 ss.

3Lettera di Verdi ad Antonio Ghislanzoni, 5 agosto 1871, in I copialettere di Giuseppe Verdi, a cura di Gaetano Cesari e Alessandro Luzio, Milano, Stucchi Ceretti 1913, p. 674 s.

4Cfr. la lettera di Verdi ad Antonio Ghislanzoni, 7 ottobre 1870, ivi, p. 650.

5Lettera di Verdi a Giulio Ricordi, 12 agosto 1871, qui riportata secondo l’edizione digitalizzata dell’originale: https://www.digitalarchivioricordi.com/it/letter/display/LLET001184 (31 gennaio 2020) La stampa pubblicata in I copialettere di Giuseppe Verdi (come n. 3), p. 676 (lì con la data sbagliata «12 novembre 1871») segue invece la copia della lettera rimasta in possesso di Verdi. Nell’originale della lettera inviata si legge «Torino 12 9 1871». Qui Verdi si è evidentemente sbagliato di mese, dato che nella sua lettera del 14 agosto 1871 al medesimo Giulio Ricordi leggiamo: «Eccovi il Terz’atto come ve ne avvertii colla mia lettera da Torino»; cfr. la versione digitalizzata dell’originale: https://www.digitalarchivioricordi.com/it/letter/display/LLET001175 (31 gennaio). Su questo problema di datazione cfr. anche Verdi’s «Aida»: the history of an opera in letters and documents, a cura di Hans Busch, Minneapolis, University of Minnesota Press 1978, p. 202.

6Cfr. Mauro Balestrazzi, Il baule scoperchiato, «Classicvoice 215» (aprile 2017), pp. 22-25. Voglio ringraziare di cuore Graziano Tonelli e Lorenzana Bracciotti dell’Archivio di Stato (Parma) per la loro gentile disponibilità durante il lavoro sulle fonti digitalizzate nel dicembre 2019; Fabrizio Della Seta (Roma) per il mutuo scambio sugli argomenti qui sviluppati e le inestimabili sollecitazioni; Michael Matter (Basilea) per la realizzazione degli esempi musicali e i preziosi suggerimenti nel valutare le scelte editoriali.

7Il fascicolo 37, numerato a matita da mano ignota come «37° f» comprende in tutto 40 pagine (f. 149–168’), comprende una bella copia in partitura del duetto Aida-Amonasro fino a b. 203 (b. 25 dopo I) con alcune piccole varianti rispetto alla versione definitiva. Su f. 174 e 199’ degli «abbozzi» si trovano inoltre abbozzi di partitura per le bb. 13–36 della prima versione. Qui numerose correzioni mostrano quante diverse soluzioni Verdi sperimentasse per la deviazione sul re minore alle bb.23-25. In più f.174’ conserva un abbozzo per le bb. 37-61 della prima versione, anche in questo caso con alcune varianti.

8Vedi oltre

9Cfr. per esempio Kurt Honolka, Ewige Nacht über Barbarien. Verdis ‘Aida’ in Stuttgart, «Opernwelt» 20 (1979), 12, pp. 23-24: 24: «come suonò asciutto, ben lontano dalla geniale intuizione verdiana dell’impressionismo, l’etereo preludio sul Nilo!»; Wolf-Dieter Peter, «Ich bin ein Mann des Theaters!». Aspekte der Verdi-Interpretation, in Verdi-Theater, a cura di Udo Bermbach, Stuttgart/Weimar, Metzler 1997, pp. 223–237: 228: «il profumato pre-impressionismo al principio dell’atto sul Nilo»; Elvio Giudici, Il teatro di Verdi in scena e in DVD, Milano, il Saggiatore 2012, p. 39: «tutto questo modernissimo impressionismo musicale».

10Peraltro alle bb. 25-28 della prima versione Verdi ha usato il testo «desti ai mortali in cor», benché alle bb. 22-23 avesse scritto per la parte dei bassi - in accordo coi libretti - «agli umani». Una svista? Nella nostra trascrizione non abbiamo normalizzato l’incongruenza, così come non abbiamo uniformato la divergenza del frammento di scala (quasi) cromatica nella seconda metà di b. 102 con la redazione di b. 88 della versione definitiva.

11L’interpunzione segue il libretto bilingue della prima assoluta al Cairo: cfr. A[ntonio] Ghislanzoni, Aida. Opera in 4 atti e 7 quadri / Aïda, Opéra en quatre actes et 7 tableaux, Cairo, Delbos-Demouret, p. 54. Lì questi versi furono stampati anche se Verdi, in una lettera del 7 settembre 1871 a Giulio Ricordi, aveva preteso espressamente che fossero cassati dal libretto a stampa; cfr. Franco Abbiati, Giuseppe Verdi, vol. III, Milano, Ricordi 1959, p. 480, e la riproduzione digitalizzata della lettera originale: https://www.digitalarchivioricordi.com/it/letter/display/LLET001183 (31 gennaio 2020). Cfr. anche John Richard Kitson, Verdi and the evolution of the «Aida» libretto, PhD. diss. The University of British Columbia, 1985, p. 764, n. 55; Giuseppe Verdi, Aida, a cura di Eduardo Rescigno, Milano, Ricordi 1985, p. 55, n. 17.

12Lettera di Verdi a Giulio Ricordi, 13 dicembre 1971; parzialmente riportata in Franco Abbiati, Giuseppe Verdi, vol. III Milano, Ricordi 1959, p. 524; qui controllato sulla versione digitale: https://www.digitalarchivioricordi.com/it/letter/display/LLET001317 (31 gennaio 2020).

13A[ntonio] Ghislanzoni, Confidenze, «Gazzetta musicale di Milano» 39 (1884), pp. 229-230 e 239-240 (nn. 24 e 25 del 15 e del 22 giugno); qui p. 240; anche sotto il titolo: Giovane e sconosciuto, in Ghislanzoni, Capricci letterari. Unica edizione completa, vol. I, Bergamo, Cattaneo 1886, pp. 101-116, qui 114-115.

14Hans v[on] Bülow, Musikalische aus Italien, I, «Allgemeine Zeitung» [Augsburg], 21 maggio 1874, pp. 2293-94, qui 2293; anche in Bülow, Ausgewählte Schriften 1850-1892, Lipsia 1896 (Briefe und Schriften, 3), pp. 340-352: 341.

15Cfr. David Rosen, The operatic origins of Verdi’s «Lacrymosa», «Studi verdiani» 5 (1988/89), pp. 65-84.

16Franz Gehring, Verdi’s Requiem für Manzoni und seine Kritiker, «Deutsche Zeitung» [Vienna], 16 luglio 1874, pp. 1-2: 2.

17Filippo Filippi, Verdi, «La Perserveranza» [Milano], 23 maggio 1874; qui citato da La Messa da Requiem di Verdi [l prime imrpessioni della critica milanese], «Gazzetta musicale di Milano» 29 (1874), pp. 163-167 (n.21 del 24 maggio); qui p. 164.

18A[ugust] W[ilhelm] Ambros, Verdi’s Requiem, «Wiener Abendpost. Beilage zur Wiener Zeitung», 12 giugno 1875, pp. 3-4: 4; anche in Ambros, Musikaufsätze und -rezensionen 1872–1876. Historisch-kritische Ausgabe, a cura di Markéta Štědronská, vol. II (1874–1876), Vienna, Hollitzer 2019, pp. 340–345: 344; per altri giudizi favorevoli cfr. anche Torsten Roeder, Die Rezeption der Messa da Requiem von Giuseppe Verdi im deutschsprachigen Raum 1874–1878, Diss. phil. Würzburg 2017, p. 167 s.

19h- [Theodor Helm], Verdi’s ‘Manzoni’-Messe, «Neues Fremden-Blatt» [Vienna], 13 giugno 1875, pp. 1-4: 1.

20David Rosen, Verdi: Requiem, Cambridge, Cambridge University press 1995, p. 19.

21Ambros, Verdi’ Requiem (cfr. n. 18), p. 3 (p. 343).


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