Seicento operistico senza buon esempio
L’inattendibilità storica e filologica dell’edizione eseguita invalida il volonteroso allestimento dell’Orontea di Antonio Cesti al Teatro alla Scala, trascinando con sé la direzione di Giovanni Antonini e unendosi all’irrisolta regìa di Robert Carsen. Nella compagnia di canto, spadroneggiano gli italiani: in particolare Luca Tittoto e Carlo Vistoli.
MILANO, 30 settembre 2024 – «Eccezionale la genuinità di questa ciambella!». Come Ernst Gombrich insegna, non ci sono ragioni sbagliate per godere esteticamente di qualcosa, bensì possono essercene per non goderne, con cruccio del critico musicale che preferirebbe una via più facile onde esporre le proprie conclusioni. Se però dalla ciambella di eccezionale genuinità si scoprono mancare la farina e lo zucchero, il latte e le uova, il burro e il lievito, rimpiazzati con certi ingredienti qualche volta conosciuti e qualche altra no, sospesi tra l’esotico, l’estraneo e l’industriale, i complimenti sono impropri, anche se il pasticcere è di fama, e sale un dubbio preoccupante: «sicuri di sapere cosa sia una ciambella?». Raccontata la parabolina gastronomica, non resta che passare al fatto artistico. L’Orontea di Antonio Cesti, creata nel 1656 su modello veneziano ma per la corte tirolese di Ferdinando Carlo d’Asburgo, fu una tra le più fortunate opere del suo secolo, con decine di allestimenti, per trent’anni, in Italia e in Germania; la sua fama è stata tramandata ai nostri giorni soprattutto per via di un’aria, «Intorno all’idol mio», passata di mano in mano e canonizzata nei celebri volumi di brani antichi raccolti da Alessandro Parisotti; finita l’epoca del pionierismo che procede a tentoni, riscrivendo ciò che non riesce a capire, la sua reale fisionomia è oggi accessibile a tutti: un prologo e tre atti corrispondenti a tre ore di musica, undici parti vocali ben equilibrate tra loro – la protagonista del titolo e l’ultimo dei comprimari, cioè, richiedono una quasi pari dotazione vocale e cura interpretativa – e un organico strumentale esemplato su quello della sonata a tre, dunque costituito – non c’è nulla di strano o perduto: all’epoca era quasi sempre così – da due violini di numero, che intervengono solo nelle arie, e un basso continuo bisognoso di non oltre due-tre esecutori.
Al Teatro alla Scala, per cinque recite dal 26 settembre al 5 ottobre, L’Orontea è però andata in scena sulla base di una disinvolta edizione, che la sofistica, curata da una persona ignota alla bibliografia cestiana o filologica: le due ben distinte versioni note vi figurano rimescolate a vicenda; sono effettuati tagli a volontà, a partire dall’intero prologo; a dimostrazione che il problema non sono le tre ore di durata, risultano nel contempo aggiunte a iosa sinfonie di varia origine; una ristrumentazione tannhäuseriana dà ora campo a undici archi, due tastiere, due tiorbe, viola da gamba, lirone, arpa, dulciana e due flauti, a costo di travisare corpo, timbrica e ricorrenza dell’ensemble originale, per guadagnare una miseria in fatto di decibel e spazialità (se si vuole raddoppiare il suono di un singolo strumento, o almeno darne illusoria percezione, la fisica insegna che occorre moltiplicare non per due, ma per quattro o otto volte due, e occupare ben distanziati tutto lo spazio a disposizione: ciò che alla Scala, con tutti stretti intorno al direttore, non è stato fatto, auto-sabotandosi in quell’enorme sala). E così via: la lista intera delle licenze inutili e dei consecutivi problemi costerebbe eccessiva pazienza a chi scrive e a chi legge.
Spiace che il concertatore designato sia Giovanni Antonini, esperto di letteratura musicale tardo-barocca, classica e proto-romantica, soprattutto sul fronte sinfonico, assai più che di opera veneziana secentesca: per paradosso di auto-contraddizione, proprio le sue esecuzioni alla testa dell’ensemble “Il giardino armonico” dimostrarono, lustri or sono, quali superbi temperamento e abbondanza di suono si potessero cavare da un solo strumento per parte. Spiace anche che per lo scempio del testo cestiano sia sospettato il concorso del regista, Robert Carsen, il quale ricorda in ogni suo lavoro la cifra dell’artista sommo, ma insieme pare sempre più spesso, pigramente, non arrivare a soluzioni persuasive. Nella sua lettura con scene e costumi di Gideon Davey ha luogo – dopo il taglio del prologo – una trasposizione socio-spazio-temporale, ove la protagonista, circondata da una corte dovuta qui alla corona e là al denaro, passa da antica regina d’Egitto a direttrice di una galleria d’arte contemporanea nella Milano dei grattacieli; bene, si può fare: ma, una volta mutato ciò che gli occhi vedono, ossia la confezione e non la sostanza, quale nuova e imperdibile drammaturgia, causa della trasposizione, il pubblico dovrebbe recepire e alle somme non gli è dato cogliere?
Delicato, a tratti amaro e polemico, è infine il resoconto intorno alla compagnia di canto. Nell’Orontea come nel grosso delle opere coeve, il problema consiste non nelle note da intonare e articolare, di per sé accessibili anche un amateur, bensì nel veicolarvi sopra con talento scenico, sapienza di affetti e delizia stilistica le situazioni e i versi del libretto: il mezzosoprano Stéphanie d’Oustrac come protagonista, il controtenore Hugh Cutting come Corindo, il contralto Marcela Rahal come Aristea e il soprano Maria Nazarova come Giacinta non solo sono vocalisti d’impostazione disparata e dunque mal assortiti tra loro, ma anche condividono una pratica della prosodia italiana tuttora troppo incerta per dare sapore alla parola e scioltezza alla musica. Perché non sono state fatte carte false pur di assicurare alla stagione del primo teatro d’Italia un’Orontea col nome di Anna Caterina Antonacci? Perché intorno a lei non si è contato su una Teresa Iervolino o una Francesca Aspromonte? Perché, dopo il forfait per infortunio di Marianna Pizzolato, ci si è accontentati di un rimpiazzo di rango comparabile nemmeno alla lontana?
Dal gruppo dei non madrelingua si distingue Sara Blanch, la spigliata, limpida, raffinata belcantista catalana – ma ormai italiana d’adozione – che per il proprio debutto alla Scala avrebbe meritato una parte assai più significativa di quella, fanciullesca, di Tibrino. Spadroneggiano, per contro, gli italiani, e per il semplice fatto di saper porgere le parole con idiomatica varietà, scontatezza e malizia, potendosi così occupare senza impaccio delle rispettive, spontanee, lumeggiate linee canore: è il caso del basso Mirco Palazzi come Creonte e del soprano Francesca Pia Vitale come Silandra, ma si passa in scala gigante nel riferire dei meriti dell’altro basso Luca Tittoto, come Gelone di sontuoso, titanico spessore buffonesco, e di quelli di Carlo Vistoli, che come Alidoro conferma d’essere il massimo controtenore italiano e forse del mondo, non solo sul fronte virtuosistico, che Cesti non sollecita, ma anche su quello espressivo, che in Cesti vale tutto. Possono però bastare cinque cantanti a far sì che quest’Orontea dia un esempio buono?
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